di Alberto Basoalto
Jacques Derrida è uno degli intellettuali tra i più discussi del nostro secolo. Il suo approccio, le linee di ricerca da lui seguite attraverso una sconfinata produzione che conta un centinaio di opere, impongono alcune riflessioni che, per necessità e per complessità, sono destinate a rimanere tali e parziali. Derrida, come è noto, proviene da un solido filone filosofico di riferimento e si è ampiamente e apertamente confrontato con i grandi del pensiero per, poi, avventurarsi in un cammino originale, singolare. La complessità di alcuni suoi scritti non ha certo facilitato tuttavia, e come sostengono molti, la comprensione del suo pensiero. Amato o considerato ai margini della filosofia, Jacques Derrida resta una delle personalità più affascinati per le problematiche che ha inteso sollevare e che, volente o nolente, stanno al cuore del dibattito filosofico contemporaneo. Derrida stesso sosteneva come non esistesse una filosofia derridiana e, classificarlo o meno tra i filosofi, non ci favorisce nella comprensione del suo pensiero. Deleghiamo, con piacere questo esercizio classificatorio agli storici del pensiero o a eventuali necessità di tutela della categoria.
Anzi, potrebbe essere proprio questa opposizione filosofo/non filosofo un utile spunto per iniziare a parlare di logocentrimo e di differance. D’altro canto, occorre evitare, nell’accostarsi a Derrida, essere tentati dal voler ricostruire là dove il nostro autore ha decostruito. Impossibilità e inutilità che alcuni commentatori hanno approfonditamente descritto[1].
Ma cosa significa decostruzione? Nella Grammatologia, Derrida sembra far propria quella necessita espressa da Heidegger, in Essere e Tempo, di de-sedimentare la conoscenza dell’essere da tutte quelle incrostazioni che si sono costruite intorno ad esso nel corso della storia del pensiero. Derrida intende procedere in questo percorso non in senso storico, ma strutturale. La decostruzione si comporrebbe di tre fasi: l’epochè, differenza e dialettica. L’epochè, la sospensione del giudizio, proprio quella che Montaigne aveva inciso, come motto di pirroniana memoria, nella parete del suo studio, viene qui posta in senso morale, assiologico. Cosa ci impedisce di considerare in modo diverso le coppie concettuali su cui è basato il pensiero occidentale, come, ad esempio, bene/male, anima/corpo ecc.? [2]. La differance ci invita a sostituire un termine all’altro, non annullando la differenza. La differance è qualcosa che unisce i due termini e li tiene insieme in modo dialettico, in una dialettica senza una fine. Perché la differenza, è differance, cioè insieme differenza e differimento, rinvio, nel tempo. Si è volutamente scritto, come Derrida, la parola francese difference, differance, sostituendo la e con la a. Le due parole sono sostanzialmente omofone e costituiscono, e qui la polemica con de Saussure, un inganno per l’uditore. Qui è , molto in sintesi, circoscritto l’altro asse di lettura del pensiero derridiano, quello della critica al logocentrismo/fonocentrismo della filosofia occidentale.
In Psychè invenzione dell’altro, Derrida ci dà ancora una volta un mirabile esempio di questo logocentrismo occidentale. Nell’ introduzione, utilizza la metafora dello specchio, di uno specchio mobile della sua scrittura che, riflettendosi, induce a scrivere secondo quanto riflesso. Se nulla è fuori del testo, come l’autore sostiene, cosa si può inventare di altro? Dal momento in cui ci si trova davanti al testo, preso atto dell’assenza dell’autore, del vuoto, dall’irrecuperabilità di quest’assenza, l’altro si costituisce come presenza.
Le riflessioni derridiane, in questo caso, partono da un domanda che il figlio di Cicerone pone al padre. Questi chiede, all’illustre genitore, di spiegargli in latino quei precetti sull’arte del dire che, il grande oratore, gli aveva appena illustrati in greco. Cicerone, nella risposta, sostiene che la forza di un oratore è da ricercare sia nelle cose di cui tratta, le idee, quanto nelle parole. Bisogna quindi distinguere l’invenzione che riguarda le idee, e come queste sono disposte, dalla elocuzione, che riguarda le parole che si usano e la loro disposizione.
Quando noi ci chiediamo cosa posso inventare? Introduciamo, come nella risposta di Cicerone, l’attesa che quanto si promette si dirà e la necessità di una conferma da parte dell’ altro. Una volta espressa, infatti, l’invenzione necessita di una conferma sociale attraverso una serie di convenzioni che la sua validità.
Lo scritto che apre Psychè, è dedicato allo scrittore Paul de Man, autore di un testo dal titolo Pascal’s Allegory of Persuasion. Allegoria, appunto, significa parlare di altro (ἄλλος in greco significa altro).
L’allegoria come rinvio ad altro, come alla differenza tra lo spiegare concetti in latino e greco richiesta dal figlio di Cicerone. Sono queste differenze, rinvii, anche temporali, che provocano l’emergere di una differance che, per Derrida, non va celata e della quale occorre farsi carico.
Un paragrafo della scritto in questione è dedicato alla Favola. Qui, l’invenzione ex nihilo si costruisce intorno all’essenza, è una prima volta. Derrida parte da considerazioni attorno a Favola, un testo poetico breve di Francis Ponge, a cui rimandiamo il lettore. In Favola vi è il movimento della parola per passare all’altro, attraverso quello specchio a cui si accennava, una tensione continua che trova l’altro solo nel momento in cui questo specchio si rompe. Qui, evidentemente, la morte come atto definitivo della rottura dell’oggetto riflettente. Il finale della vita, per Derrida, costituisce il momento in cui la differance ontico-onotologica appare, in qualche modo, placarsi.
Favola, è il momento in cui l’invenzione si compie, è il momento della creazione del logos per eccellenza, il momento performativo in cui questa creazione si dà. Ma, al contempo, esso è anche momento constativo, puro atto locutorio, per riprendere la distinzione di Austin.
La decostruzione di cui parla Derrida non inventa e non afferma, non lascia venire l’altro se non nella misura in cui non soltanto è performativa, ma continua anche a perturbare le condizioni del performativo e di ciò che lo distingue in modo pacifico dal constativo[3]. Siamo qui di fronte al rovesciamento, decostruzione dell’atto performativo. L’invenzione non è altro che un circolo che si riappropria di ciò che lo mette in movimento, la differance. L’altro non si inventa più. L’altro non attende l’invenzione. L’altro chiama a venire.
In questa continua dialettica, che ha radici in quella hegeliana, ma che evidentemente si distingue per l’assenza di sintesi, la filosofia, per Derrida somiglia ad una cartolina postale, la carte postale di uno dei suoi scritti più noti. La filosofia è come un cartolina postale che non arriva mai, è una missiva scritta che ha un lettore potenziale ma cessa la sua funzione proprio quando arriva all’indirizzo del destinatario.
Per questo, non possiamo se non concordare con chi sostiene, con varie sfumature, che la differance derridiana sia, per la continua necessità, insita nella decostruzione, di costruire qualcosa di diverso, anche una differrance.
Jacques Derrida
Psyché
Invenzioni dell’altro
Volume I
Jaca Book, 2020
[1] cfr. Simone Regazzoni, Jacques Derrida, Feltrinelli, 2018
[2] Cfr. Maurizio Ferraris, Introduzione a Derrida, Editori Laterza, 2003
[3] Jacques Derrida, Psychè, Invenzioni dell’altro, Volume I, Jaca Book, 2020, pag.66