di Gianfranco Pecchinenda
Tra i ricordi più limpidi della mia passata carriera di studente universitario, si staglia nella mia memoria la remota figura di un docente della Facoltà che, all’interno di un dibattito pubblico sulla necessità di rivedere (ed eventualmente modificare) i piani di studio dei corsi di laurea in sociologia, affermava con perentorietà l’inutilità della presenza di insegnamenti che avessero come oggetto di studio la religione.
D’altra parte, eravamo negli anni Ottanta del secolo scorso, praticamente all’apice del cosiddetto processo di secolarizzazione e si riteneva che, di lì a poco, l’oramai sopraggiunta modernizzazione avesse spazzato via gli ultimi residui di ogni atteggiamento tradizionale nei confronti dell’esistenza, a cominciare, appunto, da quello religioso.
La teoria “classica” della secolarizzazione – è opportuno ricordarlo – era fondata sulla semplice quanto efficace idea che il processo di modernizzazione portasse necessariamente con sé anche il declino della diffusione della religiosità in tutti gli ambiti esistenziali e, soprattutto, istituzionali della vita umana. Da qui, evidentemente, l’imperiosa considerazione del mio docente, di ritenere oramai la religione un fenomeno superato o in via di estinzione, cui faceva seguito la conseguente proposta didattica basata sull’idea dell’inutilità di un suo studio per la formazione di un sociologo “moderno”.
Tuttavia l’evidenza empirica (credo sia superfluo citare i molteplici esempi, che vanno dalle guerre e dalle rivolte sociali in nome dei vari fondamentalismi religiosi, all’influenza delle dottrine religiose nel determinare il voto politico in grandi società moderne come gli USA), quella con la quale ogni buon sociologo dovrebbe necessariamente fare i conti, ha clamorosamente contraddetto l’ipotesi della rigida correlazione tra crescita della modernizzazione e decrescita della religione.
Fortunatamente, nonostante un’inevitabile diminuzione di interesse nei confronti di questo fondamentale settore di studi (inutile dire che il mio docente non era certo il solo a pensarla in quel modo), i sociologi della religione, per quanto marginalizzati, hanno dal canto loro continuato a lavorare e a produrre ricerche di grande interesse e attualità, sia in Italia sia all’estero.
Pochi anni fa, nel 2017, l’editore bolognese Emi si è assunto il meritorio compito di tradurre in italiano la più significativa tra le ultime opere di Peter Ludwig Berger, certamente uno dei più importanti e influenti sociologi contemporanei. Nell’introduzione di quest’opera, edita negli Stati Uniti nel 2014 (a poco più di due anni dalla sua scomparsa) e dedicata allo studio del fenomeno religioso nell’ambito del pluralismo culturale che caratterizza il mondo attuale, lo studioso austriaco ritornava ad esplorare la questione della secolarizzazione, tema peraltro a lui molto caro e al quale aveva dedicato gran parte della sua straordinaria produzione scientifica.
La teoria sociologica della secolarizzazione, sostiene Berger in questo suo lavoro, sembrerebbe non riuscire più a dare conto di tutta una serie di fenomeni contemporanei, e si rende sempre più necessario elaborare un nuovo paradigma, in grado di affrontare l’inarrestabile diffondersi di due tipi di pluralismo, che prevedono la coesistenza di diverse religioni e la coesistenza di discorsi religiosi e discorsi secolari. Tale coesistenza – egli scrive – “ha luogo sia nelle menti degli individui sia nello spazio sociale”.
Uno dei grandi fraintendimenti della prospettiva tradizionale sulla secolarizzazione, condivisa praticamente da tutti coloro che studiavano la religione nel mondo moderno (sia dagli eredi dell’Illuminismo, come il mio vecchio professore, che accoglievano con favore il presunto “dato di fatto” del declino religioso, sia da chi, come lo stesso Berger, lo deplorava ma riteneva necessario affrontare i “nudi fatti”) era stato probabilmente quello di intendere il pluralismo come uno fra i tanti elementi della secolarizzazione; in realtà il pluralismo – la coesistenza di diverse visioni del mondo e scale di valori nella stessa società – è il grande cambiamento che la modernità ha operato, riguardo al posto della religione nelle menti degli individui, come pure nell’ordine delle istituzioni.
Tutto questo può essere associato alla secolarizzazione. Ma anche no, perché è indipendente da essa. Costituisce certamente una sfida alla fede religiosa, ma si tratta di una sfida diversa da quella della secolarizzazione.
Ed è qui che il lavoro di Berger introduce un tema, peraltro già a suo tempo teorizzato da Gino Germani e Antonio Cavicchia Scalamonti[1], che tende ad associare il processo di secolarizzazione a quello dell’individualizzazione.
Nel corso della modernizzazione, e per varie ragioni, le funzioni vitali della società che un tempo erano di competenza delle istituzioni religiose, si sono differenziate tra queste ultime e le altre (perlopiù nuove o ridefinite) istituzioni – Chiesa e Stato, religione ed economia, religione e istruzione e così via. Al di là di questo, tuttavia, Berger individua un’idea a mio parere assolutamente fondamentale: per poter funzionare, ogni istituzione deve avere un correlato nella coscienza individuale.
Pertanto, se si è verificata una differenziazione tra le istituzioni religiose e le altre istituzioni della società, tale differenziazione deve manifestarsi anche nella coscienza degli individui.
Il che implica, in altri termini, che per poter comprendere e spiegare la secolarizzazione (e la modernità), non si può evitare di metterla in relazione al processo di individualizzazione ad essa correlato, ovvero a quel complesso processo che presuppone una progressiva differenziazione e autonomia del Sé dai propri gruppi di riferimento; l’acquisizione di un rinnovato (e talvolta inedito, anche in rapporto al proprio corpo) concetto di unicità di tale Sé e, soprattutto, un’immagine pluralista del mondo circostante (anche dal punto di vista delle tecnologie e delle coordinate spazio-temporali di riferimento) e della cosmologia ad esso corrispondente.
Una volta che questa idea venga compresa – secondo Berger – tutta una massa di dati empirici acquista improvvisamente un senso nuovo. La maggior parte delle persone religiose, anche le più ferventi, operano all’interno di un discorso secolare in aree importanti della loro vita. In altre parole, per la maggior parte dei credenti non c’è una netta dicotomia, del tipo aut aut, tra fede e laicità, quanto piuttosto una costruzione fluida del tipo et et.
Nello sviluppo di questa intuizione, Berger si rifà ancora una volta ad alcuni fondamentali concetti elaborati dall’approccio fenomenologico di Alfred Schütz, principalmente quello di «realtà multiple» e quello di «strutture di rilevanza».
Quando si pensa in questi termini – scrive Berger – si ottiene una migliore comprensione di molte tra le più indecifrabili questioni importanti nella religione globale contemporanea: l’ascesa fulminea dell’evangelicalismo (soprattutto nella sua versione pentecostale) e il suo rapporto positivo con la modernizzazione; la curiosa sovrapposizione tra la Bible Belt e la Sun Belt negli Stati Uniti[2]; gli intensi dibattiti in tutto il mondo musulmano sul rapporto tra islam e modernità. Guardando il mondo da questo punto di vista, un altro concetto utile – come ricorda lo stesso Berger – è quello ideato da Shmuel Eisenstadt, di «modernità multiple». La laicità occidentale non è l’unica forma di modernità; esistono altre versioni di modernità nelle quali alla religione è accordato un ruolo molto più centrale. Se la teoria della secolarizzazione deve essere abbandonata, per sostituirla ci sarebbe bisogno, secondo lo studioso austriaco, di una vera e propria teoria del pluralismo, alla cui costruzione egli ci lascia in eredità questo importante volume.
In buona sostanza, l’invito ad analizzare con uno sguardo fenomenologico il comportamento individuale e collettivo, aiuterebbe la ricerca a rivelare anche in quegli atteggiamenti apparentemente più secolarizzati, alcuni dei componenti che caratterizzano invece, nei termini di un pluralismo religioso, l’attuale fase della modernità, il cui comune denominatore sembra essere sempre più il tentativo di superare la perdita di senso propria della dimensione immanente – l’assurda banalità dell’esistenza quotidiana – con un rinnovata (e, questo sì, confusa) richiesta di significati trascendenti.
Come ha scritto recentemente uno studioso italiano a proposito delle nuove forme di “spiritualità”, queste, diversamente dalle spiritualità religiose tradizionali basate sulla rinuncia, l’ascesi ultra-mondana e il non attaccamento alle cose di questo mondo, … assicurano già qui e ora, riuscita materiale e pace interiore, serenità e fiducia in se stessi, comfort e svago”.[3]
È così che paradigmi come quello bergeriano, danno vita a proposte di lettura della contemporaneità come quelle in cui nuovi “stili di vita”, apparentemente “secolarizzati”, tendono invece a rivelare una qualche ricerca di senso trascendente: “Nella ricerca della realizzazione del sé il lifestyle entra a pieno titolo come ‘produttore di senso’; stabilisce ambiti e luoghi dell’esplicarsi di pratiche condivise. Sono le nuove cattedrali del senso dove ognuno partecipa a modo suo.
E in questi luoghi, così diversi rispetto alla tradizione, riecheggiano atmosfere e profumi che richiamano il passato. Odore di incenso, lavorazioni artigianali di prodotti naturali come le erbe che vanno ad arricchire i cocktails, un volteggiare di mani che fanno roteare bottiglie e strumenti alchemici per poi passarli nelle mani dei clienti che, attenti, seguono il rito della preparazione di un qualcosa che berranno, che li attraverserà fisiologicamente.
“Alla mia mente – come scrive un’altra studiosa italiana – arriva l’eco dell’offertorio, con le ampolle trasportate con cura all’altare dove il sacerdote si prepara a celebrare l’ultima cena e a condividerla con i fedeli. Un po’ di fascino a questi nuovi lifestyles arriva anche da queste reminescenze di cui la nostra identità rimane impregnata. Anche un cocktail bar, allora, potrebbe dunque essere annoverato tra i luoghi “dove il nuovo e la tradizione si incontrano, a rimarcare l’esigenza imprescindibile dell’uomo a ricercare un senso al proprio vivere”.[4]
Prima di concludere questa sintetica rassegna, lascerei la parola allo stesso Berger, per sottolineare uno dei lati forse più caratterizzanti della personalità di questo straordinario studioso, ovvero la sua brillante dialettica, sempre corredata da un’opportuna dose di umorismo, che ben si coniuga con la profonda serietà dei temi trattati.
“Credo” – egli commenta nel completare la sua presentazione – che “per comprendere la religione sia di aiuto la capacità di coglierne il lato buffo, la commedia di questa specie mutante di scimmioni che cerca di discernere il significato ultimo delle galassie”.
Peter L. Berger
I molti altari della modernità.
Le religioni al tempo del pluralismo,
EMI, Bologna 2017
[1] Gino Germani, Saggi sociologici (a cura di Antonio Cavicchia Scalamonti), L’Ateneo, Napoli 1991; Antonio Cavicchia Scalamonti, La morte. Quattro variazioni sul tema, Ipermedium libri, Napoli 2007.
[2] La Bible Belt corrisponde al quarto sud-orientale degli Usa, spingendosi fino al Texas, con un’alta concentrazione di protestanti soprattutto evangelici (politicamente di orientamento conservatore); la Sun Belt è la fascia al di sotto del 37° parallelo che si estende da una costa all’altra.
[3] Berzano Luigi, Quarta secolarizzazione. Autonomia degli stili, Mimesis, Milano 2017, pp. 92-93
[4] Simona Scotti, Spirito e Spirits. Religione e lifestyles, in “Religioni e Società”, gen.-apr. 2018, p. 87