di Domenico Musicco, Agnese Pucciarelli, Roberta Guerrieri
Lavorando quotidianamente con i pazienti di un Ser.D si raccolgono, anche negli spazi non strettamente clinici, confidenze, osservazioni e richieste più o meno esplicite di consigli e aiuti pratici. Spesso gli utenti si riconoscono deficitari nell’organizzazione della loro quotidianità e lamentano difficoltà nel riempire il tempo libero, nel riuscire a esprimersi con chiarezza, nel trovare forme di svago che non comportino una spesa di denaro. Altri aspetti che spesso emergono durante il percorso di cura sono la difficoltà a mettersi nei panni dell’altro, l’incapacità di controllare pensieri che generano ansia, il riuscire a superare proprie convinzioni che condizionano negativamente possibili scelte vantaggiose.
Ci siamo chiesti, come operatori psicosociali, se i pazienti dei servizi per le dipendenze patologiche potessero essere interessati alla lettura e se questa potesse essere di aiuto al trattamento. Abbiamo quindi pensato di ampliare ulteriormente i servizi offerti ai pazienti in trattamento puntando sull’utilizzo della lettura come strumento di ausilio alla cura. Grazie alla volontà del medico tossicologo allora responsabile del servizio che qui prendiamo in esame, furono acquisiti i primi libri destinati all’apertura di una piccola biblioteca interna ad un Ser.D.
Abbiamo proposto romanzi, saggi, ma anche fumetti per stimolare la curiosità anche di lettori principianti. Gli obiettivi erano quelli di sviluppare capacità empatiche, favorire esperienze emotive e stimolare meccanismi di metacognizione. Sono stati acquisiti anche libri di fiabe, novelle e storie per l’infanzia per i pazienti che avevano figli piccoli; in questo modo si intendeva stimolare le funzioni educative nei confronti di questi ultimi. Alcuni pazienti avevano proprie preferenze, così abbiamo assecondato le scelte personali: ogni lettura offre sia l’opportunità di ampliare il proprio lessico sia l’occasione per arricchirsi di nuove informazioni. In un’ottica di condivisione e di gradimento del materiale di cui poter fruire, sono state raccolte le categorie letterarie maggiormente apprezzate e conosciute. In base a queste prime indicazioni furono acquisiti i primi sessantaquattro libri; successivamente una serie di donazioni da parte di operatori, associazioni di volontariato, biblioteche della zona e, a sorpresa, dei pazienti stessi, ha progressivamente ampliato il numero dei testi disponibili.
Questa piccola biblioteca, attiva dal 2012, è allestita nell’atrio di attesa in modo da poter essere facilmente fruibile, ha orari di accesso che coincidono con quelli di apertura del servizio. L’utilizzo dei volumi, attualmente circa ottocento, è gratuito e vincolato da poche, semplici regole. Non si deve firmare per il prestito e non è necessario restituire il libro entro un tempo prestabilito; è sufficiente comunicare all’operatore di riferimento il desiderio di trattenerlo ancora. Si cerca di stimolare la libertà di scelta, di decidere senza vincoli. Può accadere che i pazienti smarriscano un volume preso in prestito. In questo caso si invitano a tentarne il recupero ma, se non è possibile, accade spesso che i pazienti donino alla biblioteca altri libri di loro proprietà.
È una grande soddisfazione vedere i ragazzi e le ragazze che, mentre aspettano di essere visitati o assumere la terapia, spulciano tra i libri della biblioteca alla ricerca di novità, commentando e consigliando ad altri quanto hanno già letto. L’interesse e la partecipazione a questa iniziativa, come dimostrano i dati del prestito, è ancora vivo dopo quasi dieci anni sebbene, nel frattempo, siano cambiati gli utenti, i libri, i gusti letterari ed è purtroppo intervenuta l’attuale pandemia da Covid-19.
La cornice istituzionale
L’idea di implementare una biblioteca all’interno di locali Ser.D è sicuramente innovativa; benché l’utilizzo della biblioterapia sia pratica conosciuta, non lo è certamente nel contesto delle dipendenze patologiche. La popolazione dei pazienti alla quale tale servizio si rivolge è caratterizzata da disturbi di personalità piuttosto strutturati; tra essi quelli borderline rappresentano circa i due terzi dei pazienti che afferiscono ai servizi (Cancrini, 2006). Tali caratteristiche psichiche sono piuttosto stabili e difficilmente modificabili se non con rapporti terapeutici duraturi che promuovano il recupero o la ricostruzione delle funzioni psichiche latenti, deteriorate o mancanti (Musicco, 2004, 2005, 2016). Spesso i pazienti in cura nei servizi dipendenze hanno un problema di gestione degli impulsi e manifestano una ridotta capacità di mentalizzazione. Buone competenze cognitive e di metariflessione, evidentemente connesse a una efficiente mediazione corticale, in genere sono correlate ai più alti gradi di istruzione e sono implicitamente un fattore protettivo rispetto all’abuso e alla dipendenza da sostanze. In linea generale, nei pazienti Ser.D, si ha un più basso grado di istruzione rispetto alla popolazione generale italiana, sebbene negli ultimi anni il livello di istruzione medio si sia innalzato[1].
Il ruolo di una biblioteca all’interno del setting di cura
L’ipotesi successiva, che qui si cerca di articolare, è che la biblioteca possa avere anche un ruolo di facilitatore all’interno del sistema di cura. Il setting istituzionale è per sua natura complesso e percorso da significati simbolici impliciti. In due contributi Correale (1991, 2006), per anni direttore di un servizio psichiatrico pubblico ed esperto conoscitore dei disturbi borderline di personalità, si è impegnato a descrivere le valenze simboliche connesse al sistema di cura nel suo insieme. Ha rilevato quanto il gruppo degli operatori, la consapevolezza rispetto allo stile di conduzione del servizio, le caratteristiche relazionali dei singoli e le dinamiche interne possano rappresentare un significativo fattore di cura qualora siano coscienti ed opportunamente declinate.
Prima ancora degli operatori, è il “luogo” in cui la cura viene erogata che comunica significati impliciti. Il servizio qui preso ad esempio è collocato in un’ala del Distretto Sanitario come servizio specialistico tra altri servizi territoriali ed ambulatoriali e contiguo ad altri servizi di libero accesso. Tale collocazione identifica evidentemente la tossicodipendenza come patologia tra le altre patologie e depotenzia a priori i contenuti pregiudiziali, di stigma e di esclusione che da sempre accompagnano i consumatori di sostanze psicotrope e che mettono in secondo piano proprio le dimensioni patologiche.
Il fatto che la biblioteca si trovi fisicamente al centro del servizio, in una area che è deputata all’attesa e in cui spesso pazienti e operatori si incrociano e scambiano rapide comunicazioni informali, assume un ulteriore implicito significato simbolico. La biblioteca è uno spazio interstiziale all’interno del contesto di cura: i libri sono associabili al sapere, alla curiosità intellettuale, alla conoscenza e testimoniano un valore condiviso da operatori e pazienti. Anche il loro prestito, cessione o scambio ha un ulteriore significato simbolico rispetto alla condivisione di saperi.
Le potenzialità di cura della biblioterapia
È importante una preliminare distinzione. Con il termine biblioterapia si intende l’impatto della lettura fruita dal paziente sul suo benessere psichico. La psicoanalisi, coeva del cinema, ha tentato di spiegare i meccanismi psicodinamici alla base del funzionamento della fruizione della fiction: attraverso il meccanismo psicologico dell’identificazione tra il lettore e il protagonista della fiction (attivo anche nella fruizione cinematografica), si può generare una esperienza emozionale e un successivo nuovo apprendimento dalla significazione che ne deriva. Si impara da come altri si sono confrontati con temi psichici individualmente significativi.
Si è soliti distinguere la biblioterapia di tipo clinico, gestita da operatori professionali e orientata a migliorare le condizioni psichiche dei pazienti, da quella educativa o umanistica che viene utilizzata nei percorsi di apprendimento scolastico con funzione di sviluppo di competenze relazionali e sociali. Tale distinzione viene anche definita come differenza tra “biblioterapia cognitiva” e “biblioterapia affettiva” (Shechtman, 2009).
Negli anni Ottanta e Novanta, con la progressiva diffusione della terapia cognitivo comportamentale nei servizi (grazie alla “misurabilità” del suo impatto), il termine biblioterapia è stato esteso (specialmente nelle ricerche di tradizione anglosassone e grazie all’economicità dell’intervento) alla lettura di materiale informativo specifico riguardante le implicazioni di alcuni tipi di disturbo psicologico. Da anni è assodato che la lettura di testi specifici ha un impatto misurabile rispetto al miglioramento di alcuni sintomi psicologici o patologie psichiche.
Ad esempio, la biblioterapia cognitiva ha un positivo e duraturo impatto sui sintomi depressivi (Jamison e Scogin, 1995; Cuijpers, 1997). Recentemente un’ulteriore metanalisi degli studi sull’impatto di questa sulla depressione (Gregory et al., 2004) ha confermato che questa pratica ha un impatto significativo sulla diminuzione di sintomi depressivi.
Diversi studi controllati rilevano l’efficacia di questo metodo per migliorare significativamente ansia moderata (Kupshik e Fisher, 1999) o congiuntamente stress e ansia moderata (Reeves e Stace, 2005). In entrambi gli studi il positivo effetto è confermato da un follow up a tre mesi di distanza. In uno studio più recente (Sharma et al., 2014) oltre a stress e ansia si è individuata una correlazione con resilienza e attenzione al qui ed ora (mindfulness). L’efficacia della biblioterapia è stata evidenziata anche rispetto ai disturbi di panico, sia rispetto a un gruppo di controllo in lista di attesa (Lindren et al., 1994) sia in assenza di intervento psicoterapeutico (Nordin et al., 2010).
Nel campo delle dipendenze patologiche sono più diffusi gli studi di impatto della biblioterapia sull’alcoldipendenza rispetto a quelli sulle dipendenze da sostanze illegali. Una metanalisi condotta sugli studi precedenti al 2003 conferma l’efficacia di interventi di biblioterapia condotti anche da non specialisti nel motivare a seguire trattamenti contro l’abuso di alcolici (Apodaca e Miller, 2003). Una successiva metanalisi degli studi condotti fino al 2010 ha dimostrato che interventi condotti con contatto minimo con i terapeuti e con la mediazione di materiale informativo computerizzato, hanno un’efficacia significativa non solo nell’abuso di alcol ma anche di droghe e nella dipendenza da nicotina (Newmann et al., 2011). Nello stesso studio si evidenzia che un maggiore contatto con i terapeuti determina una riduzione più significativa e mantenuta nel tempo del comportamento di addiction. È opportuno sottolineare che, in linea generale, gli interventi autosomministrati sono meno efficaci di quelli in cui si è sostenuti da un terapeuta. Negli ultimi anni si è ampliato, negli interventi non condotti direttamente da terapeuti, l’uso delle storie a fumetti che permettono anche a pazienti con minori competenze cognitive di base di immedesimarsi in una storia e di seguirne il corso.
Gli studi più interessanti rispetto al focus di questo articolo sono quelli in cui si evidenzia anche sul piano neuropsicologico un impatto della lettura sul miglioramento di alcune competenze cognitive, come la comprensione e la riproduzione di storie (Mar, 2004). Lo stesso autore (Mar et al., 2006; Mar, Oatley e Peteson, 2009) ha anche dimostrato che i lettori di fiction mostrano migliori e significative competenze di empatia e di capacità di relazione sociale.
Breve excursus storico-scientifico sull’influenza della lettura a livello neuropsicologico
Come evidenziato in precedenza, molti studi hanno indagato gli effetti neurobiologici della lettura. Alcuni autori hanno sottolineato che leggere parole come “cannella” o “gelsomino” non attivi solo le aree verbali del cervello, ma anche quelle deputate al riconoscimento degli odori (Gonzàlez, Barros-Loscertales e Pulvermuller, 2006). Inoltre, le aree della corteccia somatosensoriale si attivano leggendo espressioni come “voce vellutata” o “questione spinosa” (Lacey, Stilla e Sathian, 2012), così come la corteccia motoria si attiva durante la lettura di frasi che contengono metafore motorie (Boulenger, Hauk e Pulvermuller, 2009). Le ricerche in questo campo sono iniziate a partire dalla scoperta dei neuroni specchio (Gallese et al., 1996); osservare, ascoltare, leggere e immaginare un’azione provoca la simulazione automatica di quella stessa azione: si ha una forma implicita di comprensione dell’azione stessa.
L’Università della Virginia ha inoltre evidenziato gli effetti della lettura dopo periodi di tempo variabili. Secondo questa ricerca i libri hanno un effetto sia immediato sia sul lungo periodo sull’attività cerebrale. Gli effetti sono davvero sorprendenti: si è dimostrato come dall’iniziale stimolazione sensoriale associata a un generale aumento dell’attività cerebrale, che avviene dopo dieci minuti, si può arrivare a entrare in un ciclo di apprendimento che dura tutta la vita, dopo anni di lettura (https://ebookfriendly.com). I moderni studi hanno, su più livelli, contribuito a gettare le basi per connotare la biblioterapia come metodo di identificazione, di autoriflessività e di facilitazione di processi simbolici (Pucciarelli, 2020).
La lettura come metodo clinico
L’esperienza sopra illustrata può essere considerata erede di un metodo che ebbe i suoi albori durante gli anni della Prima Guerra Mondiale. A partire dal 1916 vennero pubblicati su questo tema alcuni articoli fondamentali. I più significativi furono quelli del reverendo Samuel McChord Crothers che coniò il termine “biblioterapia” e descrisse il Bibliopathic Institute, dove ricevere trattamenti letterari da specialisti competenti. La libraia Elizabeth Green e il professore di neurologia clinica Sidney Q. Schwab descrissero l’uso terapeutico della biblioteca ospedaliera. Negli anni successivi si sono intensificate le ricerche sugli effetti dell’utilizzo della biblioterapia nelle cliniche psichiatriche, sulla presenza della biblioteca ospedaliera e sulle caratteristiche del biblioterapeuta (Cornett e Cornett, 1980; Beatty, 1962). Il punto di svolta nella storia della storia di questa disciplina avvenne nel 1937, con la pubblicazione di un lavoro dello psichiatra William C. Menninger, nel quale descriveva il suo programma di cinque anni di biblioterapia svolto presso la sua clinica. Per Menninger era fondamentale, nella prescrizione di un libro, comprendere le necessità terapeutiche del paziente, le sue capacità intellettuali, le preferenze letterarie, il campo di interesse, il sesso e la professione. Era fondamentale analizzare lo stato emotivo del paziente, la sua capacità di leggere in un determinato momento e di recepire i messaggi. Il processo di cura attraverso la biblioterapia aveva più implicazioni: il libro divenne strumento di lavoro non solo del clinico, ma anche del bibliotecario, inteso come risorsa nella collaborazione al trattamento. Fu grazie a questi sviluppi che si aprirono scenari di utilizzo di materiali di lettura come misura terapeutica in pazienti psichiatrici ospedalizzati.
La biblioterapia è stata spesso utilizzata nella riabilitazione dei veterani di guerra; molti autori hanno scritto articoli nell’ottica di definire la biblioterapia come scienza (Beatty, 1962). L’ambito di utilizzo ha preso quindi diverse declinazioni, che si sono arricchite di contributi nel corso degli anni.
Conclusioni provvisorie e ipotesi di lavoro future
Lo stimolo alla lettura nel contesto descritto assume un significato particolarmente interessante su due fronti. Un primo livello, come abbiamo già accennato, è implicito: la presenza della biblioteca nell’atrio al centro del servizio nella sala d’attesa, la identifica come parte integrante interna al sistema di cura, così come gli specialisti, gli ambulatori, i farmaci, e gli strumenti di cura in genere. A livello di contenuto la possibilità di ricevere in prestito dei libri, la possibilità di immedesimazione con i protagonisti di storie, l’articolazione relazionale di cui sono protagonisti, permette ai lettori di entrare in contatto con modalità relazionali diverse da quelle abituali ed esercitare alcune funzioni psichiche generalmente messe in secondo piano in un mondo dominato da agiti (molto comuni nei pazienti con discontrollo degli impulsi). Sospendere l’azione per fermarsi a leggere sviluppa l’opportunità di attivare funzioni riflessive che, se praticate nel tempo, possono sicuramente fornire nuovi esempi relazionali (in genere le storie hanno finali costruttivi). È lecito pensare che nella lettura si sviluppino meccanismi relazionali intersoggettivi connessi al funzionamento dei neuroni specchio (Gallese, Migone & Eagle, 2006) in cui l’apprendimento relazionale parte da un piano imitatorio. Rispetto a questo punto è nostra intenzione, sebbene sia complesso isolare alcune specifiche variabili, tentare in futuro di misurare l’impatto sulla cura dell’abitudine alla lettura. Il risultato atteso è che l’acquisizione di alcune competenze riflessive e nuove competenze relazionali derivanti dall’attivazione di meccanismi di identificazione e imitatori possa corrispondere nel lungo periodo anche a un miglioramento degli esiti. Il fatto che questa iniziativa continui ad esistere e si autoalimenti dopo quasi dieci anni dal suo avvio e dopo il pensionamento e la prematura scomparsa del suo promotore, è comunque un indicatore piuttosto evidente del suo valore intrinseco.
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Sitografia
https://ebookfriendly.com/what-happens-body-reading-book-infographic
[1] (Rapporto ministeriale sulle tossicodipendenze 2018)