di Federica Biolzi
La storia delle italiane, analizzata ed approfondita nei romanzi scritti dalle donne, l’emancipazione femminile come dato storico. Valeria Palumbo in Non per me sola, Storia delle donne attraverso i romanzi (Laterza 2023) affronta temi delicati ed a volte ricchi di pregiudizi, ma centrali in un tempo e una cultura che appartiene a tutti noi.
–La sua idea di scrivere una storia delle donne italiane attraverso i romanzi non è evidentemente solo un esercizio letterario. Come lei stessa mette subito in evidenza, si tratta qui di raccontare altro, di far emergere una narrazione nazionale differente. In cosa consiste questa differenza e in quali argomenti si è resa evidente?
-Si potrebbe pensare che i romanzi abbiano, oggi, poco peso nella formazione della memoria storica, dei valori e quindi della narrazione nazionale. Non è vero. Non solo perché, a scuola, continuano a costituire la base dell’insegnamento dell’italiano. Ma perché sono la base su cui, sin dalle elementari, abbiamo costruito la nostra visione della realtà e la nostra capacità di leggere il mondo. Il fatto che quella visione derivi soltanto dalla letteratura maschile e dai romanzi che la critica maschile ha selezionato è tutt’altro che irrilevante. Per tre motivi: gli uomini hanno stabilito l’agenda di ciò che è rilevante sapere. Gli uomini hanno stabilito come dobbiamo giudicare ciò che sappiamo. Gli uomini hanno stabilito qual è la “forma del reale”, ovvero che cosa è naturale e che cosa non lo è. E poiché di naturale, nelle relazioni e nella gerarchia sociale, c’è molto poco, è evidente che gli uomini hanno deciso quale cultura dovesse sottintendere ai nostri rapporti di potere, ai ruoli sociali, alle relazioni economiche. Ovvero, hanno deciso che tutto ciò che era rilevante era ciò che riguardasse le loro attività, la loro creatività e le loro priorità. E che l’appropriazione di ogni forma di potere fosse naturale e quindi ben accetta da tutti, uomini e donne. Le scrittrici (non tutte) hanno messo in discussione la priorità dei temi rilevanti dell’agenda sociale e politica, i valori con cui giudicare l’esistente, il principio che ciò che era fosse naturale e, in quanto tale immutabile. Ovvero hanno contestato i ruoli tradizionali che, in particolare la cultura ottocentesca, ha attribuito alle donne di mogli devote e madri prolifiche, hanno messo in evidenza la contraddizione tra il mito dell’amore e la mancanza di libertà nel poterlo scegliere, il paradosso che, in una società in cui il mercato culturale aveva bisogno del pubblico femminile e quindi fosse necessario far studiare le donne perché “consumassero” libri, spettacoli, concerti, mostre d’arte e perfino decisioni politiche, i valori fondati sull’esclusivo dominio maschile negassero a quello stesso pubblico di mettere a frutto le competenze acquisite. Quando, in Casa Leardi (1886), Maria Savi Lopez (1846-1940), esalta la moralità di un matrimonio basato sulla parità economica e morale dei coniugi, non fa che riflettere quello che, in altri contesti (e con un’altra forza), andava sostenendo l’anarchica Voltairine de Cleyre (1866-1912) in Sex Slavery (1890): il matrimonio fondato sull’impossibilità della donna di mantenersi e sulla sua cessione al marito di ogni diritto, da quello sul proprio corpo a quelli sui suoi beni e sui suoi figli, è una forma di schiavitù. E come tale, non è morale.
–Un aspetto del quale lei tratta è quello del ruolo del padre negli scritti femminili. Mi ha colpito particolarmente la frase che lei riporta dal libro Lessico famigliare di Natalia Ginzburg, a proposito di alcuni dissidi che accadevano in famiglia: l’intervento di mio padre era, come in ogni sua azione, violento, e subito dopo, io ero piccola e ricordo con terrore, quei tre uomini che lottavano selvaggiamente. Come, queste donne scrittrici hanno scrutato la violenza in un ambito in cui è stata da sempre occultata? Come vi hanno reagito e a quale costo?
-È incredibile quanto la letteratura maschile abbia taciuto la violenza contro le donne (e considerato eroica quella tra maschi). Soprattutto quella all’interno della famiglia. La legge, in realtà, dava a questa violenza, in particolare a quella dei padri sulle figlie e sui figli, dei fratelli sulle sorelle e dei mariti sulle moglie, oltre che dei padroni sul personale femminile di servizio, una legittimità totale. Lo jus corrigendi, ossia la licenza di un padre e marito di picchiare e brutalizzare moglie e figli per piegarli alla sua volontà, è stato in vigore fino al 1956. I mariti hanno avuto il diritto di stuprare le mogli fino all’introduzione, nel 1996, nel codice penale dell’articolo 609-bis. Qualsiasi donna che si fosse rivolta alla giustizia perché maltrattata dai parenti maschi o stuprata dal marito non avrebbe ricevuto alcun aiuto. Anzi. Colei che poi avesse denunciato un amante sarebbe semplicemente passata per prostituta. Quindi ha funzionato una sorta di triplice alleanza: quella della legge che autorizzava l’esercizio violento del potere del padre in famiglia, o di chi ne faceva le funzioni; quello della politica, che sul quel potere violento fondava la legittimazione del suo agire e quindi anche le scelte nazionalistiche, sessiste, razziste, discriminatorie, militaresche; e la letteratura maschile che, perfino nei suoi esiti più alti e nelle sue espressioni di rivolta, ha giustificato il sessismo e considerato naturale il dominio dei maschi in famiglia. Basti pensare alla Beat Generation o, da noi, alla Scapigliatura, o alla letteratura di Alberto Moravia (nonostante la Ciociara, che pure rivela un’ottica molto maschile) e a quella di Italo Calvino. Molte scrittrici invece hanno raccontato non solo la violenza fisica, e penso, per esempio a Maria Zef di Paola Drigo, ovviamente a Natalia Ginzburg, e Sibilla Aleramo. Ma anche le forme di violenza legate alla famiglia, dai matrimoni forzati, all’oppressione domestica, agli abusi sulle bambine, alla monacazione forzata: penso a Donnina, di Grazia Mancini Pierantoni, a Una tra tante, di Emilia Ferretti Viola (che portò a un dibattito sulla legittimità della prostituzione femminile, conclusosi in nulla soprattutto perché in Parlamento sedevano soltanto uomini), o a Cenere di Grazia Deledda, tanto per fare alcuni esempi. Parliamo di scrittrici e quindi la loro “reazione” è stata la scrittura. Dopodiché c’è la loro vita privata: per alcune il prezzo, non della denuncia, ma della scelta stessa di scrivere è stato altissimo. Penso alla poetessa siciliana Mariannina Coffa, ovviamente a Sibilla Aleramo e a Evelina Cattermole, uccisa da un amante: fu soltanto perché, morendo, riuscì a gridare che la motivazione erano i soldi e non “l’onore” che il suo assassino fu condannato.
–Alba de Céspedes in Quaderno Proibito, del 1952, in controtendenza con le rappresentazioni dominanti dei matrimoni, inizia a confessarsi, a parlare di estraneità, di solitudine, di un carcere dentro il proprio appartamento. Cosa ha significato questa confessione, questa denuncia?
-Alba de Céspedes è oggetto di una riscoperta molto importante in questo periodo. La sua opera è stata ripubblicata nel 2022, nei Meridiani Mondadori con un volume che contiene Nessuno torna indietro (1938), Dalla parte di lei (1949), Quaderno proibito (1952), Nel buio della notte (1976) e l’inedito, Con grande amore. In più, è appena uscito il romanzo di Michela Monferrini, Dalla parte di Alba (Ponte alle grazie), sulla sua vita. Questo riscatta, in parte de Céspedes da un lungo oblio, ma rivela che, appunto, il suo peso è stato, negli ultimi decenni, piuttosto limitato. Non solo: ma c’è stato pure un tentativo di confinarla nella cosiddetta letteratura rosa, nonostante Dalla parte di lei. Il suo grande successo, dovuto anche alla censura fascista, è stato Nessuno torna indietro. Anche Dalla parte di lei ha continuato a circolare nella memoria e nella coscienza delle autrici e delle lettrici più attente. Ma Quaderno proibito è caduto nel dimenticatoio, tanto che la riduzione televisiva è stata fatta 30 anni dopo, nel 1980 (Rai, Rete Due) con una bravissima Lea Massari. Pochi, fra l’altro, la ricordano, anche se adesso è stata caricata su Youtube e ha un buon numero di visualizzazioni. Ma certo, la televisione è stata il termometro della diffusione di idee e opere a livello di massa nel secondo Novecento e, quindi, il ritardo con cui Quaderno proibito è arrivato sullo schermo dice molto anche dell’impatto di de Céspedes negli anni Cinquanta. In più, il fatto che la scrittrice si fosse trasferita all’estero non ha aiutato. Nel 1960 Enzo Biagi soppresse la sua rubrica, Diario di una scrittrice, su Epoca proprio con la scusa che non fosse molto seguita (chiaro che se l’avesse tenuta Calvino nessuno si sarebbe sognato di sopprimerla). Forse il problema del romanzo, che secondo è molto interessante, è che si è rivelato “sfasato” rispetto alle rivendicazioni femministe: Valeria, la protagonista, che prende coscienza di quanto la sua condizione di casalinga-madre-lavoratrice sia opprimente, ma non è una vera ribelle, era lo specchio di donne che, forse, in quel momento, non costituivano un bacino di lettura per quel genere di narrativa. Gli anni Cinquanta sono stati culturalmente, socialmente e politicamente un buco nero per le rivendicazioni femminili. E nei successivi anni Sessanta, Valeria era il modello da superare (come per altro, scompostamente, intuisce, nel romanzo, sua figlia Mirella, anche lei un non-modello). Devo anche aggiungere che sulla trappola del matrimonio piccolo borghese hanno scritto anche altre scrittrici e penso a Paola Masino di Nascita e morte della massaia. O a Maria Antonietta Torriani con Un matrimonio in provincia (1885). Entrambe con un’ironia più stimolante.
–Agli inizi del secolo scorso, lei ci ricorda, come la mortalità infantile e quella per parto erano ancora molto alte. La maternità e la serie di miti legati ad essa, hanno avuto una funzione anestetizzante rispetto alle problematiche, legate al ruolo femminile, che si proponevano in quegli anni. Cosa stava realmente succedendo?
–La maternità è stata una clava con cui le donne sono state tenute nell’angolo: un mito che ne esaltava all’apparenza il ruolo e nella realtà ne sanciva la schiavitù. Per due motivi. Il primo è che la società borghese ottocentesca, ereditando la visione cristiana (che però, paradossalmente esalta anche la verginità e la castità, principi contrari alla prolificità) fa della madre prolifica la base dello Stato-nazione potente. Gli uomini vanno in fabbrica e fanno la guerra (e comandano); le donne producono gli uomini che servono alla guerra, alla fabbrica e al comando. Il meccanismo si è inceppato quando il mercato ha avuto bisogno delle donne consumatrici e lavoratrici, la guerra di quelle lavoratrici e la conseguente istruzione ne ha moltiplicato le rivendicazioni. Per inciso: la rivendicazione del voto, in Italia, è stata spesso legata, anche dalle socialiste, proprio al fatto che le donne svolgessero un ruolo essenziale nella società in quanto madri. Il secondo motivo è che l’abbinamento della sessualità alla maternità ha permesso di costruire la trappola della legittimità: la maternità è un valore (e quindi anche la sessualità femminile, che è limitata solo a quello scopo) all’interno del matrimonio. Il resto è peccato e quindi giusta emarginazione. Intendiamoci: è ovvio che, senza contraccezione, il discorso sulla libera sessualità e la maternità consapevole rimaneva astratto. Ma le legislazioni occidentali ottocentesche hanno messo fuorilegge la contraccezione e lo hanno fatto per molto tempo anche quelle novecentesche. Perché? Perché la maternità è considerata una funzione sociale di cui le donne sono espropriate (questo, ovvio le espropria anche del loro corpo e della loro sessualità). I figli si fanno o non si fanno in funzione di qualcosa. Addirittura oggi ci si appella al problema delle pensioni, per mascherare il terrore della cosiddetta “sostituzione” (ovvero la paura che gli italiani vengano sostituiti da altre “razze”). Questo illustra anche quanto poco i bambini in sé abbiano contato: la quantità doveva anche supplire l’incapacità di creare politiche sociali che non solo permettessero loro di sopravvivere all’infanzia ma anche di diventare adulti in modo dignitoso. Dimentichiamo troppo spesso che l’Italia ha soprattutto prodotto braccia per l’emigrazione. E che oggi (e qui si svela la parzialità di chi denuncia la denatalità come un pericolo) è in testa alle classifiche europee per l’incapacità di far studiare e lavorare oltre 3 milioni di giovani. Rimettere le donne a far figli, ammesso che ci si riesca, è un modo per opprimerle, non certo per migliorare il Pil nazionale. A questo proposito ricorderei un libro non abbastanza apprezzato di Élisabeth Badinter (già autrice del fondamentale L’amore in più), Mamme cattivissime?, del 2011, che non a caso non si trova facilmente in commercio e che denuncia il mito della madre perfetta (per esempio quella che allatta al seno ad libitum), nuovo mito colpevolizzante e opprimente per le donne. La verità è che la possibilità che sia riconosciuto alle donne il diritto di diventare, o meno, madri esclusivamente sulla base di una loro scelta personale, costituisce ancora la grande paura dei sistemi patriarcali.
-Lei, ha in modo molto puntuale, analizzato il grande contributo che tante scrittrici hanno dato, in modo consapevole e, spesso, a caro prezzo, alla scrittura di una storia delle donne. Quale è il messaggio che hanno lasciato alle giovani generazioni ed alle ragazze di oggi?
-Lo riassumerei in una frase, che adoro, tratta da una lettera della intellettuale statunitense (naturalizzata francese) Natalie Barney a sua madre Alice Pike, che pure era una bravissima pittrice. La scrisse ad appena 18 anni, nel 1894, criticando apertamente il matrimonio fra i suoi genitori: «It seems to me that those who dare to rebel in every age are those who make life possible—it is the rebels who extend the boundary of right, little by little», Mi sembra che coloro che osano ribellarsi, in ogni epoca, sono quelli che rendono la vita possibile. Sono i ribelli che spingono in avanti i confini dei diritti, passo dopo passo. Più nel dettaglio, Natalie scriveva alla madre: «Che cosa hai guadagnato, sottomettendoti in tutti questi 19 anni? Quando ritieni di aver ragione, levati in difesa dei tuoi diritti. Lo devi a te stessa come donna… Fino a che le donne come te perdoneranno tutto, gli uomini si concederanno tutto… Hai avuto torto e sei stata debole a sopportare per tutto questo tempo… sii forte e pretendi ciò che è giusto… papà è come un bambino viziato – e chi l’ha viziato? In parte tu. Devi a lui come a te stessa di mostrargli che le “donne non sono più parte del mobilio di casa”. Hanno conquistato il diritto alla ragione – in particolare nelle questioni che riguardano se stesse, e il benessere del mondo in generale. L’opinione pubblica è ora formata da ciò che pensiamo – Tu stessa mi hai ricordato che cosa hanno fatto le donne in altre epoche e con quanta pazienza si sono sottomesse. Osserviamo le stesse cose di continuo; ma io non ho mai visto che si ottenga qualcosa di buono da un’ingiusta sottomissione. Al contrario… Come possono la società, il mondo o l’umanità essere migliorate se coloro che vedono le cose sotto la giusta luce non agiscono? … Ma come potremmo mai migliorare le cose? Di certo non con l’accettazione e la sottomissione…». In sintesi: le scrittrici ci lasciano l’invito a non piegarci mai. Per comodo che possa essere (perché a volte, in effetti, dalla sottomissione si ottiene un qualche potere).
Valeria Palumbo
Non per me sola
Storia delle italiane attraverso i romanzi
Laterza, 2023