EXAGERE RIVISTA - Maggio - Giugno 2024, n. 5-6 anno IX - ISSN 2531-7334

La gestione e la valutazione del rischio suicidario

di Federica Biolzi

E’ possibile arrivare ad una valutazione del rischio suicidario? La questione, di non poco conto per l’attività per professionisti e terapeuti, è al centro di un importante volume di Maurizio Pompili, docente di psichiatria all’Università la Sapienza di Roma, uno dei massimi esperti del settore, edito da Cortina Editore.

– All’inizio del suo libro lei passa in rassegna alcune concezioni del suicidio dal felo de se, al non compos mentis, alla successiva medicalizzazione, fino a giungere a quelle che sono le concezioni attuali e che si riferiscono alla prevenzione dei fenomeni suicidari e ad una corretta valutazione del rischio. Considerando che molti suicidi, e le statistiche che lei cita vanno in questo senso, non sembrerebbero legati a malattie psichiatriche, e, in alcuni casi difficilmente prevedibili, come è possibile approcciare una corretta valutazione del fenomeno?

-Negli ultimi secoli c’è stato un cambiamento di tendenza. Il suicidio è stato, per molto tempo, considerato esclusivamente appannaggio del disturbo mentale perché era il modo più facile per dargli un senso. Solo un folle, una persona che ha un disturbo della mente, può voler morire, gli altri vogliono vivere. Questo, sostanzialmente, è il  paradigma di confronto e concettualizzazione del rischio di suicidio e del voler morire che ha caratterizzato gli ultimi 200-300 anni. È un modello medico: c’è un disturbo, c’è una malattia e quindi questa malattia porta al voler morire, se curo la malattia viene meno anche il voler morire. Ma il problema è molto più complesso, infatti la maggior parte dei soggetti depressi non si suicida, nemmeno i bipolari o i soggetti affetti da altri disturbi mentali. Quello che si può dire è che il disturbo mentale è sicuramente un elemento importante, contribuente al rischio di suicidio, ma non esclusivo. Non si può pensare che sia l’unico elemento che esplicita il rischio e che lo spieghi. In quelli che muoiono per suicidio, vi è spesso un insieme di condizioni che dettano il passo ad una fragilità e che quindi aumentano il rischio di suicidio. Ci può essere il disturbo mentale, ma c’è anche il ruolo della personalità, della storia di vita, di quello che accade alla persona nella vita, gli eventi avversi che accadono oggi e che fanno leva su una vulnerabilità passata. Soprattutto a livello clinico è possibile fare, comunque, un’anticipazione ragionevole del futuro in assenza o stante alcuni elementi ed alcune condizioni di rischio, ma per far questo bisognerebbe conoscere un po’ l’alfabeto della mente suicida. Il problema vero è che non si conosce ancora questo alfabeto, o meglio si conosce ma non è ancora acquisito negli ambienti specialistici. Fare una valutazione corretta del rischio di suicidio è ancora qualcosa che deve essere implementato, il libro mira in realtà a fare cultura in questo senso.

Nello specifico lei pone un particolare accento tra la valutazione e l’ideazione suicidaria, cosa s’intende con questo termine?

-L’ideazione suicidaria è spesso considerata l’elemento emblematico che passa a descrivere il suicidio, può esserci o non esserci. Tuttavia si è visto che l’ideazione di per sé non è un elemento predittivo importante, non discrimina chi effettivamente poi si suicida, ciò significa che molti soggetti che si suicidano non hanno avuto ideazione suicidaria come elemento da portare all’attenzione dei clinici. Bisognerebbe quindi puntare su altri elementi, ad esempio se il soggetto non dorme, se è agitato, se è irritabile, se soffre di ansia, se è disperato. Anche se non c’è ideazione, ma ci sono questi elementi, nell’ambito di una valutazione complessiva, il rischio potrebbe esserci.

Considerata la complessità del fenomeno che ci troviamo a trattare, siamo ancora lontani per la definizione di uno standard of care per il rischio suicidio?

Standard of care fa pensare ad un livello medio di assistenza, non dobbiamo pensare che abbiamo tutti centri super specializzati e preparati, avere un livello minimo sotto il quale non dover andare è l’elemento essenziale per fare una valutazione corretta ed erogare un servizio efficace. Ci sono degli elementi che tutti dovrebbero conoscere e per i quali è imprescindibile qualsiasi tipo di attività assistenziale. Poi ci sono le specializzazioni ed i centri più specializzati che sono qualcosa di più raro e specifico. Tutti però dovrebbero possedere delle abilità in questo campo e il libro mira a  estendere queste conoscenze.

-In seguito al Covid si può parlare di un maggior rischio nei giovani?

– Quello che si sta osservando, in particolare nei giovani, che questo periodo storico post-pandemico è stato particolarmente lesivo della capacità di regolare le loro emozioni. Hanno subito sicuramente un trauma, un elemento di grande impatto, per cui è come se ci fosse stato uno tsunami che in qualche modo ha destabilizzato un’intera generazione ed alcuni  più vulnerabili, sono esposti a tentativi di suicidio e gesti autolesionistici. Quindi da una parte i tassi di suicidio propriamente detti, a livello internazionale, non sono aumentati,. Si assiste, invece, ad un aumento molto importante dei tentativi di suicidio nelle ragazze dai 12 ai 17 anni e ci riferiamo a statistiche note negli Stati Uniti; questo è un dato molto emblematico diffuso in questa fascia di popolazione e che in qualche modo concorda con alcune descrizioni fatte dai colleghi italiani che riportano esperienze simili.

– In conclusione come questa valutazione del rischio ci può aiutare, e con quali strumenti, nel trattamento dei pazienti a rischio?

-I soggetti a rischio di suicidio, in realtà non vogliono morire ma bensì vivere. Ma ammesso che qualcuno li aiuti a superare la condizione di dolore mentale che li affligge, per cui fare una valutazione del rischio significa poter stimare anche il livello di sofferenza di questi soggetti e aggrapparsi alla loro voglia di vivere. Questo si può fare entrando in empatia con il soggetto stesso, mettendosi per quanto possibile nei loro panni. Fondamentalmente è, però, l’approccio umano, che per primo, dovrebbe guidare il clinico, infatti, stimando il livello di sofferenza, si può anche arrivare a valutare il livello di rischio. Se si fanno delle valutazioni superficiali, impersonali, che in qualche modo sono lontane dalla sofferenza del soggetto, il soggetto stesso non si fiderà, anzi si ritrarrà e, di conseguenza, la possibilità di salvarlo sarà limitata. Al contrario, un approccio che fa sentire la vicinanza, la speranza per un miglioramento e dunque non essere soli in questo cammino rappresenta una prospettiva a vantaggio di paziente e terapeuta.


Maurizio Pompili

Il rischio di suicidio

Valutazione e gestione

Raffaello Cortina ed., 2022

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