di Giacomo Dallari
Ogni esperienza umana, prima o poi, si confronta con la leggerezza, se non altro per sfuggire a quella forza che Nietzsche chiamava “spirito di gravità[1]” e che considerava come il suo più grande nemico. La leggerezza, però, non è una forza superficiale, dai contenuti frivoli e dai contorni futili e non appartiene al semplice mondo dei capricci, ma è, ancor prima di essere emozione o stato d’animo, un atteggiamento esistenziale, un atto antropologico. Essa è più un’espressione di ribellione che si concretizza come sospensione, attesa e tregua dal peso della vita; è dissolvenza che genera pienezza e consente di appropriarsi, per quanto possibile, del senso profondo della vita. «Colui che un giorno insegnerà il volo agli uomini – scrive infatti Nietzsche – avrà spostato tutte le pietre di confine; esse tutte voleranno in aria per lui, ed egli darà un nuovo nome alla terra, battezzandola: la leggera»[2].
La leggerezza di Nietzsche non è elusione di fronte alla vita, fuga impaurita davanti a tutto ciò che genera sofferenza, ma è quella condizione in cui l’individuo prende piena consapevolezza della reale condizione umana – compreso il senso della morte – ma di fronte ad essa risponde con ironico distacco, decentrandosi da un sé ipertrofico, sovraccarico di dimensioni e di significati che lo atterriscono e lo paralizzano.
L’alter ego di Nietzsche è proprio lo Zarathustra nemico della gravità, tanto che non esita ad affermare che «tutti quanti tra gli uomini abbiano in sé qualcosa della farfalla e della bolla di sapone, sappiano meglio di tutti cos’è la felicità»[3].
La farfalla e la bolla di sapone sono emblemi della leggerezza, al pari della danza, dell’ebbrezza e del volo, tutti elementi che caratterizzano lo spirito dionisiaco e liberano l’uomo dal suo soggettivismo forzato e lo spingono verso il suo ciclo di metamorfosi. La leggerezza è, in realtà, una sovrabbondanza di vitalità che rende i corpi lievi, come quelli dei danzatori o degli uccelli.
Il percorso verso l’appropriazione del senso leggero dell’esistenza è un cammino verso l’autodeterminazione dello spirito, è un’epoché dal peso del vivere che giunge ad una distensione, ad un allentamento di una forza gravosa che può diventare intollerabile.
Le tre metamorfosi descritte dal Nietzsche nemico del peso e della gravità sono le tappe di questo percorso di riappropriazione del senso della vita, le pietre miliari di un cammino nel quale l’anima, ad ogni passo, si alleggerisce e impara a volare, abbandonando dietro di sé le zavorre inutili, i pesi di un esistenza di rassegnazione. Si tratta di una metamorfosi attraverso cui lo spirito trasmuta e impara a liberarsi delle sole virtù passive, tipiche del cammello; reagisce con un moto di coraggio e di forza, caratteristiche del leone, e giunge fino alla piena libertà, all’affermazione del fanciullo che è costitutivamente sovrano di se stesso, unico responsabile della propria natura.
Queste metamorfosi, oltre ad essere un atto dello spirito, si caratterizzano come una condizione antropologica nella quale il disincanto di fronte al mondo diviene la piena libertà in un gioco spensierato che consente di riappropriarsi della vita e di tutti quei valori che davvero realizzano pienamente la volontà degli individui.
Al cammello, che rappresenta l’uomo che ha paura e riverisce, compiaciuto della propria natura servile al punto di prendere su di sé i grandi tormenti del mondo, subentra il coraggio del leone, che riconosce finalmente il suo servilismo e comincia a sfidare le imposizioni. Solo la forza generatrice del fanciullo potrà, però, rendere l’uomo libero da se stesso e condurlo verso la sua dimensione dionisiaca nella quale può affermare il suo spirito, finalmente padrone di se stesso.
Lo spirito del cammello è ben allenato a sopportare le fatiche, è contento di obbedire alla morale tradizionale. Oltre a questo, è orgoglioso della sua pazienza, della sua forza nel sopportare i pesi della vita. L’inganno è totale: vuole portare su di sé tali pesi, per poter mostrare a tutti, e in primo luogo a se stesso, quanto è coraggioso e paziente:
‹‹ […] “Che cosa è pesante?” Così chiede il tollerante spirito, così s’inginocchia a terra, simile al cammello e vuol venire caricato bene. “Che cosa è più pesante di tutto, o eroi” così chiede il tollerante spirito “perché io lo carichi su di me e mi rallegri della mia forza? Non è forse mortificarsi per far male alla propria superbia! Lasciar splendere la propria stoltezza per farsi beffe della propria saggezza? Oppure è questo: separarci dalla nostra causa quando festeggia la sua vittoria? Salire su alti monti per tentare il tentatore? Oppure è questo: nutrirsi delle ghiande e dell’erba della conoscenza e per amore della verità patire la fame dell’anima? Oppure è questo: essere ammalati e rimandare a casa le persone venute a consolare, e fare amicizia con i sordi che non ascoltano mai quel che vuoi tu? Oppure è questo: entrare in un’acqua sporca purché sia l’acqua della verità e non allontanare da sé le rane fredde e i bollenti rospi? Oppure è questo: amare coloro che ci disprezzano e tendere la mano allo spettro che vuole metterci paura?” Lo spirito tollerante si carica di tutte queste cose difficilissime: simile al cammello che si affretta carico nel deserto, così si affretta anche lui nel suo deserto»[4].
Il cammello poi, nella solitudine del deserto, diventa leone e sente dentro di sé una forza nuova: l’esigenza di essere libero, rimane affascinato dalla bellezza della leggerezza per essere finalmente autonomo e indipendente. È ormai adulto ed è pronto a sostituire al “tu devi”, la volontà e la libertà di affermare con forza “io voglio”. Lo spirito del leone è sul procinto di liberarsi dalle forzature, di affrontare ad armi pari il drago, è uno spirito che vuole bastare a se stesso e affermare la propria natura e la propria autosufficienza. Non basta ancora, la sua metamorfosi non è ancora completa e il suo non è ancora un moto di totale liberazione, ma è una reazione nella quale vengono scagliati a terra i pesi inutili e il passo si fa più lieve:
«Ma nel deserto più solitario avviene la seconda metamorfosi: qui lo spirito diviene leone, vuole conquistarsi la libertà ed essere signore nel proprio deserto. Qui cerca il suo ultimo signore: vuole diventare nemico suo e del suo ultimo dio, vuol combattere per la vittoria con il grande drago. Qual è il grande drago che lo spirito non vuole più chiamare signore e dio? Il grande drago si chiama “Tu devi”. Ma lo spirito del leone dice “Io voglio”. “Tu devi” gli sbarra il cammino, scintillante d’oro, animale squamato e su ogni squama splende aureo “Tu devi!” Su queste squame splendono valori millenari e così parla il più potente di tutti i draghi: “Tutti i valori delle cose splendono su di me. Tutti i valori sono già stati creati e io sono tutti i valori creati. In verità, nessun “Io voglio” deve più esistere!” Così parla il drago. Fratelli miei, a che scopo c’è bisogno del leone nello spirito? A cosa non basta l’animale da soma che rinuncia e prova timore reverenziale? Creare nuovi valori – neppure il leone ci riesce: ma procurarsi libertà di creare – questo il potere del leone riesce a farlo. Per procurarsi libertà e un sacro No anche dinanzi al dovere: per questo, fratelli miei, ci vuole il leone. Prendersi il diritto di stabilire nuovi valori – questo è il più terribile atto per uno spirito tollerante e riverente. In verità per lui è un rapinare: una cosa per animale da preda. Un tempo amava come suo dovere più sacro il “Tu devi”: ora anche nel suo dovere più sacro deve trovare la pazzia e l’arbitrio per potersi prendere con la forza la libertà dell’amore: per questa rapina ci vuole il leone»[5].
Ma chi possiede questa pazzia in grado di prendersi con forza la libertà? Chi può sconfiggere il drago? Nietzsche, a questo proposito, è chiaro:
«[…] A che scopo il leone predatore deve divenire bambino? Innocenza è il fanciullo e dimenticanza, un nuovo inizio, un gioco, una ruota che gira da sola, un primo movimento, un sacro dire di sì. Sì, per il gioco del creare, fratelli miei, ci vuole un sacro dire di sì: ora lo spirito vuole la sua volontà, il senza mondo si conquista il suo mondo. Tre metamorfosi dello spirito vi ho citato: di come lo spirito si è trasformato in cammello e il cammello in leone e il leone da ultimo in bambino»[6].
La forza del leone non è sufficiente, il coraggio da solo non basta: ci vuole una forza creatrice, un rinnovato vigore che sappia vedere tutto con occhi nuovi. Il fanciullo è colui che porta con sé la dimenticanza, ad esso è associata la rinascita che è oblio, cioè mancanza di un passato pesante da trascinare con fatica. Il bambino non deve accettare ne rifiutare valori perché non possiede alcuno, egli possiede solo una forza creatrice in grado di generare valori nuovi e vitali che, proprio come un gioco, si rinnovano in continuazione, una ruota che gira da sola.
Il bambino è in grado di costruirsi un modo senza possederne uno. È in questo che, forse, consiste il senso della leggerezza proposto da Nietzsche, una condizione di liberazione dai valori passati, di superamento di tutti quei moti spirituali che appesantiscono l’animo umano e impediscono una trasformazione sostanziale, un distacco netto e una nuova nascita. Alleggerirsi significa andare al di là del singolo individuo, del proprio senso di colpa, del quotidiano, della società e, perché no, della stessa realtà senza la paura di sprofondare in un abisso privo di punti di riferimento, ma dilatando la propria natura che afferra con forza la vita. Solo così il cammello non si sentirà più ripetere “tu devi” e piano piano imparerà dal leone a pensare “io voglio”, giungendo, finalmente, ad urlare con voce di bambino “io sono”.
[1] In merito a questo punto, mi riferisco a F.Nietzsche, Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno (1883-1885), tr. it. di M. Montinari, in Id., Opere, ed. it. diretta da G. Colli e M. Montinari, vol. VI, t. I, Adelphi, Milano 1968, in particolare Dello spirito di gravità.
[2] F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno (1883-1885), tr. it. di M. Montinari, in Id., Opere, ed. it. diretta da G. Colli e M. Montinari, vol. VI, t. I, Adelphi, Milano 1968, p. 226 s.
[3] Ibi, p. 41.
[4] Ibi, p. 23.
[5] Ibi, p. 24.
[6] Ibi, p. 25.