di Primavera Fisogni
IL MONDO AL CONTRARIO DEL NAZISMO
Premessa
La menzogna era il carburante del nazismo[1]. Ancora oggi, però, più che lo sforzo spasmodico di aggiustare, mistificare e ribaltare la realtà operato dal Terzo Reich, resta inespressa la domanda: come ha potuto un’intera nazione, salvo eccezioni, accogliere come vero il suo contrario?
In un ragionamento sulla menzogna, in altre parole, il fenomeno nazista si presenta come un caso di studio sulla pervasività dell’inganno e sulla facilità con cui questo sovvertimento – il falso al posto del vero – si insinui nelle coscienze. Possiamo anche capire perché, dopo Auschwitz, il campo di sterminio per eccellenza – laboratorio del male radicale, ovvero dell’umanità percepita come superflua – non sia più possibile guardare alla morale in senso kantiano, nei termini di legge universale a cui la ragione agevolmente accede. Perché i gerarchi nazisti sostenevano di aver operato nel rispetto delle regole, cioè secondo la propria dirittura morale.
Nei prossimi paragrafi intendo soffermarmi su tre aspetti di questa forma di totalitarismo: la menzogna sistematica del nazismo; il risultato principale di questa operazione: la riduzione dell’umano a superfluo (“male radicale” o “assoluto”); la genesi di questa immensa menzogna antropologica.
Il terrore e la distruzione dello spazio dell’azione
Dare vita a un mondo fasullo è stato, fin da principio, parte decisiva dell’ideologia nazista[2]. In questa direzione va la parte forse più valida – ancora oggi – del capolavoro di Hannah Arendt, l’autrice di The Origins of Totalitarianism – Le origini del totalitarismo (1948). La mistificazione era l’unico strumento capace di forgiare un regime rivolto ad annientare l’umano. A questo scopo erano funzionali, in primo luogo, la propaganda e la costruzione, spasmodica del “mito” del Führer. Ma, essendo il nazismo un regime di polizia, tutto ciò era possibile solo grazie il terrore, con il suo potere di ridurre – cancellandola quasi del tutto – l’azione umana.
La Arendt, nel suo saggio, scritto quasi in presa diretta con i fatti che analizza, fa notare che, il primo passo di questo sovvertimento, consiste nel ridurre lo spazio tra le persone: più che lo spazio fisico, sembra di capire che si tratti di uno spazio di relazioni, il quale, del resto, fissa il perimetro della società umana. Snaturare le leggi, le regole, le logiche di azione, la libertà di intraprendere, implica una contrazione dello spazio a disposizione degli individui.
«Premendo gli uomini uno contro l’altro, il terrore totale distrugge lo spazio fra di essi (…) Il regime totalitario non si distingue dunque dalle altre forme di governo perché riduce o abolisce determinate libertà, o sradica l’amore per la libertà dal cuore degli uomini, ma perché distrugge il presupposto di ogni libertà, la possibilità di movimento che non esiste senza spazio[3]».
Annullare lo spazio, attutire l’agire e annullare la libertà sono atti che si collegano, poiché tutti intaccano l’azione. Ma nello stesso tempo, proprio per la stessa ragione, secondo la pensatrice tedesca, non è mai possibile annientare del tutto spazio e libertà, dal momento che almeno il nascere resta possibile: «la libertà si identifica con la nascita degli uomini, col fatto che ciascuno di essi è un nuovo inizio», che «comincia, in un certo senso, il mondo da capo»[4]. Il terrore, in qualche misura, esprime con modalità spietate e disumane la pretesa di un nuovo inizio, laddove tutto è stato cancellato.
È qui che si intravede un collegamento con la violenza. Per quanto le due situazioni non siano la stessa cosa, tutte e due portano alla distruzione: la violenza agisce sul potere, cioè sulle potenzialità dell’agire sociale; il terrore annienta tutto e per certi versi presenta un’affinità con il terrorismo[5], l’azione sociale, quella individuale, ma va oltre: esso riempie il vuoto con un proprio mondo fittizio, con una logica ferrea che va a sostituire la razionalità dell’agire umano. Il terrore instaura un governo che falsa il mondo e i rapporti umani. Perché ciò possa avvenire il contributo della violenza è comunque determinante[6].
Ma una volta instauratosi al comando, il regime totalitario contagia anche la violenza, facendone qualcosa di assolutamente specifico: sia nel senso che il modo in cui “usa” la violenza non ha paragoni con altre forme di dominio (si pensi ai lager nazisti, ai genocidi staliniani, esempi citati dalla Arendt), sia nel senso di “un assoluto”, cioè di un atto che non ha più un carattere di strumento, ma di fine – potremmo dire – in se stesso.
«Il terrore non è lo stesso della violenza. Avendo distrutto ogni potere, non abdica ma, al contrario, resta in pieno controllo[7]».
Cerchiamo ora di capire se l’ipotesi che il terrore segni un nuovo inizio, benché capovolto, sia sostenibile. Diamo subito la parola alla Arendt, per rilevare come – secondo la pensatrice di Hannover – ciò non sia affatto possibile:
«Quindi il terrore, in quanto servo fedele del movimento naturale o storico, deve eliminare dal processo non soltanto la libertà in ogni senso specifico, ma la sua stessa fonte, che è data con la nascita dell’uomo e risiede nella sua capacità di compiere un nuovo inizio»[8].
Tuttavia, fin dal suo insediarsi come forma degradata di governo[9], il totalitarismo – la cui essenza è il terrore – viene preso da una smania operativa. La prima mossa è nella ricerca spasmodica delle cosiddette “prove scientifiche” della sua legittimità e dell’ideologia che essa propaganda. Ecco allora l’invenzione nazista dei Protocolli di Sion per dimostrare che gli ebrei progettavano di distruggere l’umanità (mentre succedeva esattamente il contrario), l’ossessione dell’albero genealogico per provare l’appartenenza alla “razza ariana”, l’«insistenza della propaganda totalitaria sulla natura ‘scientifica’ delle sue affermazioni»[10].
I tre capitoli che la Arendt dedica a “Il movimento totalitario”, a “Il regime totalitario” e a “Ideologia e terrore” sono un libro aperto della ri-creazione del mondo a misura del totalitarismo, uno straordinario esercizio di fenomenologia della dis-umanizzazione attraverso la menzogna. Finzione e ribaltamento sono presenti a tutti i piani della vita e delle organizzazioni sociali. All’esercito regolare si sostituiscono le cosiddette “élites”, i reparti scelti: portano la divisa ma hanno la regola di non avere regole; il delitto criminale, la pratica dell’assassinio subentra all’esercizio della giustizia. Che cosa può sovvertire questo mondo “al contrario”[11]? Il contatto con la realtà, come rileva la Arendt. Ecco, allora, che le SS non possono restare più di un certo periodo in un luogo, che i dirigenti cambiano di frequente.
«Ogni frammento di informazione fattuale che penetri attraverso la cortina di ferro, eretta contro la pressione della fiumana della realtà dall’esterno, è una minaccia più grave che la contropropaganda nella fase precedente alla conquista del potere»[12].
Il vero problema del totalitarismo, nella prospettiva arendtiana, che viene letto come “progetto politico” che “si fonda sull’irrealtà”[13], è qui, nella possibilità di essere toccati dalla vita vera. Ma proprio questo rischio porta ulteriori conferme al fatto che il totalitarismo non ha perso lo slancio all’iniziare e all’agire. Laddove vi è percezione, ancora piena consapevolezza del “valore” di che cosa sia la realtà in carne e ossa, è chiaro che non si è spento del tutto il senso di quel mondo. Si è visto come, per la Arendt, il mondo sia prima di tutto relazione e stare con gli altri, spazio entro cui esercitare la propria libertà, mediante l’agire. Dunque, il tentativo di costruire una realtà fittizia non va letto come espressione di follia, almeno nelle vicende storiche dei regimi totalitari.
Un ulteriore argomento al fatto che il totalitarismo non è estraneo alla categoria dell’inizio, e ai corollari della libertà e della responsabilità, deriva come conseguenza del ritrarsi dal mondo. Poiché il mondo è in continuo movimento – anche solo per il fatto che si nasce sempre – un solo “inizio” (la sua instaurazione) non basta a costituire il regime totalitario: ne occorrono tanti quanti sono gli eventi; è un agire spasmodico, quello del totalitarismo. Perché, quanto più ci si ritrae dalla vita vera, tanto più bisogna inventarne un’altra capace di rimpiazzarla.
Non è questo un “agire”? Non è questo un “dare inizio”? Se lo riconosciamo, rispondendo affermativamente, giungiamo a concludere che il pericolo maggiore, per il totalitarismo, non sia nel fatto che il nuovo non si possa mai davvero cancellare (il mondo che “sta fuori”). Il terremoto dei regimi totalitari è implicato nella pulsione attiva che continua a salire di grado, ad accelerare, proprio per tener testa alla vita “vera”. Lo riconosce anche la Arendt.
«Da un punto di vista pratico, il paradosso del regime totalitario è che il possesso degli strumenti di governo e di violenza racchiude in sé pericoli oltre che vantaggi per il suo movimento. Il disprezzo dei fatti e la rigida adesione alle regole di un mondo fittizio diventano sempre più difficili da mantenere, pur rimanendo essenziali come prima. Il potere implica un diretto confronto con la realtà, e il regime è costantemente occupato a superare questa sfida[14]».
L’inganno assoluto: gli esseri umani “superflui”
Il più acuto inganno del totalitarismo nazista ha provocato la più grande tragedia della storia dell’umanità. Il presupposto che gli esseri umani – o quanto meno un gran numero di essi – fossero superflui e che, per questo, fosse lecito annientarli, ha provocato la morte di sei milioni di ebrei nei campi di sterminio, ma pure di 500 mila rom e sinti, oltre ad un numero ancora controverso di omosessuali e malati.[15] In questa macroscopica tragedia Arendt vide l’espressione di quel male radicale – termine mutuato da Kant – che è anche assoluto «perché non può essere più dedotto da motivi umanamente comprensibili».[16]
Le conseguenze antropologiche principali sono state due: non esistevano «ragioni di diritto o di altro genere tali da giustificare lo sterminio, ma veniva messo in atto il tentativo di “sradicare il concetto di essere umano” come la pensatrice politica tedesca spiegò al filosofo e amico Karl Jaspers, in un celebre carteggio:
«I singoli esseri umani non uccidevano altri esseri umani per ragioni umane, ma (…) un tentativo organizzato venne fatto per sradicare il concetto di esseri umani». [17]
In secondo luogo, cadendo la distinzione tra bene e male, si affermava nei campi di sterminio un nuovo modello: quello dell’agire tra male-e-male. La volontà e la scelta, bussole dell’agire morale, lasciavano il posto all’arbitrarietà. Chi ha letto il libro The Sophie Choice di William Styron (1979) – o ha visto il film di Alan Pakula (1982) ispirato a questo capolavoro – può visualizzare, drammaturgicamente, le parole di Arendt, a proposito di questa torsione esistenziale e morale.
«Quando un uomo si trova a fronteggiare l’alternativa di tradire e dunque di uccidere i suoi amici o di mandare a morte sua moglie e i suoi figli, dei quali egli è in ogni senso responsabile (…) L’alternativa non è più tra bene e male, ma tra delitto e delitto. Chi mai potrebbe risolvere il dilemma morale di quella madre greca, alla quale i nazisti permisero di scegliere quale dei suoi tre figli doveva essere ucciso?»[18].
A questo risultato, che ebbe nei lager il suo laboratorio, il regime nazista perviene attraverso tre fasi. La via per disumanizzazione, che culmina nell’Olocausto, si esprime nella cancellazione di ogni diritto o sistema di leggi tale che tutelino la vittima.
«Il primo passo essenziale alla strada del dominio totale è di uccidere la persona giuridica nell’uomo[19]».
I campi di sterminio vedevano insieme persone innocenti e criminali, con il risultato di distruggere «distruggere la possibilità di un’opposizione».[20] Venivano poste le condizioni per il secondo livello di smantellamento dell’umano, cioè «l’omicidio della persona morale nell’uomo»[21], con la conseguenza di annientare l’individualità, la spontaneità, la differenza del singolo essere umano.
I numeri tatuati sul corpo avevano anche questa precisa funzione, in un contesto in cui gli esseri umani non dovevano essere più percepiti come tali, ma come “corpi”, entità materiche di “scarto”.
L’origine della grande menzogna nazista
Come si origina l’idea di superfluo, che porta a una simile tragedia? Arendt, in Le origini del totalitarismo, sviluppa una teoria articolata, che possiamo sinteticamente ridurre in questi termini: il pensiero che alcuni gruppi umani possano essere “scartabili” mette radici nell’economia ottocentesca, in una crisi caratterizzata da un capitale sovra produttivo e da una liquidità che non trovava investimenti idonei.
L’imperialismo, sostiene Arendt, è stato considerato come l’unica risposta possibile a quella situazione: l’Europa ha così scaricato il proprio capitale superfluo, mezzi e forza produttiva, nel continente africano, alimentando il razzismo nei confronti di quelle etnie. Ma è lo scenario che segue la Grande Guerra a rivitalizzare l’idea di superfluo, in relazione alle masse degli emarginati, senza risorse e senza Stato. Il risentimento di ampie fasce di popolazione, in Germania, uscita a pezzi dal conflitto, non fece che plasmare il profilo di un nemico che – per ragioni storiche, sociali, culturali – veniva indicato nelle persone di cultura, tradizione, fede ebraica.[22] Arendt mostra, dunque, come ci ricorda con esemplare nitore Mustafa Kaya:
«come l’esclusione politica causi un’esclusione sociale e poi un’esclusione fisica dell’umano». [23]
Nessuno alzava la voce contro le menzogne del regime di Hitler? Com’era possibile che le menti dei tedeschi fossero così ottenebrate dal risentimento? In realtà, fin dagli albori del nazismo e dell’oppressione totalitaria non sono mancate posizioni critiche – presto ridotte al silenzio – sia da parte della vecchia classe dirigente, dei teologi cristiani, della stessa Chiesa cattolica[24]. E se pensatori come Martin Heidegger e Carl Schmitt furono inizialmente propensi a sostenere il progetto hitleriano, non mancarono intellettuali illuminati, che paventarono lucidamente, da subito, le conseguenze di quel regime. Il dissenso anti-Hitler non riuscì a coagularsi in modo efficace, anche ad opera della sistematica eliminazione di possibili antagonisti: dal 1933 al 1945 ben 16,650 condanne a morte furono emesse dai tribunali speciali[25].
Edith Stein filosofa ebrea, convertitasi al Cristianesimo e martire[26], da suora carmelitana, nelle camere a gas di Auschwitz, intuisce lo stato nascente del totalitarismo in Germania, pur non impiegandone il termine. Sono passati soltanto tre mesi da che Adolf Hitler ha preso il potere; siamo nell’aprile 1933. La svolta è avvenuta. Scrive Stein:
«Per anni i capi del nazionalsocialismo hanno predicato l’odio contro gli ebrei. Ora che hanno ottenuto il potere e hanno armato i loro seguaci – tra i quali ci sono dei noti elementi criminali – il seme dell’odio si schiude».[27]
Ma l’atteggiamento dei più è quello descritto da un’altra filosofa, la svizzera Jeanne Hersch, ebrea, che si trovava a Friburgo per seguire le lezioni di Heidegger, nella breve stagione in cui fu rettore e nazista in modo manifesto. La testimonianza lasciataci da Hersch è interessante perché illustra il livello di consenso nei confronti non soltanto del regime, ma delle menzogne e dei miti in fase di costruzione.[28]
Nella primavera del 1933 Adolf Hitler era da poco al potere, ma già erano entrate in vigore norme razziste, che sarebbero culminate nel 1935 con le leggi antisemite di Norimberga[29].
Jeanne era ebrea. Si meravigliò di come fosse ridicola una burocrazia che imponeva a studenti tedeschi di precisare l’ascendente ariano o ebreo, mentre agli stranieri non veniva chiesto niente di tutto ciò. Quella che sembrava una farsa, più che altro, si tramutò abbastanza velocemente in un fenomeno inquietante, quando Heidegger dovette tenere un discorso in lode a un «“eroe” nazista di nome Schlageter»,[30] di cui doveva cantare le virtù. Quelle persone mediamente scettiche o distratte rispetto alle avvisaglie del male nazista, nella vita di tutti i giorni, assunsero – agli occhi preoccupati e vigili di Jeanne – l’aspetto di una massa che si mobilitava, compattandosi, davanti alle parole retoriche del celebre filosofo. E assumeva, anche fisicamente, l’aspetto di un amalgama impressionante.
Siamo ancora lontani dalle coreografiche adunate di regime, quello che Hersch rileva è una sorta di spontaneo trasformarsi di individui singolari in un’entità massiva, con un’identità sovrastante quella dei singoli. Non è la stessa impressione che Edith Stein consegna alla lettera indirizzata a Papa Pio XII, perché faccia sentire la sua voce contro il nazismo: la fenomenologa coglie il tratto della prevaricazione di pochi che sovrastava la vita civile di molti. Hersch traduce una sensazione, anche emotiva, un senso di disagio nato nel trovarsi prima tra persone che, un attimo dopo, hanno assunto – per così dire – un’identità uniforme.[31]Appunto: è questo, ancor più della disumanizzazione frutto di un esercizio, a caratterizzare in modo inquietante la società di stati totalitari. Rispetto alle SS (Schutzstaffel), addestrate a diventare automi per l’esercizio del male, è probabile che il bidello, il meccanico, la maestra, il panettiere o la studentessa divenuti blocco unitario davanti al discorso di Martin Heidegger “pifferaio magico”[32] del nazismo, abbiano poi ripreso la propria quotidianità. Ma non c’è dubbio che qualcosa fosse successo, nei pochi minuti di quell’adunata, in cui un pensiero massificante aveva plasmato tante persone come fossero creta.
Hersch ricorda che la folla-massa davanti al discorso nazista di Heidegger cantava l’Horst Wessel Lied «con il ritornello “inondare le strade del sangue degli ebrei”», motivo che, per altro, «si ascoltava dal mattino alla sera, da ogni radio, per ogni strada» al punto che «si era immersi, a bagno, in questa atmosfera».[33] Il calo della capacità di valutazione critica della realtà, rimpiazzata da automatismi valutativi non è un fatto limitato al nazismo. Lo si ritrova ancora oggi nelle metafore disumane impiegate verso gli immigrati nella “civile” Europa.[34]
IL MONDO E IL CIELO ALLA ROVESCIA DELL’ISIS
Tre gradi di menzogna
Con il modello classico del totalitarismo novecentesco, tematizzato dalla Arendt, lo Stato Islamico, entità pseudo statuale ai confini della Siria e dell’Iraq, proclamato il 29 giugno 2014 e caduto militarmente alla fine del 2017, ha condiviso un fattore principale (l’ideale ideologico) e una condizione essenziale (la dimensione statuale, sia pure sui generis). Entrambi, poi, hanno inteso dar vita a un “popolo” considerato anche il migliore dei popoli possibili: se Hitler «fu percepito come capace (…) di dare concretezza alla “comunità di popolo”, la Volksgemeinschaft»[35], il califfo Abu Bakr al Baghdadi si proponeva di dar vita alla Umma[36], all’unica entità islamica globale. Va da sé che le due visioni totalitarie hanno concepito Volksgemeinschaft o Umma nei termini di una società forgiata sulla differenza dal resto dei “popoli”: la distruzione degli ebrei e dei “non ariani” e delle minoranze non islamiche, come gli yazidi, erano parte integrante del processo totalitario, nelle due diverse epoche storiche.
Niente affatto espressione terroristica tout-court l’Isis ha tragicamente riportato, sulla scena mondiale, un modello di potere assoluto, fondato sul terrore, sull’annientamento di massa (delle minoranze, prime vittime delle azioni militari del Califfato; del mondo intero posto al di fuori dell’ideologia takfīr) abilmente alimentato dalla propaganda. Colpisce soprattutto il tessuto di menzogne sulle quali l’Isis ha costruito un consenso sempre più espansivo, negli anni del suo potere territoriale, non sufficientemente stigmatizzato e decostruito dopo la fine del regime, con il rischio che proprio qui si annidi il nucleo magmatico di nuove eruzioni di odio di matrice jihadista salafita-wahabita[37]. Ne indico tre principali, che esaminerò succintamente.
1) L’Isis ha contrastato lo shirk, o politeismo, giustiziando, uccidendo e distruggendo tombe e santuari, ma ha forgiato una mistica del martirio con annessa “fabbrica di santi” oggetto di venerazione.
2) L’Isis ha costruito un simulacro di Dio, manipolandone il profilo, attraverso la cancellazione del nome di Misericordioso, anteponendo la giustizia alla misericordia.
3) L’Isis si è costituita come soggetto divino, entrando così in conflitto con il principio dell’Unicità di Dio, primo fondamento della fede in Allah.
Politeisti in lotta contro il politeismo
Al cuore del takfīr, il principio di massima empietà che ha animato l’azione politica e quella terroristica dello Stato Islamico, ispirato alla lettura esclusivista del Corano, alla luce delle dottrine salafita e wahabita,[38] c’è la condanna del politeismo, come massimo affronto all’unicità di Dio. Basta poco per rientrare in questa categoria secondo la lettura ideologica del Califfato, sia tra i musulmani, sia tra i non musulmani. Ma, se guardiamo con attenzione alla propaganda dell’Isis, ci rendiamo conto che lo Stato Islamico era un’autentica fabbrica di “martiri” e di “santi”, vale a dire di figure considerate degne di ammirazione e di sequela, raccontate con le narrative tipiche dell’agiografia.
La rivista digitale Dabiq ha dedicato, nel corso della sua pubblicazione, una rubrica dal titolo “Amongst the believers are men” che designare profili al maschile di credenti considerati eminenti nella fede.[39] Non si tratta di semplici “eroi”, ovvero di militanti che, uccisi in battaglia o suicidatisi in azione hanno compiuto azioni degne di memoria, ma veri e propri termini di devozione collettiva. L’ingresso nel novero dei beati, oltre allo stile tipico del racconto, restituisce il protagonista in una luce trascendente, che sottolinea la pienezza delle virtù di fede secondo l’interpretazione dell’Isis. Un’autentica ipostatizzazione che entra in chiaro conflitto con quel politeismo (shirk) che lo Stato Islamico si vanta di combattere.
Il profilo di santità prevalente nella pubblicistica dell’Isis riassume e amalgama i due parametri che stabiliscono, specialmente nella tradizione cristiana, chi può dirsi “santo”: virtù eroiche e martirio. La retorica delle narrazioni agiografiche prodotte dall’Isis, a scopo di propaganda, segue un format molto preciso e, come si intende argomentare, con l’intento di suscitare la venerazione e l’imitazione di queste figure di outsider.
Un topos dell’agiografia classica, nel profilo biografico, è la santità del protagonista fin dalla più tenera età e nonostante il contesto anti-religioso in cui si trova a crescere. Ma come santificare un soggetto del calibro di Jihādi John, globalmente noto come the beheader, il tagliatore di teste? Boia di professione nello Stato Islamico, con le mani lorde del sangue di tante vittime innocenti, Mohammed Emwazi – nome di battaglia Abū Muhārib Al-Muhājir – è diventato, con la sua morte, uno dei pilastri della propaganda islamica e dei protagonisti della rubrica Amongst the believers are men. Lo vediamo sorridere con un po’ di timidezza, con lo sguardo a terra, mentre – in abiti civili – si aggiusta un copricapo. Alle sue spalle, le rovine di quello che sembra essere stato un edificio di culto, forse una chiesa cristiana. Nel caso di Jihādi John sono due le asperità biografiche imbarazzanti, che la livella della propaganda deve piallare: oltre ad avere a che fare con un assassino istituzionale, l’ex bravo ragazzo arabo trasferitosi con la famiglia nella Londra benestante ha condiviso educazione e stili di vita occidentali. Inoltre, durante il viaggio nel nativo Kwait, decisivo per la sua radicalizzazione, Jihādi John ha negato il proprio ruolo eversivo, ritornandosene a Londra. Ipocrita e menzognero? Non per Dabiq, che motiva il suo «presentarsi come uno stupido» nei termini di una strategia per mettere in scacco l’intelligence anglosassone, nel solco dell’insegnamento di Maometto, per il quale – stando ad un Ḥadīth – «la guerra è un inganno».[40] Oltre a virtù quali «la persistenza e la perseveranza», «sincerità, ambizione ed entusiasmo», fattore di riabilitazione del profilo di Jihādi John è l’aver preso le distanze, per tempo, da al-Jawlānī’, il capo della fazione di Jabhat al-Nusrah che aveva tradito il (futuro) califfo al-Baghdadi, restando nell’alveo di Al Qa’ida, senza confluire nell’istituendo Stato Islamico.
In una manciata di parole si riassume la sua carriera di boia («la sua asprezza verso gli infedeli»),[41] nei termini di una torsione a 360° delle azioni compiute: da omicida a testimone eccelso della fede. Per guadagnarsi il Paradiso, questo però non basta, perché Jihādi John appare soprattutto come uno scaltro arrampicatore, furbo e amante della ribalta che gli danno le sue azioni crudeli. Com’è possibile farne un termine di devozione? Ecco che il redattore attinge alla presunta tenerezza verso gli orfani. Viene dipinto come uno zio che porta al parco e allo zoo i figli di un compagno caduto in battaglia. Si fa risaltare il suo slancio caritatevole nei confronti di combattenti feriti, senza moglie. A uno di questi cede la sua concubina, molto probabilmente una povera donna ridotta in stato di schiavitù. Alla fine, quando un drone lo colpisce mentre guida per le strade di Raqqa, è pronto per rendere l’estrema testimonianza di fede, presentandosi come modello di misericordia. Qualità che, guarda caso, è il primo attributo di Dio nel Corano, benché all’Isis importi molto poco.
Gli assassini di Amongst the believers are men sono, per così dire, martiri certificati per lo Stato Islamico e, in questo senso, sono presentati alla devozione popolare. Sì, proprio alla devozione di quello stesso popolo wahabita che, negli anni novanta del secolo scorso «hanno distrutto dei marabutti in Algeria affermando che il principio della santità è illegittimo e antimusulmano».[42] I caduti dell’Isis di cui si parla nel magazine digitale di propaganda sono, a tutti gli effetti, riconosciuti uomini santi e perfetti. Attenzione, anche in questo ribadire l’ortodossia delle loro vite c’è qualcosa che non quadra, perché soltanto il profeta Muḥammad, a ben vedere, è l’uomo perfetto, al-insān al-kāmil, presentandosi come colui che «unisce il mondo generato a quello divino».[43]
La fede capovolta. Il contrario di Dio
L’inganno forse più clamoroso che l’Isis ha elevato al rango di verità riguarda Dio, l’Eterno della religione islamica. Dei nomi di Dio evocati dal Corano, o dei 99 proclamabili – essendo uno noto soltanto ad Allah – lo Stato Islamico attua una riduzione drastica, preferendo di gran lunga l’epiteto akbar, grande, su tutti gli altri. L’enfasi continua su questo attributo, in occasione di stragi terroristiche ed esecuzioni, quasi una sorta di mantra subito prima o subito dopo la violenza perpetrata trasmette un approccio alla complessità della persona divina limitato alla potenza nel castigo, mettendo in ombra il profilo di clemenza e di misericordia, che sono invece il cuore della teologia islamica.
Può essere rahman il Dio di uno Stato che, asserendo di fondarsi sulla fede in quel principio, fa dello sterminio, della morte e dell’odio le basi della propria politica? No di certo. La giustizia divina, a cui l’Isis fa riferimento non è quella nel segno dell’amore paterno verso le creature, bensì un fare giustizia bellicoso e senza pietà, come si evince con chiarezza dagli intenti del Califfato, nel numero 8 di Dabiq. Le parole riportate sono riferite ad Abū Mu’ab az-Zarqāwī (1966-2006), terrorista, primo leader e propugnatore dello Stato Islamico.
«Abbiamo una religione che ha rivelato che Dio è una bilancia e un giudice. Il suo dettato è decisivo e il suo giudizio non è un divertimento».[44]
E infatti l’Isis si guarda bene dal proclamare un Dio anzitutto ar-rahmani rahimi, perché questo significherebbe dar conto di atti individuali e collettivi che trascurano, spesso e per lo più, il primo insegnamento del Corano, con cui iniziano le sue sure, proclamando la misericordia di Allah. L’attributo – misericordioso – è così importante che, tra i 99 “bellissimi” termini (al-asmā’ wa al-husnā), è l’unico a diventare anche apposizione, cioè propriamente un nome, il solo nome che può prendere il posto di Dio quando lo si invoca. L’uso è talmente radicato nella pratica islamica che, ricorda il teologo Hans Küng,[45] c’erano credenti che erroneamente scambiavano “il Misericordioso” per un altro essere divino. Termine di intersezione tra le religioni monoteiste, rahman rinvia a un nucleo semantico che esprime l’amore di Dio verso le creature, a partire dalla sua forma più viscerale e intima, nella dimensione dell’utero materno.[46] Oscurare tale prerogativa di Dio impone di mettere tra parentesi lo slancio tra le creature, a partire dagli esseri umani, enti prediletti per i quali il mondo è stato creato, anche nella tradizione islamica. Vicario di Dio sulla terra[47], è proprio sulla base della misericordia divina che l’uomo può disporre del mondo e che Dio si fa difensore e tutore del genere umano.
Dimenticare la preminenza della misericordia divina – o meglio, veicolare la menzogna che Dio sia grande prima di misericordioso – porta ad assumere comportamenti in contrasto con lo stile di vita più appropriato a un credente.
Le virtù islamiche,[48] ricordiamolo, mettono radici comuni nel principio della misericordia. Il perdono, di cui non esiste traccia nel lessico dell’Isis, che si proclama poggiare sulla più autentica fede islamica, spicca da protagonista nella rosa virtuosa che prevede devozione, riconoscenza e fratellanza. In Corano, 2, 263:
«Una parola gentile e di perdono è meglio di un’elemosina seguita da un’offesa; Dio è ricco e clemente».
Trascurare questa componente nella vita di relazione non è cosa da poco, perché significa oscurare un principio fondante della fede islamica, vale a dire la capacità di discernimento, presupposto dell’agire morale (Corano, 41, 34 s):
«Che non sono cosa uguale il bene e il male, ma tu respingi il male con un bene più grande e vedrai allora che colui che era a te nemico, ti sarà caldo amico. E tal grado non potranno raggiungere se non i costanti pazienti (…) che i favoriti del favore supremo».
Presupposto del perdono, cioè dell’agire misericordioso da parte dell’uomo, è riconoscere le proprie fragilità: una presa d’atto che assume piena valenza metafisica, teologia e antropologica specialmente alla luce del confronto, impari, tra la finitezza della condizione creata e Dio. È pur vero che della misericordia di Dio non si può dare alcuna giustificazione, a maggior ragione per Allah, di cui non si può in alcun modo afferrare l’essenza, non essendovi tra Dio e l’uomo nemmeno quel rapporto analogico che invece è asserito della fede cristiana (la persona è “a immagine e somiglianza” del Creatore). Ma sul piano dell’esperienza – per gli islamici è materia di rivelazione – la misericordia divina possiede il massimo grado di priorità tra le attribuzioni. Perché, dunque, l’Isis non proclama la misericordia e la clemenza, né tanto meno la pratica? Chiaro sintomo di una riduzione della dottrina ai propri scopi di annientamento, nel nome di un Dio potentemente mistificato, mettere tra parentesi il dovere della misericordia nelle relazioni umane verso “gli altri”, avalla il presupposto di non sentirsi in alcun modo tenuti alla concordia. Ma un’altra conseguenza è sottesa alla rimozione della misericordia e consiste nel voler dare un volto a Dio, proprio quel Dio che non può essere in alcun modo conosciuto nella sua essenza.
A parole, e nei fatti, contrario a tutte le forme di adorazione che non siano la proclamazione dell’unicità divina, l’Isis fa dell’Onnipotente una sorta di feticcio a proprio uso e consumo. L’oscuramento della misericordia produce questo esito perché soltanto essa costituisce, nella sua insondabilità e imponderabilità, un attributo divino. Non lo sono la forza e la grandezza, sempre assoggettate a un parametro di riferimento, ma neppure la giustizia, misurata in relazione a norme. La visione dell’Islam come una religione di «bilancia e spada», propagandata dallo Stato Islamico, oltre ad esprimere una riduzione della complessità della fede, ne configura un’immagine dai contorni netti, tracciando contestualmente un profilo di Dio necessariamente parziale. Eccezion fatta per la misericordia, ogni nome con cui si cerca di designarlo, riconduce Allah alla finitezza dell’esperienza umana. Lo aveva compreso al–Bukhārī, il compilatore della più autorevole raccolta di detti e fatti relativi alla vita del profeta, secondo il quale il vero Islām è:
«nutrire gli affamati e presentare il saluto della pace, tanto a coloro che si conoscono, quanto a coloro che non si conoscono».[49]
La grande empietà dell’Isis: portare l’infinito nel finito
L’Isis nasce con un proclama: è il 29 giugno 2014 quando Abu Bakr al-Baghdadi annuncia l’istituzione del Califfato, un’area di 12 mila metri quadrati, lungo il confine tra Siria e Turchia, con capitale Raqqa. L’entità ha un territorio dai confini labili, non ha alcun riconoscimento internazionale, né popolazione – pur facendo riferimento, almeno nel nome, alla comunità musulmana (umma).
Possiede però un tratto simbolico, inizialmente sottovalutato dalla comunità internazionale, che funziona come potente rinforzo motivazionale per i jihadisti, in virtù dello «stretto rapporto tra territorialità e identità: califfo e Califfato».[50]
Abu Bakr si attribuisce, di fatto, un ruolo divino facendo delle sue parole strumento di creazione ex nihilo. Anche sul piano del discorso i conti non tornano, perché il sedicente califfo enuncia un atto linguistico dal carattere performativo, senza che vi siano i presupposti. Per l’Isis, che nasce come un inganno anzitutto nei confronti del mondo musulmano, l’urgenza identitaria si impone parallela a quella della costruzione di un’entità statuale di una qualche consistenza. Di qui il ricorso esasperato ad una forma di comunicazione in cui il jihadista “ci mette la faccia”, per ribadire, “io ci sono” e se “io ci sono” anche l’Isis è qualcosa di definito. Pur avendo in comune con il totalitarismo nazista il presupposto di partenza, ovvero un’ideologia assoluta, propagandata come la verità (la lettura radicale dell’Islam nella prospettiva più rigida del takfīr), da imporre contro ogni logica di rispetto umano, con violenza terroristica, massacri e pulizia etnica (e culturale), si intende sostenere che lo Stato Islamico ha introdotto una variabile decisiva. Si tratta di fare proprio il ruolo vicariale di Dio (Allah della fede islamica), nella gestione delle cose del mondo, con una torsione a 360 gradi delle tradizionali forme totalitarie.
Se, infatti, il nazismo muoveva da una visione immanente della condizione umana, per poi sconfinare in una trascendenza sui generis, facendone di fatto una religione animata dall’ideale mortifero che la orientava, l’Isis ha piegato il soprannaturale a metodo e sostanza delle proprie espressioni. Le conseguenze sono anzitutto comprese nel dissidio identitario che fa collidere il carattere particolare di uno Stato con quello universale della umma, il vero “popolo” del Califfato.
Questo conflitto, insieme con l’assurda pretesa di confinare l’infinito nel finito, attraverso la cessione della sovranità a un ente incommensurabile, sovrasensibile, eterno e infinito, svuota il divino della propria sacralità. L’espressione della grandezza di Dio, costante proclama dei jihadisti, finisce per configurarsi come violenza senza limiti nei confronti dei kuffār o miscredenti, senza alcun riferimento alla misericordia, corollario dell’unicità divina di Dio. Il ribaltamento del divino si riflette, sul piano della relazione male/potere nella forma del demoniaco, ovvero di una malvagità squisitamente umana ma con pretese soprannaturali, ben evidente nelle esecuzioni, i cui rituali richiamano il giudizio finale: una prerogativa spettante a Dio, indebitamente assunta dai jihadisti e sostituita alla più umana giustizia. Se, in parte ciò è reso possibile dal fatto che il corpus legislativo islamico è desunto dal Corano, fonte primaria della fede e della vita civile per i musulmani, nel caso dell’Isis il vicariato di Dio conduce ad annullare l’umano a tutto vantaggio del demonico.
LOGICA DELLA MENZOGNA TOTALITARIA
Dalla bugia di regime all’azione distruttiva dell’odio
Come nota lo storico Gustavo Corni, non c’è unanime consenso da parte degli storici sul passaggio «dell’antisemitismo da ideologia a prassi concreta»[51] nel regime nazista. Lo stesso discorso, in forma diversa, potrebbe valere per il jihadismo dell’Isis; in altri termini, tra il fondamentalismo e il genocidio delle minoranze yazide o gli atti di terrorismo sulla scena globale, non esiste un rapporto di necessità. Non tutti i fondamentalisti, del resto, possono essere configurabili come terroristi.
Per capire come si passi dall’ideologia all’applicazione estrema di essa, in spregio di quanti non sono parte del “popolo” eletto – caratteristica sia del nazismo, sia dello Stato Islamico – bisogna ragionare sulla logica del pensiero unico che sottende ai totalitarismi. Entra qui in gioco il ruolo decisivo della menzogna, a giudizio di chi scrive, per raggiungere due obiettivi: 1) rafforzare il consenso e 2) procedere fattivamente alla prassi concreta dell’odio nei confronti di chi “sta fuori” quello schema.
Poiché parliamo di logica, occorre anzitutto interrogarsi su che tipo di enunciati siano quelli deliberatamente animati dalla menzogna. Falsa è una proposizione in cui quello che dico non corrisponde a quanto è effettivamente nella realtà. Nel nazismo non c’è che l’imbarazzo della scelta. Un esempio: le deportazioni dal ghetto polacco di Lodz di circa 16 mila persone, per lo più bambini, avvenuta nel 1942, con il coordinamento del Consiglio ebraico locale venne fatto passare come un trasferimento, finalizzato a far lavorare i deportati nella produzione bellica tedesca[52]. Come provare la falsità? Sarebbe bastato chiedere assicurazioni e verificare personalmente, con l’impegno di bloccare tutto qualora le cose non fossero andare così come dovevano. Anche se è difficile scrivere – e leggere – fatti del genere, senza sentirsi scossi, sul piano logico il tragico fatto si riconduce a una proposizione del tipo “A è B”, dove “I deportati del ghetto di Lodz” è A e “lavoratori per conto dei tedeschi” è B.
I capi del Consiglio ebraico avrebbero dunque potuto porre la questione della verità dell’enunciato; ma siamo propensi a credere, in maggioranza, che la prima proposizione da utilizzare sarebbe stata quella di non dover procedere a un trasferimento del genere, per ragioni umanitarie.
Due questioni, due tipi di proposizioni: 1) una avrebbe richiesto la verifica fattuale; 2) l’altra avrebbe posto una questione di valore. La prima chiama in causa la verità/falsità di un’asserzione; la seconda interpella sul piano morale. Come ci ricorda il filosofo Anthony Kwame Appiah, se le questioni “fattuali” «richiedono il ricorso a osservazioni, esperimenti o dimostrazioni», i problemi morali «non sono deducibili soltanto per mezzo dell’esperienza o della logica».[53]
Per quanto la logica sembri lontana dalla riflessione storica sui fatti, ne è in realtà una costituente importantissima. E, nel caso dell’odio distruttivo dei totalitarismi presi in esame, porta la menzogna al centro di tutto. Ecco come.
Proposizioni menzognere come quella indicata sopra, laddove non vi sia la possibilità di accertarle, vengono impiegate come principi assoluti, a carattere universale. Se ciò avviene è per una ragione precisa: ogni espressione totalitaria si accompagna, come abbiamo visto, allo spasmodico bisogno di auto-difendersi e rafforzarsi. Al punto che, ha spiegato Arendt, l’ingresso di frammenti di realtà risulta pericolosissimo, perché mina la stabilità del regime. La propaganda fa poi il lavoro di amplificare, da un lato, le menzogne e di abbassare, dall’altro, la capacità di verifica autonoma e critica. Laddove si introduca il dubbio della falsità, ecco il rilancio delle mitologie che distraggono, dei riti o della polizia politica, più che mai attiva nel nazismo come nel Califfato.
Sul piano del discorso menzognero, accanto al “rinforzo” della menzogna che va di pari passo allo sforzo di non far pensare “il popolo”, se non nella direzione del regime, si verifica un passaggio cruciale per il problema posto all’inizio, ovvero il problema del passaggio dall’ideologia alla prassi dell’odio.
Il sillogismo fasullo e apodittico come carburante delle azioni di odio
Precisamente: la proposizione presunta fattuale – la falsità spacciata per verità –, esposta a un livello crescente di consenso, va a comporre un semplice sillogismo che porta là dove vuole il regime. Come si vede, il passaggio dalla 1) dimensione fondamentalista del messaggio 2) all’azione distruttiva è un percorso lineare, tutto sommato, nel quale la menzogna svolge un ruolo fecondo.
Ad un primo livello la proposizione falsa viene creduta vera, quindi essa si struttura come premessa di tipo universale, con pretese di necessità – mentre è fasulla e particolare – in un giudizio sillogistico applicato all’agire morale. In occasione del processo di Norimberga, i gerarchi nazisti alla sbarra avevano reclamato la propria drittura morale. In fondo, non avevano fatto altro che eseguire ordini, com’era loro dovere. A parte il fatto che, nel tempo si è visto come la situazione del Terzo Reich fosse più complessa e, ad esempio, Alfred Eichmann – incaricato della logistica della Soluzione finale – fosse molto più autonomo di quanto avesse ammesso, il problema è qui:
- I regimi totalitari applicano un procedimento logico, basato su premesse false, all’agire morale, deducendone comportamenti.
- Il giudizio morale non può rispondere alla logica sillogistica, essendo sempre commisurato al caso particolare
- Ne viene uno “schema” dalla dirompente funzione operativa
- Un modello ultra semplificato, che porta a considerare come “dovuta” ogni forma di azione malvagia contro quanti stanno “al di fuori” del sistema
Lo Stato Islamico aveva, se possibile, applicato questo “format” ancora più smaccatamente del Terzo Reich. Alla base di ogni valutazione di tipo morale (come devo agire?) si incontrava il principio del takfīr, ovvero della massima empietà, così che, in modo sostanzialmente automatico, si poteva pervenire alla condanna.
«Noi pratichiamo il jihād perché la parola di Dio diventi suprema e la religione diventi completamente per Dio (…) Tutti coloro che si oppongono a questo obiettivo o lo intralciano, sono per noi il nemico e un obiettivo delle nostre spade, quale che sia il loro nome e la loro discendenza».[54]
Secondo la logica del takfīr soltanto chi segue la rigida interpretazione salafita-wahabita del Corano è degno di rispetto. Tutti gli altri si sono macchiati di una colpa, la massima empietà possibile, secondo l’ideologia dell’Isis, che consiste essenzialmente nell’avere offeso Dio. A ben vedere, questo è il primo schema globale che la perversa logica del Califfato applica al resto del mondo. Il ricorso a un tale “cartellino” di identificazione è poi costante in ogni esecuzione, ovvero negli atti in cui la distanza tra il persecutore e la vittima è più ravvicinata, prolungata e spettacolarizzata. Fateci caso, se riuscite a guardare un video o a scorrere gli impaginati raccapriccianti di Dabiq, queste persone vengono straziate sempre in quanto “colpevoli”: prima o a margine della tortura, si ribadisce che sono non “qualcuno”, ma “qualcosa”. Una spia del Mossad, un politeista, un nemico dello Stato Islamico, un omosessuale, uno stregone, un’adultera. Prima di un imputato che ha contravvenuto a una norma di legge, civile o religiosa, c’è una maschera, una dramatis persona che nasconde l’individuo. Non si tratta di un dettaglio marginale, ma della sostanza stessa dell’atto perpetrato.
«Non è difficile enumerare i versetti che legittimano l’uccisione degli infedeli e quelli che la definiscono come un crimine (…) la contabilità dei versetti non è in grado di penetrare i meccanismi complessi dell’universo quasi schizofrenico in cui oggi è immersa gran parte della gioventù del mondo musulmano».[55]
CONCLUSIONI
Il nemico necessario per forgiare il popolo
Il tema della menzogna come alimento e dover essere del consenso totalitario, qui soltanto abbozzata a grandi linee, presenta motivi di indubbio interesse per ogni epoca, compresa quella che stiamo vivendo, percorsa da pericolose tensioni contro “l’altro” – il diverso, colui che sta fuori dai confini e che migra – e da una pericolosa evocazione del “popolo”. Un termine, questo, non privo di criticità: come abbiamo visto, era infatti un fattore di rinforzo identitario del totalitarismo classico nazista e di quello più recente dello Stato Islamico.
A questo punto, mi permetto una sola considerazione, desunta dalle riflessioni fin qui svolte, alla luce dell’attualità. In Italia si parla molto, dopo le elezioni del 4 marzo, di forze politiche di ispirazione cosiddetta sovranista, risultate vincenti per aver intercettato le “paure” dell’Italia, in particolare quella di un presunto assedio di migranti sulle nostre coste.
In realtà, questa situazione, ci dovrebbe spingere ad un esercizio critico più che mai attento, rispetto alle informazioni veicolate dalla propaganda politica di parte e dall’ignoranza circa la questione, in un Paese in cui l’accesso all’informazione avviene in gran parte attraverso i social network (Facebook, in primis). Non si vuole, qui, porre nessun tipo di connessioni tra la situazione italiana e i fenomeni totalitari esaminati.
Tuttavia, l’analisi ha fornito uno spunto di riflessione: non è la “paura” il motore dell’odio. È l’odio per l’altro, pretestuosamente indicato dalle ideologie totalitarie – implicate a doppio filo, costituzionalmente, con la menzogna – come il “nemico”, a forgiare la paura. Perché questo? Perché questo sentimento, caratterizzato da ansia, apprensione, instabilità, serve in modo mirabile a rafforzare visioni univoche di mondo, al cui centro sta un’entità astratta, indifferenziata, chiamata “popolo”.
Il totalitarismo ne ha bisogno, perché il popolo totalitario – sia quello del nazismo, sia la umma globale secondo i leader del Califfato – si plasma sull’antagonismo, prima e sull’annientamento del (presunto) nemico, poi. Ma si badi: ciò non avviene mai a beneficio del “popolo”, bensì a tutto vantaggio esclusivo dell’esercizio del potere.
[1] Espressione politica, a carattere totalitario, sviluppatasi in Germania tra il 1920 e il 1945, ad opera di Adolf Hitler, leader del nazionalsocialismo. Hitler fu nominato Cancelliere nel 1930. Si suicidò il 30 aprile 1945, nel suo bunker di Berlino.
[2] Per un approfondimento, mi permetto di rinviare il lettore al capitolo sulla violenza e il terrore nazista secondo l’analisi di H. Arendt, nella mia tesi di dottorato: L’inaridimento dei terroristi, Roma, Edusc, 2009.
[3] H. Arendt, The Origins of Totalitarianism, New York, Harcourt Brace Jovanovich, 1948 (trad. Le origini del totalitarismo, Torino, Einaudi, 2004), pag. 466. È anche sulla base di questa distanza che la Arendt spiega la capacità dei criminali nazisti di esercitare la propria ferocia distruttiva verso gli ebrei ostentando il massimo distacco.
[4] Ibidem, pag. 638.
[5] L’associazione tra la nozione di totalitarismo data dalla Arendt, e il terrorismo, viene proposta da J. C. Isaac, Arendt, Camus, and Modern Rebellion, New Haven a & London, Yale University Press, 1992. Lo studioso scrive; “For Arendt, as for Camus, because there’s no rest, no order on which to base one’s expectations and one’s conduct, totalitarism is terroristic” (op. cit. pag. 58).
[6] S. Whitfield, Into the Dark: Hannah Arendt and Totalitarism, Philadelphia, Temple University Press, 1980.
[7] H. Arendt, On Violence, op. cit. pag. 146.
[8] H. Arendt, The Origins, op. cit. pag. 466.
[9] H. Morgenthau, “Hannah Arendt on Totalitarism and Democracy”, Social Research, vol. 44., n. 1, 1977.
[10] Ibidem, pag. 476.
[11] Anche sul piano psichiatrico si fa cenno di questo ribaltamento nella percezione della realtà. Sottoposto al test Rorschach, alla vigilia del processo di Norimberga, il gerarca Alfred Rosenberg affermava di vedere, in una di quelle caratteristiche macchie dei topi che scendono dall’alto. Era, secondo N. P. Nielsen e S. Zizolfi, il sintomo di quel “mondo alla rovescia che si agita nel segreto dell’organizzazione perversa del mondo interno” di Rosenberg e di altri nazisti. N.P. Nielsen e S. Zizolfi, Rorschach a Norimberga. I gerarchi nazisti a processo fra memoria storica e riflessione psicoanalitica, Milano, Franco Angeli, 2005.
[12] H. Arendt, The Origins, op. cit., pag. 392.
[13] O. Guaraldo, “Cristalli di storia: il totalitarismo tra abisso e redenzione”, in Hannah Arendt, op. cit., pag. 51.
[14] Ibidem, pag. 391-392.
[15] K. Fings, Sinti e rom. Storia di una minoranza, Bologna, Il Mulino, 2018.
[16] H. Arendt, The Origins, op. cit., ix. «absolute because it can no longer be deduced from humanly comprehensible motives».
[17] L. Kohler, H. Saner (ed.), Hannah Arendt-Karl Jaspers Correspondance 1926-1969, New York, Hartcourt Brace Jovanovich, 1992, pag. 166. «individual human beings did not kill other individual human beings for human reasons, but (…) an organised attempt was made to eradicate the concept of the human being».
[18] «When a man is faced with the alternative of betraying and thus murdering his friends or of sending his wife and children, for whom he is in every sense responsible, to their death; when suicide would mean the immediate murder of this own family how is he to decide? The alternative is no longer between good and evil, but between murder and murder. Who could solve the moral dilemma of the Greek mother, who was allowed by the Nazis to choose which of her three children should be killed?». H. Arendt, The Origins, op. cit., pag. 452.
[19] Ibidem, pag 447.
[20] Ibidem, pag. 451.
[21] Ibidem, pag. 451.
[22] «Agli occhi di Hitler, gi ebrei, privi di un proprio territorio, costituivano un disturbo all’interno della lotta naturale tra le razze; era perciò necessario toglierli di mezzo, impedire loro di nuocere». G. Corni, Breve storia del nazismo, op. cit., pag. 103.
[23] M. Kaya, “Radical Evil Problem in Hannah Arendt” in Current Topics in Social Sciences, Sofia, St. Kliment Ohridski University Press, 2016, pag. 211.
[24] Ricordiamo l’enciclica di Papa Pio XI Mit brennender Sorge, del 1937.
[25] Si veda G. Corni, Breve storia del nazismo, op. cit. pag. 93. Lo storico trentino rileva anche che «più della metà degli elettori tedeschi, ancora nel marzo ’39, non aveva espresso un voto favorevole al partito di Hitler», op. cit., pag. 94
[26] Filosofa fenomenologa tedesca, allieva di Edmund Husserl (1891-1942) morì deportata nel lager di Auschwitz, con la sorella Rosa.
[27] A. Ales Bello, P. Chenaux, Edith Stein e il nazismo, Roma, Città Nuova, 2005, pag. 104. Il corsivo è mio.
[28] «Passai tutto il semestre estivo a Friburgo. Compresi allora, in modo viscerale, come si instaura un regime totalitario e fino a che punto non si tratta di un processo intellettuale». J. Hersch, Rischiarare l’oscuro. Autoritratto a viva voce, Milano, Baldini Castoldi Dalai, 2006, pag. 56.
[29] «Queste leggi gettarono le fondamenta per escluderli (gli ebrei, ndr) dalla “comunità di popolo”», in G. Corni, Breve storia del nazismo, op. cit., pag. 103.
[30] Ibidem, pag. 56.
[31] Così si esprime la Hersch: «Non mi ero mai immaginata la potenza della massa sociale. Non rimpiango affatto di aver vissuto quell’esperienza. Si tratta di forze operanti della storia che non si capiscono o di cui ci si rifiuta orgogliosamente di riconoscere il potere o da cui possiamo essere coinvolti, proprio perché non le abbiamo vissute». Ibidem, pag. 57.
[32] La fascinazione suscitata sugli uditori da Heidegger, nel 1933, era soprattutto motivata dall’ «aspetto poetico-magico del suo modo di insegnare». Ibidem, pag. 58.
[33] Ibidem, pag. 57.
[34] I riferimenti al “parassitismo” degli immigrati in Gran Bretagna, presenti nei giornali, nei blog e nei forum del web sono significativi al riguardo. Si veda: A. Musoloff, “Dehumanizing Metaphors in UK Immigrant Debates in Press and Online Media”, Journal of Language Aggression and Conflict, 3:1 (2015), pag. 41-56.
[35] [35] G. Corni, Breve storia del nazismo – 1920-1945, Bologna, Il Mulino, 2015, pag.91.
[36] Rinvio il lettore alla disamina, molto più articolata di questo concetto, che ho svolto in Cartoline dall’inferno, Lucca, Tralerighe Libri, 2017 e in “Postcards from the Hell”, in Terrorism in a Global Village, New York, Nova Science Publishers, 2016, pag. 87-103.
[37] «Il punto di vista salafita, separando il testo coranico dalla storia e volendo applicare un testo astratto a una realtà astratta, non fa che voltare la schiena, senza rendersene conto, alle intenzioni stesse della Rivelazione e ai fini della sharī‘a. Una messa a punto della nozione di testo potrebbe mettere fuori gioco questa strategia di occultamento, smascherando la natura retrograda di questo tipo di pensiero e il suo radicamento nella tradizione reazionaria delle classi dominanti». Nasr Abū Zayd, Islām e storia. Critica del discorso religioso, Torino, Bollati Boringhieri, 2002, pag. 19.
[38] L’accusa di takfīr era, per il Califfato, ragione sufficiente e condizione trascendentale, in senso kantiano, per 1) avallare la violenza contro tutti coloro che erano al di fuori dalla casa del Califfato, in cui identificano l’autentica casa dell’Islam e 2) cancellare le diversità culturali, etniche, di fede o di non fede, nella prospettiva di un unico Stato Islamico.
[39] Più precisamente, l’espressione è desunta dal Corano, in particolare dal verso 33,23: «Fra i credenti furono uomini fedeli al Patto stretto con Dio».
[40] Dabiq, 13, 2016, pag 23. «During the interrogation Abū Muhārib Al-Muhājir would present himself as unintelligent, as was the method when dealing with intelligence agencies. The Prophet said, “War is deception” (Reported by al-Bukhārī and Muslim»).
[41] «His harshness toward the kuffār was manifested through deeds that enraged all the nations, religions, and factions of kufr, the entire world bearing witness to this», ibidem, pag. 22.
[42] Ibidem, pag. 169.
[43] C. Baffioni, Filosofia e religione nell’Islām, op. cit., pag. 157.
[44] In Dabiq, 8, 2015, pag. 3. «We have religion that Allah revealed to be a scale and a judge. Its statement is decisive and its judgment is not amusement».
[45] Egli sostiene che l’attributo “misericordioso” è l’unica bussola efficace per la conciliazione tra i credenti delle diverse fedi monoteiste, ma pure per una stabile concordia su scala globale. «Se vogliamo realizzare la convivenza dei musulmani con gli ebrei e i cristiani è oggi particolarmente importante ricordare che anche nell’Islam è Dio stesso il difensore dell’umanità, nella dimensione umana autentica (…) ogni appello (…) preceduto “nel nome di Dio clemente e misericordioso”». H. Küng, L’Islam. Passato, presente e futuro, Milano, Rizzoli, 2005, pag. 182.
[46] G. Ravasi, La misericordia, Bologna, EDB, 2015.
[47] C. Baffioni, Filosofia e religione in Islam, La Nuova Italia Scientifica, 1997, pag. 157.
[48] H. Küng, L’Islam, op. cit., pag. 191.
[49] C. Baffioni, Filosofia e religione nell’Islām, pag. 157.
[50] Scrive K. Fouad Allam: «l’Isis è riuscito dove gli altri gruppi fondamentalisti e del radicalismo islamico, per anni e anni non erano riusciti, vale a dire trasformare il radicalismo islamico in un’istituzione, il Califfato». In Il jihadista della porta accanto. Isis, Occidente, Milano, Piemme, 2014, pag. 10.
[51] G. Corni, Breve storia del nazismo – 1920-1945, Bologna, Il Mulino, 2015, pag. 101.
[52] «Ci si chiede – senza avere risposte chiare – se la dirigenza dello Judenrat (il Consiglio ebraico, ndr) e della polizia avesse consapevolezza di quale era il destino dei deportati; o se davvero credesse alle menzogne diffuse in modo sofisticato dai tedeschi, che venissero spostati a oriente per lavorare», ibidem, pag. 158. Su questa tragedia e, più in generale, sulla vita nel ghetto, si legga, di A. Weissman, Dal ghetto di Lodz al paese del sole, Como, Istituto per il movimento della Liberazione , 1993. Ebbi la possibilità di conoscere personalmente Weissman e di raccogliere la sua testimonianza di (forse) ultimo superstite del ghetto di Lodz.
[53] K. A. Appiah, Quell’ex tale che… Introduzione alla filosofia contemporanea, Roma, Bari, Laterza, 2009, pag. 187.
[54] Dabiq, 8, 2015, pag. 3. Frase attribuita ad al-Zarqāwī.
[55] K. Fouad Allam, “Jihad. Religione e politica del martirio”, in Il martirio, op. cit., pag. 129-151.