di Bruno Mastroianni
Mi è capitato di incontrare online un meme interessante: vi sono ritratti tre bicchieri, identici, riempiti a metà; sul primo è riportata la frase “il bicchiere è mezzo pieno” e sopra indicata la dicitura: “ottimista”; sul secondo, “il bicchiere è mezzo vuoto” e il corrispettivo: “pessimista”; sul terzo c’è scritto “questo bicchiere mi offende” e come dicitura: “internet” [1]. Difficilmente si potrebbe sintetizzare meglio una realtà che è sotto gli occhi di tutti: il web è un luogo dove, nelle continue discussioni e interazioni quotidiane, le reazioni sembrano essere spesso eccessive, guidate dal fatto che ci si prende molto sul serio e si prende ogni cosa troppo sul serio.
Il problema è evidente sui social, dove qualsiasi tema venga affrontato sembra non solo scatenare guerre tra sconosciuti o semi-sconosciuti, ma si riversa nelle conversazioni e interazioni più quotidiane tra amici, fino ad arrivare nelle chat di WhatsApp, come quelle dei genitori di scuola che più di una volta sono finite al centro del dibattito a causa della violenza verbale e degli scontri che si consumano in esse[2].
Insomma, sembra che online ci sia una certa tendenza alla pesantezza e alla seriosità nell’affrontare il confronto con gli altri, come se si fosse sottoposti a una costante pressione che non permette di rimanere distaccati, sereni, capaci di interagire in forme umanamente sostenibili.
Il triplice sovraccarico
Una prima ragione di questa pesantezza va ricercata in quello che si potrebbe definire “sovraccarico di differenze”: l’iperconnessione in cui siamo immersi ha messo tutti nelle condizioni di incontrare costantemente la differenza dell’altro[3]. Una differenza che si manifesta tra l’altro nella sua versione psicologicamente più impegnativa (perché simbolica e mentale) attraverso le parole, le immagini, i prodotti digitali di comunicazione, e priva di quel naturale regolatore delle relazioni umane che è il corpo assieme a tutto il suo corredo di comunicazione non verbale[4]. Persone con differenti sensibilità e prospettive, che vivono differenti contesti e luoghi, si cimentano in continui scambi di frasi, immagini, testi, in situazioni decontestualizzate nel tempo e nello spazio. In questo clima, ogni utente è sottoposto alla pressione di dover costantemente difendere e rielaborare in parole scritte e argomentazioni le sue posizioni di fronte ad altri.
La seconda ragione va ricercata nel narcisismo: ognuno di noi ha la naturale tendenza a volersi mettere in mostra, a riferire l’intera realtà che ha attorno alla propria situazione, cercando riscontro delle proprie idee e convinzioni[5]. Tutto questo non è stato inventato dal web, non è un prodotto strettamente tecnologico (potremmo piuttosto definirlo un prodotto umano tipico); la tecnologia, casomai, o meglio l’interconnessione prodotta dalla tecnologia, ne ha aumentato le possibilità e le potenzialità[6] portando a un vero proprio “sovraccarico valutativo”: ognuno con il suo smartphone e i suoi account non solo ha un pulpito e un palco più ampio da cui esporre se stesso[7], ma è anche esposto ai giudizi molteplici a cui quel pubblico lo sottopone in ogni momento. La maggiore possibilità di dare sfogo al proprio ego ha insomma come contropartita anche un mondo che – grazie all’interconnessione e alla partecipazione di tutti gli altri – più intensamente di prima si presenta come non facilmente “riducibile” ai propri gusti, interessi, idee, ecc.
E qui una terza pressione, anche questa proveniente da una dinamica che viene da lontano, che con il web ha raggiunto una sorta di maturazione: l’essere costantemente tirati in ballo in un flusso di questioni e discussioni di tendenza su cui è irresistibile non intervenire: è il “sovraccarico di discussioni”. Nella connessione con gli altri sentiamo tutti la pressione a dire la nostra sui temi che vengono portati all’attenzione dall’agenda mediatica o dalle dinamiche interne alla rete, spinti non solo dalla paura di essere tagliati fuori (l’effetto FOMO, Fear Of Missing Out[8]) ma da una preoccupazione ancora più profonda: non riuscire a emergere nel flusso attraverso l’espressione della propria opinione[9] che diventa quasi un atto di affermazione della propria esistenza.
Sovraccarico di differenze, di valutazione, di discussioni[10] formano una specie di cocktail che produce quei fenomeni di costante nervosismo, stato emotivo instabile, polarizzazione, in cui ogni tema diventa una questione cruciale su cui fare una guerra di parole tutta articolata in formulazioni binarie: a favore / contro, noi / loro, verità / menzogna, ragione / torto[11].
Ritrovare la leggerezza
Insomma, l’essere umano iperconnesso ha bisogno di una cosa su tutte: ritrovare una via della leggerezza per allentare la pressione del sovraccarico in cui si trova a causa delle tecnologie digitali. Ora, qui si apre uno spartiacque importante, perché le vie per l’alleggerimento della pressione digitale possono essere molteplici. C’è tutto un filone della riflessione sul tema – di solito molto frequentato dal dibattito mediatico – che propone come soluzione lo “spegnere”, il disiscriversi dai social, la disintossicazione dai dispositivi[12].
Il difetto che accompagna queste prospettive del digital detox è quello di concentrarsi sul ridurre, ingabbiare, se non eliminare la connessione stessa senza dare reali risposte su come vivere connessi in modo soddisfacente. Si tende insomma a mettere la tecnologia al centro, come se fosse sostanzialmente qualcosa di troppo forte rispetto all’essere umano che si trova inevitabilmente preda di essa[13]. L’impressione è che questa visione dello “spegnere” sia vittima essa stessa della pressione dovuta al sovraccarico e sia frutto di un’eccessiva presa sul serio di se stessi e della propria condizione di esseri umani connessi dalla tecnologia, vista come un nemico invincibile che minaccia la propria autonomia e il proprio benessere.
La via della leggerezza dovrebbe allora procedere a un livello più radicale, collocandosi laddove ciascuno possa agire trovando in se stesso le risorse per praticarla proprio mentre è connesso. Il punto infatti è che, volenti o nolenti, siamo iperconnessi e, a meno che uno non possa vivere da eremita o con dei privilegi notevoli, in un modo o nell’altro dovrà avere a che fare con le tecnologie digitali per vivere nella società odierna.
Leoni da tastiera o gattini?
Da dove partire? C’è un’altra immagine online che ci viene in aiuto: raffigura un gatto in posa che, illuminato da una fonte di luce proveniente dal basso, proietta sul muro dietro di sé un’ombra deformata, ingigantita al punto da assumere le sembianze di un leone[14]. È un’immagine molto efficace che sintetizza il problema da sempre presente nella comunicazione umana (anche da prima dell’avvento del digitale): essere sotto i riflettori ingigantisce, fa sentire più importanti, più protagonisti, ma allo stesso tempo rende più fragili. Quell’ombra proiettata diventa infatti la misura dello scarto tra ciò che siamo veramente e ciò che vorremmo sembrare di essere di fronte agli altri. Quando quell’ombra si rivela come tale – per esempio perché qualcuno ci oppone il suo dissenso ridimensionando le nostre capacità e conoscenze – proviamo il disagio di scoprirci non più gli unici “re della foresta”.
Qui forse la chiave per ritrovare la leggerezza nell’era digitale: invece di continuare a cercare a tutti costi di difendere quell’ombra, cresciuta a causa del prendersi troppo sul serio; invece di prendersela con il riflettore (che sarebbe la tecnologia) e cercare di spegnerlo; ci si potrebbe concentrare sul riconoscere e accettare la propria natura di gattini. A dare peso a quell’ombra infatti siamo noi, visto che la luce di per sé illumina benissimo anche il piccolo felino in primo piano.
Questa “riduzione del proprio perimetro”[15], si potrebbe configurare come una via dell’auto-ironia: non è solo il riconoscimento dei propri limiti, ma soprattutto la capacità di raccontarsi e presentarsi agli altri (e quindi alle discussioni online) attraverso di essi e puntando su di essi.
L’argomento ad hominem e i litigi online
Nei litigi che si sviluppano online, molto spesso a far scaturire lo scontro sono pseudo-argomentazioni che vanno a colpire proprio l’orgoglio delle persone. Il più usato, di solito, anche perché il più facile da percorrere in un ambiente narcisistico, è l’argomento ad hominem: mettere l’accento su una presunta caratteristica (o carenza) personale dell’altro per “usarla” come elemento di contrasto alle sue idee[16].
Esempi tipici di argomenti ad hominem sono:
“Parli per sentito dire, non sai quello che dici!”
“Dici così perché sei giovane/vecchio/donna/uomo!”
“Se solo la smettessi di farti pubblicità con questi post!”
Risposte di questo tipo, non a caso applicabili quasi a ogni affermazione, cercano di spostare l’attenzione dall’argomento di cui si sta parlando a una presunta mancanza personale di chi sta sostenendo qualcosa. L’ad hominem ha lo scopo di creare un’opposizione senza in realtà argomentare. Il sottotesto, neanche troppo sottinteso, è affermare di fronte al pubblico che sta assistendo che l’interlocutore non è del tutto all’altezza di sostenere la sua tesi a causa di un difetto o di una caratteristica personale[17].
È per questo che è particolarmente efficace nelle interazioni online: va dritto a colpire il “leone proiettato dell’altro”. È una forma di disconoscimento: non prendo più l’interlocutore per chi è, ma cerco di creare artificialmente un’asimmetria tra me e lui, attraverso la scelta selettiva di un suo tratto (e l’omissione di altri) distogliendo l’attenzione dalla validità dei suoi argomenti per spostarla sulla sua inaccettabilità come discutente. Una mossa che nel clima di pesantezza narcisistica delle discussioni social, ha sempre il suo effetto esplosivo.
È una tattica di distrazione dal merito del discorso che in fin dei conti serve ad aggirare il confronto. Chi la mette in campo cerca di porsi in posizione più elevata, chi la subisce sente a sua volta la minaccia al suo buon nome e, spesso, risponde a tono. Si crea così quella polarizzazione che riduce la complessità del confronto a una contrapposizione binaria (degno/indegno, all’altezza/non all’altezza) distraendo da ciò che si stava discutendo. Tutte manovre che portano a chiudere la questione prima ancora di affrontarla. È un modo, di fatto, per alleviare la pressione creata dal sovraccarico di differenza e di valutazione che sorge in ogni discussione: si va sul personale, si abbandona il tema, il confronto viene spento sul nascere.
Di solito, si usa questa manovra proprio quando le argomentazioni dell’altro hanno colpito nel segno un punto debole. Si va sul personale “contro” qualcuno quando si ha una fragilità sul tema. Razionalizzare o argomentare costringerebbe infatti a guardare in faccia i propri limiti, fare un collaudo delle proprie conoscenze[18] e delle proprie reali esperienze. È il gattino di cui sopra che temiamo di far venir fuori al momento dell’emergere della differenza perché abbiamo la sensazione di perdere qualcosa. E il paradosso è servito: per difendere il presunto leone, forte e fiero, si finisce allo scontro e all’elusione della discussione, che è una forma di ritirata piuttosto fragile e vile.
È per questo che online la strada percorribile potrebbe essere quella dell’autoironia: essere i primi a riconoscere e a presentarsi alle discussioni non malgrado, ma attraverso i propri limiti, potrebbe rivelarsi la via per affrontare il sovraccarico con leggerezza. Quello che apparentemente potrebbe sembrare un atto di debolezza, in realtà si rivela una risorsa: rende capaci di affrontare qualsiasi differenza, valutazione e discussione.
La mossa del gattino in tre passaggi autoironici
Sono tre fondamentalmente i movimenti che portano a essere “leggeri” in un confronto. Il primo è la perdita di autoreferenzialità: chi è disposto a fare la fatica di comunicare con l’altro (e con gli altri che leggono) si sa guardare con uno “sguardo esterno” e considerare con più distacco il proprio atteggiamento e gli intenti che rivela in base alle parole che sceglie nelle sue risposte. Chi usa l’argomento ad hominem, ad esempio, sembra sul momento avere la meglio, ma ha effetto soprattutto sugli spettatori già schierati e faziosi[19]; se l’altro non raccoglie la provocazione, ciò può rivelare soprattutto agli astanti più spassionati (e quindi coloro che non hanno ancora assunto una posizione definitiva) la manovra aggressiva ed evasiva.
Il distacco non basta, ci vuole anche dedizione al tema: chi si focalizza sul merito degli argomenti e davvero cerca di capire qualcosa in più, tende a tralasciare quell’istinto a dover dimostrare qualcosa di se stesso che tutti provano al momento di esporsi (“quanto sono bravo”, “quanto sono competente”, “come le dico bene”).
Nel muoversi in questa prospettiva si diventa infine più realistici: si accetta meglio ciò che si è e ciò che si sa (si riconosce la propria differenza e quella altrui), si argomenta a partire dalle proprie reali competenze, senza sovrastimare le proprie convinzioni (si accetta di essere valutati), si dice la propria senza credere che sia una questione di vita o di morte (non si ha l’ansia di intervenire su ogni tema). In una parola si alleggerisce, standoci dentro, proprio quel triplice sovraccarico (di differenze, di valutazioni, di discussioni) che provoca disagio e rende pesante online ogni confronto di idee.
Se torniamo alle affermazioni ad hominem che abbiamo preso in considerazione, si potrebbe reagire applicando i tre movimenti auto-ironici che abbiamo visto sopra:
- Rinunciare all’autoreferenzialità e guardarsi con “occhio esterno”: ricordare che quelle frasi sono tentativi di mettere in cattiva luce davanti agli altri che ascoltano; ma c’è da chiedersi che opinione si farebbero costoro se si reagisse rispondendo con altrettanta stizza?
- Dedizione al tema: la cosa più importante non è restituire pan per focaccia (un modo per assicurare un litigio), ma cercare di tornare a discutere del tema, altrimenti che senso ha aver iniziato la discussione?
- Accettazione di ciò che si è: l’argomento ad hominem insinua che quel determinato difetto renda indegni alla discussione; la risposta autoironica richiede allora di rivestirsi proprio del presunto difetto, facendolo proprio e mostrando che quel limite è in realtà un punto di forza (la potremmo chiamare “la mossa del gattino”).
Le risposte autoironiche ai tre argomenti ad hominem potrebbero quindi essere:
A: “Parli per sentito dire, non sai quello che dici!”
R: “Certo, sento sempre cosa hanno da dire gli altri prima di farmi un’idea!”.
A: “Dici così perché sei giovane/vecchio/donna/uomo!”
B: “Proprio perché sono giovane/vecchio/donna/uomo ho un’opinione non scontata in merito…”
A: “Se solo la smettessi di farti pubblicità con questi post!”
B: “Senza pubblicità, non riuscirei a raggiungere nessuno, che gusto c’è a parlare con se stessi?”
La “mossa del gattino” produce una battuta su se stessi che può avere la chance di alleggerire la pressione e far ripartire la discussione. Non è facile e l’esito non è scontato: l’altro può continuare nella sua tattica di andare sul personale e non voler riprendere a discutere. A quel punto si potrà valutare quanto valga davvero la pena continuare a insistere, anche qui con un po’ di distacco.
Certo è che questa modalità autoironica ha una serie di vantaggi:
- È applicabile in ogni situazione perché richiede risorse interne a se stessi. Molte volte l’atteggiamento di pesantezza dei social deriva dal pretendere che l’altro faccia qualcosa, cambi le sue intenzioni, elevi la sua capacità di ascolto, ecc. Tutte cose che non possiamo avere sotto controllo, perché non dipendono da noi: l’autoironia invece è sempre nelle nostre possibilità, in ogni momento.
- Anche se il confronto non riprende quota, l’azione autoironica non va a vuoto. Per lo meno, infatti, è utile a chi la applica, perché rivela a se stessi le reali intenzioni con cui si è andati a discutere: se si riesce a fare autoironia significa che c’era un minimo di distacco, se non si riesce è perché si voleva in realtà difendere il leone proiettato.
- Infine, l’autoironia ha effetto sul pubblico che assiste: se anche non avesse convinto il diretto interlocutore, sarà comunque presa in considerazione da quella moltitudine di utenti che leggono le interazioni online senza dare segnali[20] e attraverso quella si saranno fatti una precisa idea di chi è stato più sereno nel confronto.
C’è da ricordare, infatti, che ogni volta che due o più persone discutono in pubblico, non vengono giudicate per i soli contenuti di ciò che dicono, ma soprattutto per l’atteggiamento e il modo con cui rivelano chi sono veramente. La via della leggerezza autoironica propone di mostrare sempre il gattino che realmente siamo, che è molto più interessante da ascoltare rispetto a quel leone posticcio che finiamo per non riuscire quasi mai a essere.
[1] Il meme, in portoghese, è stato pubblicato in diversi spazi online, lo si può trovare nei risultati di ricerca di Google immagini a questo indirizzo: http://bit.ly/MemeBicchiere, visitato il 31.1.2019.
[2] Cfr. ad esempio Tiziana De Giorgio, “Mamme e papà, basta WhatsApp”: l’alt dei presidi alle chat di classe, La Repubblica 11.10.2016, in https://www.repubblica.it/scuola/2016/10/11/news/_mamme_e_papa_basta_whatsapp_l_alt_dei_presidi_alle_chat_di_classe-149516798/, visitato il 31.1.2019.
[3] Cfr. Bruno Mastroianni, La disputa felice. Dissentire senza litigare sui social network, sui media e in pubblico, Cesati, 2017, pp. 11-13.
[4] Cfr. Vera Gheno, Bruno Mastroianni, Tienilo acceso. Posta, commenta, condividi senza spegnere il cervello, Longanesi, 2018, p. 187-192.
[5] Cfr. Walter Quattrociocchi, Antonella Vicini, Misinformation. Guida alla società dell’informazione e della credulità, FrancoAngeli, 2017, versione ebook, capitolo: “I. L’era della credulità”; paragrafo: “Noi e i nuovi media”.
[6] Cfr. Chiara Giaccardi, Ripensare i legami nell’epoca dei social media, in Scabrini E., Rossi G. (a cura di), Famiglie e nuovi media. Studi interdisciplinari sulla famiglia, Vita e pensiero n. 26, 2013, pp. 19-20.
[7] Cfr. Mafe De Baggis, #Luminol. La realtà rivelata dai media digitali, Hoepli, 2018, versione ebook, capitolo: “5. Non sono loro, siamo noi: i sette vizi”, paragrafo: “2. Narcisismo”.
[8] Per una descrizione del FOMO cfr. Vera Gheno, Social-linguistica. Italiano e italiani dei social network, Cesati, 2017, p.27.
[9] Ad esempio Antonio Pavolini parla di FOMI: Fear Of Missing In: cfr. Antonio Pavolini, Oltre il rumore. Perché non dobbiamo farci raccontare internet dai giornali e dalla TV, Informant, 2016, versione ebook, capitolo: “Le opinioni: la coda lunga dei punti di vista; dal FOMO al FOMI”.
[10] Cfr. Bruno Mastroianni, Cambridge Analytica ti dorme accanto, SenzaFiltro 28.12.2018, in https://www.informazionesenzafiltro.it/cambridge-analytica-ti-dorme-accanto/, visitato il 31.1.2019.
[11] Cfr. Bruno Mastroianni, Verità o menzogna? La contrapposizione stanca, in ExAgere Rivista luglio 2018, http://www.exagere.it/verita-o-menzogna-la-contrapposizione-stanca/, vsitato il 31.1.2019.
[12] Cfr. ad esempio Secondo la scienza cancellarsi da Facebook migliora la vita, The Post Internazionale 4.4.2018, in https://www.tpi.it/2018/04/04/facebook-cancellare-account-migliora-vita/, visitato il 31.1.2019.
[13] Cfr. Massimiliano Padula, Umanità, cittadinanza e civiltà mediale, in Giovanni Tridente, Bruno Mastroianni, #Connessi. I media siamo noi, Edusc, 2016, pp. 37-40.
[14] Cfr. https://www.istockphoto.com/it/foto/gatto-con-lombra-del-leone-gm175717025-26101498, visitato il 31.1.2019.
[15] È l’azione che corrisponde, in retorica, all’umiltà di riconoscere se stessi e le proprie reali capacità per poter sostenere una discussione efficace, cfr. ad esempio Alberto Gill, L’arte di convincere, Edusc, 2016, p. 31.
[16] Cfr. Adelino Cattani, Botta e risposta. L’arte della replica, il Mulino, 2001, pp. 179-180.
[17] Cfr. Bruno Mastroianni, La disputa felice, op. cit., pp. 70-71.
[18] Cfr. Adelino Cattani, Dibattito. Doveri e diritti, regole e mosse, Loffredo Editore, 2012, pp. 26-30.
[19] Cfr. Adelino Cattani, Botta e risposta, op. cit., p. 101.
[20] Cfr. Vera Gheno, Bruno Mastroianni, Tienilo acceso, op. cit., p. 226.