Franco Giorgi, Annibale Fanali, Francesco Tramonti
Introduzione
L’idea di disordine è per sua natura ambigua. Mentre nel senso comune è percepita come un’irregolarità priva di significato, foriera di incertezza e di inquietudine, sul piano scientifico è oggi concepita come l’inevitabile tendenza della natura a degradarsi verso configurazioni di crescente probabilità. Che percezione e cognizione siano concettualmente correlate è dimostrato dalla naturale tendenza umana a ricercare leggi e ricorrenze che categorizzino l’esperibile in forme ordinate di conoscenza. La scienza deve le sue origini alla storica disgiunzione tra certezza e verità, per cui la veridicità di un’esperienza è affidata alla sua preventiva inclusione in contesti accessibili e ordinabili secondo criteri di verificabilità sperimentale (Woodward, 2005). Sin dalle origini, la scienza ha perseguito l’obiettivo di descrivere le ricorrenze osservabili in forma di leggi e di definire quantitativamente le condizioni iniziali. Nell’aspettativa generata da questo approccio era implicita l’ambizione di poter prevedere in modo deterministico gli effetti prodotti dal rapporto causale secondo quanto descritto dalla legge. Condizione necessaria e sufficiente perché questa aspettativa potesse essere soddisfatta era che il complesso fosse ridotto al semplice, e che la descrizione dell’uno fosse ricondotta alla sola descrizione delle parti di cui risulta composto. In una siffatta situazione, il caso veniva inevitabilmente equiparato ad un’ignoranza conoscitiva e il disordine ad esso associato all’irreversibile tendenza al degrado (Townsend, 1992). Una delle conseguenze più eclatanti di questo approccio riduzionistico è data dall’obiettiva difficoltà di spiegare quei fenomeni interattivi nei quali la complessità del tutto è da considerarsi emergente rispetto alle proprietà delle parti costitutive, e che, proprio per questo, risulta difficilmente interpretabile senza la comprensione delle relazioni in gioco (Freeman et al., 2001).
Lo scenario culturale è radicalmente cambiato quando, nella seconda metà del XX secolo, si è compreso che un sistema caotico non è necessariamente casuale. Mentre il comportamento casuale rimane comunque imprevedibile, indipendentemente dal livello di conoscenza raggiunto, il comportamento caotico può essere deterministico, purché le condizioni iniziali siano note. Ma cosa ancora più interessante, i sistemi caratterizzati da una casualità di tipo caotico si mostrano estremamente sensibili alle condizioni iniziali, per cui possono manifestare comportamenti assai complessi e imprevedibili quando sollecitati da perturbazioni esterne (Prigogine & Stengers, 1984). In questo breve articolo cercheremo di puntualizzare alcuni dei cambiamenti paradigmatici che la comprensione dei sistemi caotici ha apportato alla concettualizzazione dei processi complessi dinamici in discipline quali la biologia dello sviluppo, la psicologia e la psicoterapia.
La complessità e l’origine dell’ordine
Gli esseri viventi evolvono in virtù di variazioni casuali del genoma poste al vaglio ambientale. La selezione naturale favorisce pertanto quegli individui che, esprimendo varianti adattabili, producono una prole più numerosa. La riproduzione differenziale che ne consegue è allora attribuibile alla sola casualità con cui nuove varianti alleliche possono essere espresse nel genoma della specie. Questa interpretazione lascia allo sviluppo embrionale il solo ruolo di esprimere deterministicamente le informazioni derivanti dall’adattamento ambientale. Con l’avvento della biologia evoluzionistica dello sviluppo (evo-devo), (Gilbert et al. 2015), il quadro concettuale è cambiato radicalmente perché ha comportato la riorganizzazione dello sviluppo embrionale da istruttivo a selettivo. Conseguentemente, l’emergenza di novità evolutive nel corso dello sviluppo non è stata più attribuita ad informazioni geniche predeterminate, ma alla molteplicità delle interazioni che esse sostengono nel contesto intracellulare. Come risultato, l’ovocita ha acquisito il ruolo di cellula unica in quanto sede di interazioni tra una memoria digitalizzata della specie (nuclei zigotici) e i trascritti materni (mRNAs) espressi analogicamente nell’ovoplasma (Giorgi et al., 2013). È in virtù di questi meccanismi interattivi che la massa dell’uovo non è uniforme né disordinata. Di fatto l’ovoplasma è in una condizione definibile ai margini del caos, ragion per cui necessita costantemente di un controllo esterno per mantenere la sincronia delle divisioni blastomeriche. È stato recentemente dimostrato che una tale sincronizzazione delle divisioni cellulari successive alla fecondazione è causalmente correlata con la durata dell’onda del calcio, per cui una diffusione anomala di quest’onda basterebbe a far decadere il ciclo cellulare dell’embrione in asimmetrie caotiche (McIsaac et al., 2011). Il caos spaziale di un embrione in sviluppo è pertanto evitato in virtù del fatto che le oscillazioni dell’onda del calcio sono mantenute al di sopra di una durata minima e, nel corso della blastogenesi, rimangono sufficientemente lunghe da correlarsi temporalmente con la durata del ciclo mitotico (Gelens et al. 2015). Quello che si configura è pertanto un equilibrio dinamico, per dirla con von Bertalanffy (1968), che pone le condizioni per uno sviluppo soggetto non soltanto a leggi, ma anche ad eventi. Ciò che consente l’evoluzione sembra perciò essere una condizione in cui gli elementi di un sistema non raggiungono mai una posizione del tutto stabile, e tuttavia non si dissolvono nella turbolenza, non si perdono cioè nelle imprevedibili traiettorie caratteristiche del caos (Waldrop, 1996).
Processi psicologici e creatività
In tempi più recenti anche i modelli sperimentali adottati nella prassi medica e psicologica, in particolare nelle scienze cognitive, nella psicologia dello sviluppo e nella psicoterapia, sono stati posti in discussione. Da una concezione strettamente riduzionistica fondata sull’esigenza di comprendere e prevedere la complessità dinamica del soggetto umano in base alle condizioni che lo legano causalmente al passato, si è gradualmente giunti ad una rivalutazione delle relazioni socio-culturali che lo ancorano emotivamente al presente (Masterpasqua & Perna, 1997). La pretesa di comprendere la legge o l’ordine con cui gli eventi al presente dipendono da eventi passati secondo relazioni lineari di causa-effetto ha mostrato tutti i suoi limiti per l’incapacità di poter dar conto dell’emergenza di eventi complessi e imprevedibili. Prima ancora di diventare oggetto di spiegazione causale, l’esperienza umana deve essere interpretata in relazione al significato delle motivazioni che giustificano la ragion d’essere e di agire. E per comprendere il soggetto umano come creatore di significati occorre non soltanto sganciarlo da un futuro inevitabile, ma offrirgli anche l’opportunità di aprirsi al mondo del possibile (Bussolari & Goodell, 2009).
Per quanto possa sembrare ingiustificato correlare la transizione inevitabile-possibile al cambiamento paradigmatico tra ordine e disordine, di fatto questo è ciò che è avvenuto negli ultimi anni della pratica di counseling psicologico e di psicoterapia. La teoria del caos deterministico è infatti sempre più frequentemente proposta come modello interpretativo, e forse risolutivo, di molte situazioni ansiogene. Come giustamente sottolineato da George Kelly (1955), le aspettative con cui un soggetto si affaccia al futuro sono in buona parte condizionate dalle sue stesse anticipazioni, ragion per cui egli finisce per essere inevitabilmente ancorato ad un futuro già determinato.
Fare appello alla teoria del caos comporta, da una parte, risolvere il vincolo che lega anticipazione ed aspettativa e, dall’altra, lasciarsi cullare dalle possibilità che emergono spontaneamente dall’inatteso. Ciò comporta l’adozione di un atteggiamento attivo e propositivo, e il correre i rischi insiti nell’esposizione, al fine di creare passaggi nei confini rigidi, aprire varchi, incrinature nell’orizzonte, che non è più soltanto l’orizzonte dell’attesa, nel quale tutto ciò che accade appartiene ad un orizzonte di senso “pre-visto”, “pre-compreso”, ma un orizzonte attraverso le cui fenditure possano presentarsi eventi dalle potenzialità trasformative ed evolutive.
In questa prospettiva, la transizione dall’anticipato all’inatteso, dal possibile all’impossibile, apre al soggetto l’orizzonte della creatività, cioè a dire della possibilità di combinare la novità dell’imprevisto con l’utilità del fruibile, e quindi di ricostruire una progettualità sulla base dell’emergenza di relazioni vincolate in minor misura dai condizionamenti pregressi. Uno dei cardini su cui poggia la teoria del caos deterministico è il principio di cosiddetta autorganizzazione (Atlan, 1979; Kaufmann, 1991), secondo cui i sistemi complessi lontani dall’equilibrio entropico tendono spontaneamente a generare strutture e forme nuove. Invocare l’autorganizzazione come principio di costruzione del nuovo implica venire fuori dalla semplice dialettica tra mutazioni geniche e selezione ambientale e proporre, in alternativa, che ciò che è selezionato non è soltanto compatibile con le migliori condizioni per esprimere un’efficace competitività, ma che è anche funzionalmente congruo con quanto gli pre-esiste. Il disordine viene così a costituire il contesto più adeguato affinché il “nuovo” possa dimostrarsi selettivamente vantaggioso per l’insieme di appartenenza. In questo senso, nuovo e vecchio co-evolvono, in quanto l’inserimento dell’uno rinnova ciò che gli pre-esiste (Bilder & Knudsen, 2014). È a questo livello di interazione che il caos può essere efficacemente governato: il suo inserimento nel pre-esistente, e quindi in tutto ciò che concerne l’esperienza pregressa e i sistemi di valore del soggetto, è infatti condizione sufficiente perché non decada in un comportamento totalmente imprevedibile e possa invece essere foriero di novità. Nell’analisi di questi processi evolutivi è fondamentale considerare il ruolo dell’osservatore e del contesto nella definizione del significato. È l’osservatore, infatti, che attribuisce un significato e un ruolo alla novità. Come rimarca Atlan (1979) autorganizzazione significa permettere al caso di acquisire un significato, a posteriori e in un determinato contesto di osservazione.
Questo vale soprattutto quando queste considerazioni sono trasferite dai sistemi complessi al modello umano – una transizione che potremmo definire da sistemi teleonomici a sistemi teleogenici (Deacon, 2012)1 –, laddove si dovrebbe poter intuire facilmente come certe interferenze esterne possano compromettere l’equilibrio psichico al punto da creare uno stato di instabilità o caotico. In queste condizioni, il soggetto non è più in grado di avere una visione equilibrata della propria vicenda di vita, per cui tenderà a proiettare nel tempo le ansietà del presente, impedendosi di fatto ogni apertura verso soluzioni impreviste o imprevedibili. In altre parole, esso cerca difensivamente di limitare il più possibile il livello sia qualitativo che quantitativo delle proprie interazioni, per mantenere intatta la propria coerenza interna. Chiudendosi nei propri confini, il soggetto, inteso in senso sistemico, assume così caratteristiche di rigidità strutturale rendendo meno permeabili i medesimi confini che ne delimitano la struttura in rapporto all’ambiente e all’esperienza. Il modo più semplice per venirne fuori è convincersi che il caos non è necessariamente una minaccia al proprio equilibrio, per quanto precario possa essere. In ambito psicoterapeutico, ciò non riguarda solamente il soggetto in crisi ma attiene anche alla posizione del terapeuta e all’impostazione del processo di cura. Se concepito secondo quanto suggerito dalla teoria del caos deterministico, l’intervento può divenire occasione per elaborare nuove ed impreviste relazioni potenzialmente costruttive. Sul piano della relazione terapeutica ciò significa ricercare attivamente una congruenza strutturale efficacemente perturbativa, in grado di portare il sistema (il paziente o la famiglia), che risponde secondo le caratteristiche della propria struttura, verso un nuovo regime dinamico e un nuovo stato di complessità. In altre parole, come ben espresso da Keeney e Ross (1985), occorre perturbare il sistema, modificandone la concezione dell’ordine, allo scopo di favorire l’emergere di un’organizzazione nuova e più funzionale.
Conclusioni
Il senso comune ci ha abituati a pensare che la stesura di un progetto debba necessariamente precedere la realizzazione di un artefatto. La scienza non è da meno nel ritenere che la replicazione del DNA sia stata condizione necessaria e sufficiente per dare origine alla prima cellula, che l’evoluzione sia dovuta essenzialmente ad un accumulo di mutazioni casuali e che infine la stessa cognizione coincida con la sola manipolazione di oggetti simbolici (Hoffmeyer, 2006). L’avvento della teoria del caos ci costringe a pensare che i sistemi viventi possano crescere in complessità secondo un principio inverso. La natura non progetta in anticipo, ma seleziona a posteriori, a realizzazione ultimata. Tutto ciò implica che il disordine è offerto alla realizzazione delle forme, siano esse di livello esclusivamente strutturale, funzionale o anche psicologico, in quanto condizione iniziale per lo stabilirsi di interazioni potenzialmente atte a generare ordine.
1 Secondo la nomenclatura di Deacon (2012), teleomatici sono quei sistemi che raggiungono automaticamente le condizioni di equilibrio, mentre quelli teleogenici sono capaci di generare e gestire in modo autonomo una propria causalità autoreferenziale.
Riferimenti bibliografici
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