di Primavera Fisogni
Premessa
Quando Cartesio ha messo in discussione, passandolo attraverso il dubbio metodico, il fatto che qualcosa fosse piuttosto che nulla, ha trascurato di domandarsi: davvero il mio Io può vivere e fiorire senza l’inclinazione alle cose? Se l’avesse fatto, probabilmente, il suo punto di vista scettico sulla consistenza del reale, che ancora pervade il pensiero filosofico, avrebbe seguito una strada diversa. Dobbiamo soprattutto alla fenomenologia come metodo e sostanza del pensiero filosofico se il principio di realtà è stato riposizionato all’interno del dibattito teoretico, con guadagni interdisciplinari, dalle potenti ricadute interpretative anche nell’ambito delle patologie psicologiche e psichiatriche.
In particolare, è stato portato a tema nella sua complessità il ruolo che il sentire, da intendersi come sentimento della realtà e sentimento del bene, riveste nel forgiare l’identità personale e nella dialettica della volontà. Viceversa, la perdita o l’attutimento del sentire – e cioè lo scollamento dal reale o mondo della vita (Lebenswelt) – produce disastri, sia sull’Io (dimensione psicologica/psichica), sia sulla relazione con gli altri enti (dimensione relazionale), sia nella condotta (dimensione etica). Se il terrorista, figura di grande malvagio dei nostri giorni, si impoverisce volontariamente nell’essere e nell’agire, a partire dal momento in cui assume deliberatamente l’ideologia eversiva, la persona affetta da sofferenza mentale si trova nello stato della malattia per cause che sfuggono il suo controllo. Fattori che possono essere differenti, di ordine biochimico, sociale, genetico o una risultante di essi.
Non è possibile, in questo breve articolo, entrare con profondità nel merito del disagio psichico. Mi propongo soltanto di mostrare alcune risultanze degli studi dello psichiatra fenomenologo Ludwig Binswanger che, muovendo dal pensiero di Edmund Husserl e di Martin Heidegger, seppe tratteggiare una lettura antropologica della condizione della malattia mentale come espressione di sfioritura e inaridimento della persona, dovuta alla perdita di contatto con il reale. Sulla base di queste intuizioni, corroborate alla luce dei dati clinici, Binswanger fu anche in grado di indicare linee terapeutiche considerate ancora valide.
Forme e caratteristiche del mancato esser-ci (Missglückten Dasein)
Il distorto rapporto con il mondo della vita, originato da fattori non volontari, si dà a vedere come espressione caratteristica delle psicosi. In questo termine si riuniscono le varie forme della sofferenza mentale, dominio di studio relativamente recente della medicina, nonostante le radici antichissime della letteratura psichiatrica. A differenza di quanto succede per altre patologie, gli specialisti delle sindromi psichiatriche hanno stretto una proficua alleanza con la filosofia, a partire dall’inizio del Novecento, in particolare con la fenomenologia. Di questo intreccio multidisciplinare, che continua a dare interessanti frutti investigativi, è intrisa l’opera di Ludwig Binswanger, psichiatra e filosofo[1], che muovendo dai capisaldi teorici di Husserl (intenzionalità) e Heidegger (essere-nel-mondo), ha indicato alla psichiatria un approccio umanistico-antropologico decisivo[2]. In questa prospettiva esistenziale, per sintetizzare, la malattia mentale non si può intendere unicamente come costellazione di sintomi, ma come espressione di una relazione distorta con le coordinate esistenziali, spazio-temporali e relazionali. L’interesse che rivolgo alle ricerche di Binswanger, che proprio in questi anni vedono in Italia un rilancio di attenzione, sia in campo medico sia nel contesto filosofico, risiede nell’approfondito esame dello stato di perdita della realtà delle persone psicotiche, che lo psichiatra svizzero seppe condurre. Le principali patologie psichiche esaminate da Binswanger (stramberia, mania, melanconia, esaltazione, manierismo, autismo, schizofrenia, schizofrenia), pur nella varietà delle manifestazioni, si inscrivono nelle forme dell’esser-ci mancato.
Nel trattare di Missglückten Dasein lo psichiatra si richiama esplicitamente al Dasein nel senso inteso da Heidegger: il soggetto umano in relazione al mondo in cui si trova “situato”. Binswanger riconduce la sofferenza mentale al rapporto dell’essere umano nel suo rapporto con la realtà; nei termini di uno sfasamento o di una di-versione rispetto al mondo. Poiché il mondo è, in senso heideggeriano, un essere-con, la malattia si riverbera su questo “con”: riguarda perciò le relazioni con altri individui e con le cose, gli “utilizzabili”.
Ciò che sembra accomunare i malati delle diverse patologie psichiche, secondo quanto si rileva dai testi di Binswanger, è l’incapacità di costruire relazioni: di assumere, condividere e praticare quel “con” proprio del mondo ambiente in cui è gettato – heideggerianamente – il Dasein.
Ai malati succede di sganciarsi dalla realtà per vivere in un proprio mondo, che non ha nulla a che vedere con quello reale. Prova ne sia lo stato di “trasalimento” che si prova, ad esempio, al cospetto degli strambi e degli schizofrenici, dovuto alla “man+canza di risonanza”: il malato si dà a vedere – rileva Binswanger – come una corda muta. Capire la malattia, dunque, significa riuscire ad aprirsi un varco in questo spazio, nel tempo speciale in cui il malato scandisce la propria esistenza. Parlare di esser-ci mancato significa anche uscire dalla naturalità del vivere, per assumere l’artificiosità di un mondo “altro”: un atteggiamento in qualche modo sintomatico di quel ri-costruire una realtà a propria misura ora che ci si è sganciati dalle relazioni. Abitare stabilmente nell’esaltazione o nel sogno, questo appartiene a forme patologiche dell’esser-ci.[3]
Perdita dei legami costitutivi trascendentali nelle psicosi
Binswanger, rifacendosi all’antropologia di Husserl, rileva come nelle psicosi vengano a sciogliersi i «legami costitutivi trascendentali» ovvero i «legami costitutivi dell’esperienza naturale»[4]. La componente empirica e quella cognitiva non si incontrano più nel baricentro del soggetto, l’Io puro o trascendentale: «ciò che fallisce – scrive lo psichiatra fenomenologo – è l’esperienza naturale perché essa non viene regolata dall’ego puro».[5] È qui che risiede l’intimo scollamento dell’individuo dal mondo: una scissione dal mondo che è scissione interiore, più o meno grave[6]. L’Io trascendentale di Husserl non è l’entità ideale di Kant. Fa “sentire” le cose nella loro concretezza; esso è l’organo della conoscenza fenomenologica, cioè dell’afferramento delle cose nel loro offrirsi: «è un’appercezione pura, fenomenologico-trascendentale – scrive Husserl -, nella quale la coscienza pura giunge a datità»[7]. Una cosa, insomma, è la conoscenza naturale, empirica, un’altra è la conoscenza fenomenologica, resa possibile dall’Io trascendentale. Per dare ancora una volta la parola al fenomenologo:
«(…) dobbiamo contrapporre all’esperienza naturale quella fenomenologica, la quale, in relazione al suo significato specificamente trascendentale (…) si chiama appunto anche trascendentale (…)»[8].
Vediamo come l’esser-ci mancato riveli due aspetti, intimamente collegati: la perdita del mondo e la perdita di se stessi. Binswanger mostra che il fendersi dell’esperienza, il “disunirsi” del mondo, è la condizione peculiare della schizofrenia[9]. È in questo contesto antropologico che Binswanger assume la nozione di angoscia (Angst), tanto centrale nel pensiero di Heidegger[10], per ricondurla a parola-chiave dell’esser-ci mancato. Lo studioso interpreta l’angoscia come il negativo dell’intenzionalità[11], come la sua completa negazione o annullamento. Essa è lo «stato di turbamento condizionato dalla natura, nella struttura dinamica trascendentale della vita umano-spirituale»[12].
L’essere fuori dal mondo, da parte del malato, è l’esito di una condizione patologica, non deriva da una decisione. Nella malattia mentale (così come nel caso di ogni altra patologia) ci si trova, non si sceglie di trovarsi: è questa condizione di “gettatezza”, del “trovarsi situati”[13] nel male che avvicina il pensiero di Binswanger a quello di Heidegger.[14] Tuttavia, è su questa stessa base che si misura la distanza delle reciproche asserzioni. Anche il soggetto umano, l’esser-ci di Sein und Zeit si trova gettato in un mondo-ambiente. Rispetto al malato psichico di Binswanger, però, l’individuo ha modo di rendersi conto di questa sua condizione: ad esempio, attraverso l’esperienza dell’angoscia.
Che, lungi dall’essere un disorientamento psicotico, assume il carattere di radicale esperienza conoscitiva del senso del proprio essere nel mondo, essendo – non a caso – collegata alla cognizione della propria fine, a quell’essere-per-la-morte in cui risiede il senso stesso dell’esser-ci. In Binswanger, come abbiamo visto, l’angoscia è invece un disarticolamento dell’individuo: si verifica quando il nostro Io trascendentale non ha più energia, perché si è sganciato dall’Io empirico. L’angoscia ha sempre due facce: da un lato c’è il malato che non riesce a instaurare una relazione e dall’altra la persona che gli si rivolge, che non sa come comunicare, poiché non possiede la “logica”, il “punto di vista” del malato.
Dire che lo schizofrenico o lo strambo siano fuori dal mondo, nonostante «l’interruzione della continuità dell’esperienza»[15], che cosa significa, propriamente? Certamente il malato si trova sganciato dalle relazioni del mondo come appare qui e ora. Tuttavia, se si ammette che il malato “si trova” nella malattia, si deve anche riconoscere che quello è il suo mondo: gli si pone di fronte un nuovo modo di essere situato. Il mondo del malato costituisce l’incognita dello psichiatra e, ad un tempo, secondo quanto afferma Binswanger, il punto di partenza per una possibile guarigione, considerando il recupero della normalità come un ritorno dell’individuo malato al mondo, qui e ora, delle relazioni[16].
Dalle analisi dello psichiatra svizzero, si evince che l’individuo sofferente si sgancia in modo progressivo e differente dalla realtà: lo schizofrenico sembra essere quello più lontano, mentre lo strambo e il malinconico mantengono un contatto con gli altri, con le cose. Le forme di “mancato esser-ci” corrispondono dunque a differenti mondi del malato.
L’inaridimento del malato: essere nel mondo senza trascendenza
Quello del malato psichico è, nella prospettiva di Binswanger, un essere nel mondo “mancato”, in quanto si dà nella forma della non trascendenza. Una condizione opposta all’essere con e insieme all’essere con altri, riconoscendo la differenza delle altre presenze. Può essere utile, per un’ulteriore chiarificazione di questo importante passaggio, citare le seguenti considerazioni[17]:
«essere nel mondo significa sempre (…) essere nel mondo con i miei simili; essere insieme con le altre “presenze”. Postulando l’essere-nel-mondo come trascendenza, non soltanto si supera la scissione tra soggetto e oggetto della conoscenza, non soltanto si colma lo iato tra io e mondo, ma si illumina anche la struttura della soggettività come trascendenza, si apre un nuovo orizzonte di comprensione e si dà un nuovo impulso all’indagine».
Nell’esperienza concreta, una vita senza trascendenza rinvia – secondo Binswanger – all’incapacità di prendere le distanze dalle cose, scoprendosi capace di usare del mondo, di avere relazioni con gli altri. In altri termini, venendo meno queste prerogative, ne risulta mortificato anche il baricentro cognitivo-emozionale dell’essere umano. Si verifica «un soggiogamento del sé da parte del mondo»[18]. La persona, verrebbe da aggiungere, si ritrae dal mondo perché viene resa cosa tra le cose, essendo stata spenta la capacità di percepire un distacco dalla realtà. La lezione husserliana dell’Io trascendentale, risultata decisiva per la formulazione di questa tesi, si integra così alla filosofia heideggeriana dell’essere-nel-mondo, al punto che – secondo una recente letteratura critica – lo psichiatra austriaco propone di fatto una terza via nella fenomenologia dell’esistenza[19].
Che questa sia una condizione di inaridimento, Binswanger lo esplicita impiegando la celebre metafora del “cratere spento”, quando – a proposito della paziente Lola Voss, affetta da sindrome schizofrenica – egli ha l’impressione di trovarsi davanti a una presenza ridotta in cenere e terra, senza più “un punto di sostegno interiore”[20]. Il guadagno teorico, sulla base del metodo fenomenologico della Daseinanalyse, segna una svolta nell’indagine sulla condizione umana, non ancora sufficientemente sondata al di fuori della psichiatria.
Nello studio della sofferenza mentale l’aver rilevato il soggiogamento della persona da parte del mondo, ha portato a una migliore comprensione dell’autismo, stato spesso preludente alle schizofrenie o intrecciato ad esse: il malato non fugge la realtà, chiudendosi come in un bozzolo, bensì ne è in qualche modo assorbito[21]. Un contributo significativo è anche quello di aver rilevato, nelle esperienze del vuoto e della estraneità, i tratti essenziale della sofferenza psichica, la cui radice appartiene però alla condizione umana, al rapporto della persona con il mondo[22].
Perdita del sentimento della realtà nel malato
Quella descritta da Binswanger è riconducibile alla «sofferenza del non essere (più) se stessi, del non avere più la partecipazione al mondo comune, del vedere bloccate le strutture fondamentali dell’esistenza»[23].
La perdita del sentimento della realtà è un esito possibile, benché estremo, della condizione personale. Due sono i tratti che caratterizzano la vuota condizione della malattia, ovvero il senso di vuoto patito dal malato psichico, cioè 1) la modificazione delle strutture esistenziali e 2) la sofferenza per il mancato appartenere al mondo. Ciò che differenzia il venir meno del sentimento della realtà prodotto dal consapevole ritrarsi dalle relazioni, dal gusto del bene, dall’aprirsi al nuovo e al diverso, così caratteristico – ad esempio – dell’ideologia terroristica, dall’aridità della malattia psichica, consiste nella separazione dal mondo della vita, per fare di sé e delle proprie convinzioni l’unico mondo dotato di validità. E se il malato, secondo Binswanger, perde il contatto con la realtà in quanto ne viene fagocitato e di conseguenza vede scomparire, nella trascendenza dell’altro, la specificità del proprio essere, la persona che si ritrae deliberatamente dal mondo della vita perde in qualche modo il contatto dalla realtà nella prepotente affermazione di se stesso. Per quanto scomposta, disarticolata, violenta o depotenziata, l’azione del malato resta in qualche modo rivolta a un mondo “altro” da quello della non malattia. In un contesto in cui il mondo è irreale, il malato ritiene di muoversi ancora nella realtà.
Il delirio costituisce una fase successiva all’insorgere della malattia: esso si può considerare una reazione al vuoto e al senso di angosciosa indifferenza che, sperimentata, disorienta e annichilisce. Impiegando il linguaggio della metafisica tomistica dell’atto umano, relativo alle dinamiche della volontà, potremmo dire che il malato continua, nel delirio, a mantenere un’inclinazione alle cose, che ricostruisce da sé, nel momento in cui non l’avverte più sul piano reale. Nel sentirsi “cosa tra le cose”, effetto primario a cui conduce l’esperienza del vuoto in casi patologici, il sofferente avverte proprio il venir meno di quel movimento da e verso l’alterità, che Binswanger – richiamandosi a Husserl – definisce “trascendenza dell’Io”. Per quanto una persona con sofferenza mentale possa dirsi messa in scacco dal mondo, tuttavia restano margini di trascendenza – comunque inautentici – anche nell’esperienza delle psicosi, secondo le ricerche di Binswanger. Deliri e allucinazioni ne sono sintomatici. Essi ricreano, anche se non necessariamente[24], una certa realtà e un certo modo di essere nel mondo. Binswanger dice precisamente che “i malati mentali vivono in un altro mondo”[25], simile per certi versi a quello che ciascuno sperimenta nel sogno, in uno stato alterato di coscienza: non vi è differenza tra vicino e lontano, alto e basso, importante e non importante”[26].
Sebbene questa condizione di mancata percezione della differenza tra sogno e realtà susciti inquietudine in chi affianca uno psicotico[27], Binswanger ha dimostrato che si tratta di una preziosa risposta di sopravvivenza, per contrastare l’esperienza di vuoto prodotta dal “mancato esser-ci”. Ed è, infatti, proprio attraverso questo mondo personale del malato che il terapeuta può tentare di avvicinarsi al paziente, cercando il modo per riportarlo alla realtà.
Il vuoto, come si è visto nel precedente paragrafo, è l’esito del soggiogamento da parte del mondo; si tratta di un’esperienza di disorientamento, di perdita di contatto con gli altri esseri umani e le altre cose, sperimentabile – ad esempio – nell’angoscia, condizione indagata anche dal pensiero filosofico, a riprova della sua originaria consistenza antropologica, prima che “patologica”.
Come succede a campo che si dissecca per il prosciugamento della sorgente, nella quotidianità della persona si verifica l’attutimento del sentire: i sensi si spengono, si erode la capacità di provare empatia per gli altri esseri umani – per altro dolorosamente avvertita in molti casi dai pazienti psicotici –, ci si svuota delle potenzialità comunicative, si vive nella inautenticità, orientando le proprie azioni verso un mondo fittizio. Vuoto e delirio, forme di vita e di comunicazione inautentica, configurano il profilo di questo stato.
L’inaridimento patologico. Conclusioni
Il mio proposito, in questo articolo, è stato duplice. Da un lato ho voluto precisare le peculiarità dell’inaridimento patologico (sofferente psichico), marcandone così la distanza da quello volontario (caratteristico, ad esempio, dell’agire male orientato dall’ideologia terroristica). In secondo luogo, mi sono proposta di cogliere un tratto comune alle due condizioni, vale a dire: l’esperienza del vuoto vissuta e manifestata dalla persona. Formulo, a questo punto l’interpretazione che il vuoto sia il sintomo dell’impoverimento della profondità personale, comune tanto alla patologia quanto alla deliberata negazione del mondo. Come il vuoto ha il suo esito nel delirio, sul piano della patologia mentale, così la perdita di essere si riverbera in un agire non finalizzato, dalla portata senza limiti, irrispettoso. Il vuoto che il malato sperimenta e trasmette ad altri, nella perdita del sentimento della realtà, possiede un proprio specifico, come si è potuto desumere dalla lettura, pur succinta, degli scritti binswangeriani e della letteratura critica proposta in questo articolo.
L’altra indicazione che gli scritti di Binswanger forniscono all’indagine sull’impoverimento interiore riguarda l’esito che il vuoto ha sul piano dell’agire, nella forma del delirio. Il delirio, caratteristica espressione dell’atteggiarsi del sofferente psichico, rinvia all’agire scomposto e de-lirante rispetto al senso e ai valori che è proprio degli eversori. Questa consonanza, sostengo, trova una giustificazione proprio muovendo dagli studi di Binswanger, che – particolarmente sulla scia del pensiero di Heidegger – individuano nel vuoto un sostrato antropologico, cioè una condizione possibile di tutti gli uomini.
L’idea che si impone, nelle ricerche di Binswanger, e può costituire un indubbio motivo di interesse anche per lo studio sulla disumanizzazione dei terroristi è che l’inaridimento della persona si accompagni ad un’erosione del suo essere, la quale si riflette poi sui comportamenti. I fondamentali studi dello psichiatra fenomenologo, nei cui riguardi si sta levando una nuova attenzione in Italia, con convegni e traduzioni delle opere, mi aiutano anche a forgiare la peculiarità dell’inaridimento volontario rispetto a quello patologico: l’uno esprime un distacco dal mondo, l’altro conduce il malato ad essere inglobato nel mondo, una sorta di “cosa” tra le cose. Le due diverse situazioni portano a conseguenze differenti sul piano del recupero della persona allo stato di fioritura.
Se, infatti, il malato ha bisogno di un’alleanza terapeutica per riprendere coscienza di sé in rapporto all’alterità, il terrorista non può che farlo da sé, con un atto di deliberazione, sulla scorta di un nuovo sentire.
[1] L. Binswanger, psichiatra svizzero tedesco (1881-1966), apparteneva a una famiglia di psichiatri che gestiva la clinica Bellevue a Kreuzlingen, famoso centro terapeutico per benestanti, citato anche nel romanzo di J. ROTH, La marcia di Radetzsky (Milano, Longanesi, 1980, pag. 197). Tra le sue opere, oltre a quelle citate nella relazione, ricordiamo Der Mensch der Psichiatrie (trad. La psichiatria come scienza dell’uomo, Milano, Ponte alle Grazie, 1992).
[2] Come spiega Stefano Besoli, Binswanger «si ritagliò il ruolo del descrittore» e «sfruttò un’intera costellazione di riferimenti fenomenologici», attingendo a Husserl e a Heidegger, ma anche a Scheler e a Pfänder. In L. Binswanger, Esperienza della soggettività e trascendenza dell’altro. I margini di una esplorazione fenomenologica psichiatrica, (a cura di S. Besoli), Macerata, Quodlibet, 2006, pag. 11-12.
[3] L. Binswanger, Sogno ed esistenza, op. cit.
[4] L. Binswanger, Malinconia e mania, op. cit. pag. 25.
[5] Ibidem, pag. 121 e 127.
[6] Ibidem., pag. 128.
[7] E. Husserl, Fenomenologia e teoria della conoscenza, Milano, Bompiani, 2001, pag. 161.
[8] Ibidem, pag. 158.
[9] La tesi si trova espressa nei due “classici” binswangeriani Phänomenologische Studien, Pfullingen, Verlag G. Neske, 1960 e Der Fall Suzanne Urban (Il caso Suzanne Urban, Venezia, Marsilio, 1994).
[10] Stato d’animo posto nettamente in antitesi alla paura, in M. Heidegger, Sein und Zeit (1927, §40), provocato da nulla di determinato. Nello scritto Che cos’è metafisica? (1929), l’angoscia entra in relazione con il niente. «Niente che, originariamente, solo l’angoscia svela». (Che cos’è metafisica?, Milano, Adelphi, 2001, pag. 59).
[11] L. Binswanger, Denken Edmund Husserl, op. cit. pag. 35.
[12] L. Binswanger, Malinconia e mania, op. cit., pag. 34
[13] Come Heidegger, anche Binswanger indica del sentirsi situati (Befindlichkeit) «l’accadimento fondamentale del nostro esserci». In L. Binswanger, La fuga delle idee, op. cit., pag. 49.
[14] Ibidem, op. cit., pag. 74 e 77.
[15] L. Binswanger, Malinconia e mania, op. cit., pag. 129.
[16] Il problema è, precisamente, quello di sapere in che mondo il paziente «effettivamente viva». In L. Binswanger, Sulla fuga delle idee, op. cit. pag. 38.
[17] S. Mistura, “Il cratere spento”, in L. Binswanger, Esperienza della soggettività e trascendenza dell’altro. I margini di un’esplorazione fenomenologico-psichiatrica, a cura di S. BESOLI, Macerata, Quodlibet, 2006, pag. 240.
[18] Ibidem, pag. 243
[19] E’ la tesi sostenuta da B. M. D’Ippolito in La cattedrale sommersa. Fenomenologia e psicopatologia in Ludwig Binswanger, Milano, Franco Angeli, 2004 e condivisa da A. Ales Bello, in “Binswanger erede di Husserl”, in L. Binswanger, Esperienza della soggettività, op. cit., pag. 267.
[20] Ibidem, pag, 253.
[21] Ibidem, pag. 243.
[22] E. Borgna, I conflitti del conoscere. Strutture del sapere ed esperienza della follia, Milano, Feltrinelli, 1988.
[23] A. Caputo, “Inautenticità e sofferenza mentale”, in Esperienza della soggettività, op. cit., pag. 439-441.
[24] Si veda il caso delle schizofrenie negative, senza sintomi di allucinazioni e deliri.
[25] L. Binswanger, La fuga delle idee, op. cit., pag. 38.
[26] Ibidem, pag. 35.
[27] «ci separa (…) la diversità del suo mondo nei confronti del nostro mondo», E. Borgna, I conflitti, op. cit., pag. 46.