EXAGERE RIVISTA - Luglio - Agosto - Settembre 2024, n. 7-8-9 anno IX - ISSN 2531-7334

La perdita della complessità. Intervista a Vera Gheno

di Federica Biolzi

Passiamo in rete una parte della nostra giornata.  Un tempo che è andato via via aumentando nel corso degli anni, soprattutto con l’avvento degli smartphone. Un tempo che per alcuni, e diciamolo non sono pochi, è divenuto sempre più preponderante. Ma questa attività è senza pericoli? No, anzi ci sono anche se spesso tendiamo a sottovalutarli o credere di esserne immuni. Vera Gheno, sociolinguista, con il suo L’antidoto (2023, Longanesi) ci aiuta in primo luogo a riconoscere, ragionare e difenderci dalle trappole e dalle insidie dello stare online.

Da dati recenti, da lei riportati nel suo bel saggio, quasi il 60% della popolazione mondiale usa i social media, in Italia più del 74% e, sempre in Italia la media di permanenza sui social e di circa 6 ore al giorno. Tutto questo tempo, possiamo immaginare, crea un traffico di comunicazioni enorme e non sempre di natura positiva e benevola. Come si sviluppa tipicamente una comunicazione sui social?

-Si sviluppa a fatica e con fatica, come la comunicazione in qualsiasi altro contesto. E forse, la fatica è ancora maggiore perché siamo a distanza: gli esseri umani sono animali sinestetici, che comunicano tramite molti canali in contemporanea. L’online ci costringe a una comunicazione tramite un numero ridotto di canali. Di conseguenza, possono aumentare i fraintendimenti, le reazioni “di pancia”, gli elementi che rischiano di far deragliare l’interazione. Per tenere la barra dritta ci vuole molto impegno; un impegno che, naturalmente, non tutte le persone sono disposte a fare.

Uno degli errori  tipici che lei mette in evidenza è quello di scrivere credendo di stare tra pochi intimi, dimenticando di trovarsi in luogo pubblico. Perché accade ciò e quali errori comporta?

-Non è facile avere la percezione di stare in mezzo alle persone, quando si è sul proprio profilo. Si posta pensando al proprio milieu, alle persone che si frequentano abitualmente, e ci si dimentica che qualsiasi contenuto postato in qualsiasi anfratto della rete diventa facilmente riproducibile e assai poco controllabile. L’errore tipico è quello di dire in pubblico delle cose che sarebbe meglio non condividere in un contesto così incontrollabile. Fretta, superficialità, tendenza alla polarizzazione fanno il resto.

Postiamo spesso senza riflettere abbastanza, come se fossimo tenuti a esprimerci in tempi strettissimi e con atteggiamenti che tendono ad estremizzarsi. Il rischio è di perdere la dimensione, nel bene e nel male, tipicamente umana della comunicazione e del confronto. Perché accade tutto ciò?

-Secondo me, il problema principale è la perdita della complessità. Recentemente, mi è capitato di venire attaccata su instagram – social che io uso, da dinosaura quale sono, fondamentalmente come album fotografico della mia vita – per non avere preso pubblicamente posizione su quanto sta succedendo nella Striscia di Gaza. Non l’ho fatto, ho spiegato, perché, per quanto ovviamente abbia le mie posizioni sulla vicenda, non sono competente sull’argomento, e quindi direi solo mere banalità. “Basta condividere fonti autorevoli”, mi è stato risposto; ma anche condividere fonti autorevoli per me implica avere fatto un po’ di ricerche approfondite per individuarle. Ci sono moltissime questioni complesse, e di estrema importanza, delle quali parlo in contesti più ristretti, ma delle quali non me la sento di parlare sui social, perché ritengo che sarebbe irresponsabile farlo da parte mia. Vorrei preservare la possibilità di non dovermi posizionare pubblicamente su qualsiasi argomento. Però ciò che mi è successo mi fa pensare molto su quanto a volte si perda la misura della complessità delle cose: non sempre è possibile esprimersi in maniera sufficientemente informata su tutto. Certo, c’è un intero discorso pubblico che ci spinge nella direzione di dire sempre, comunque, a ogni costo e velocemente la nostra. Non è facile resistere a questa impostazione comunicativa.

Lei dedica, utilmente, un intero capitolo alle fallacie logiche. E’ un argomento, relegato a qualche corso universitario di filosofia, molto sottovalutato anche nella vita offline. Appare invece di un’utilità centrale nel saper gestire le relazioni con gli altri che spesso nascono o diventano viziate a causa di questi errori subdoli. Come riconoscerli?

-È un peccato che non se ne parli di più. Trovo affascinante che tante forme di deragliamento comunicativo si ripetono, sempre uguali a sé stesse, per cui sarebbe così semplice se venissero riconosciute, perché riconoscendole vi si potrebbe resistere molto meglio. E quindi niente, occorre fare dell’educazione a tappeto sulla retorica della comunicazione. Mi pare che un po’ si stia iniziando a fare, perlomeno in scuole e università, tramite i corsi di dibattito regolamentato, che io trovo utilissimi.

Si è occupata, in molti studi , dei pericoli della vita online. Crede che l’obiettivo di un codice etico condiviso (legato ad una efficace lotta agli hater e alle fake news) sia molto lontano da venire?

-Visto che gli hater e i latori di fake news spesso siamo (inconsapevolmente, magari) noi, c’è da chiedersi quanto ci vorrà per creare consapevolezza nelle persone rispetto al proprio modo di comportarsi e agire dentro e fuori dalla rete.


Vera Gheno

L’antidoto

15 comportamenti che avvelenano la nostra

vita in rete e come evitarli

2023, Longanesi

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