EXAGERE RIVISTA - Luglio - Agosto - Settembre 2024, n. 7-8-9 anno IX - ISSN 2531-7334

La persistenza del corpo

di Gianfranco Pecchinenda

Riflessioni a partire dal volume: Il corpo artificiale. Neuroscienze e robot da indossare, di Simone Rossi e Domenico Prattichizzo (Raffaello Cortina, Milano 2023)

***

Il corpo umano, lungi dall’essere un mero dato biologico, è una categoria culturale determinante per la realizzazione di molte ricerche scientifiche e filosofiche di fondamentale rilevanza sociale.

Il libro intitolato Il corpo artificiale – scritto da un ingegnere e un neuroscienziato muniti di vivace sensibilità filosofica,  ed evidentemente aperti ad una proficua collaborazione interdisciplinare (peraltro oramai sempre più indispensabile in ogni ambito del sapere) – oltre a descrivere una serie di originali studi sul tema della corporeità, è anche un ottimo pretesto per ragionare sullo stato della ricerca più in generale – progettazione, finanziamenti, tipologie di collaborazione, valutazione dei risultati – e per mettere in pratica modelli di divulgazione della conoscenza scientifica innovativi ed efficaci.

Il volume, come scrivono gli autori stessi nella loro premessa, vuole essere una via di mezzo tra un saggio e una narrazione di vita vissuta, attraverso cui provare innanzitutto ad evidenziare come due discipline afferenti ad ambiti apparentemente distanti, come la robotica e le neuroscienze, debbano necessariamente lavorare in modo sinergico per poter ottenere risultati significativi non solo per l’avanzamento della scienza, ma anche per eventuali applicazioni in altri settori del sociale, come ad esempio quello della medicina riabilitativa o, come vedremo meglio in seguito, quelli legati all’applicazione delle tecnologie cosiddette aumentative.

Gli artifici dell’Essere

Il corpo è una contingenza.

Jean-Paul Sartre[1]

Una delle più importanti missioni della scienza è quella di studiare i possibili utilizzi delle tecnologie, al fine di migliorare le condizioni di esistenza degli esseri umani. Nel lavoro cui stiamo facendo riferimento le tecnologie su cui si concentra la ricerca sono quelle robotiche, ovvero “sistemi di intelligenza artificiale con capacità sensorimotorie, in grado cioè di percepire e di interagire con il mondo che li circonda attraverso una struttura portante fatta di giunti e di link meccanici che è funzionalmente analoga allo scheletro umano”. (44)

Il disegno teorico proposto è rivolto, dunque, principalmente allo studio del controllo motorio, che può essere considerato un terreno ideale per l’interazione fra la robotica e le neuroscienze. Da un punto di vista metodologico, infatti, le scienze robotiche possono contribuire a creare modelli matematici utili per lo studio delle funzioni cerebrali. Al contempo – come spiegano gli stessi autori – “il controllo di arti robotici antropomorfici, incluse mani e dita durante le azioni di afferramento (o grasping), si fonda principalmente sullo studio di fenomeni fisici, quali l’attrito o la gravità, le cui conoscenze possono essere capitalizzate per interpretare alcune leggi che governano il controllo motorio dell’uomo durante l’esecuzione di azioni, anche da un punto di vista biomeccanico”. (37)

Concentrando l’interesse sulla robotica wearable o indossabile, che si dedica alla realizzazione di soluzioni robotiche cosiddette soft per integrare il corpo umano con protesi artificiali sensoriali e motorie, il libro presenta una serie di originali ricerche legate a progetti in diversi ambiti: l’integrazione di nuove dita robotiche; l’uso di cavigliere vibranti che aiutino la deambulazione nei malati di Parkinson; il collegamento di dispositivi vibranti con gli smartphone, finalizzato a ridurre l’impatto dei suoni fantasma (acufeni).

Prenderemo ad esempio la prima ricerca presentata, probabilmente la più emblematica tra quelle proposte dagli autori, al fine di mettere in evidenza alcune delle ricadute a mio avviso più significative di questo lavoro, che si estendono certamente ben al di là degli specifici ambiti della robotica o delle neuroscienze. Soprattutto in una fase come quella attuale, in cui uno dei temi centrali del dibattito sembra essere diventato quello dell’intelligenza artificiale, lavori come questo servono innanzitutto a mettere in evidenza l’inadeguatezza scientifica di ogni discorso che abbia la pretesa di fondare un tipo di “intelligenza” paragonabile a quella umana e che sia al contempo indipendente dal suo imprescindibile sostrato biologico.

Ci soffermeremo tra breve sulle potenziali ambivalenze culturali legate al persistere di determinati riferimenti alla dicotomia mente-corpo nella progettazione e applicazione delle tecnologie robotiche. Ciò che invece credo sia importante innanzitutto sottolineare sono le riflessioni connesse alle risposte del cervello all’introduzione di tali protesi artificiali, prendendo ad esempio la straordinaria ricerca dei due autori sul sesto dito.

Dopo aver descritto la nascita dell’idea di un tale progetto – quello di aggiungere un pollice artificiale alla mano umana – gli autori esplicitano il loro obiettivo di fondo: creare la protesi e posizionarla sul lato opposto rispetto al pollice biologico, cercando di ottenere una corretta simmetria tra le dita della mano al fine di incrementarne le abilità motorie.

I possibili impieghi dell’applicazione del dito artificiale sono facilmente ipotizzabili: dalla medicina riparativa (restituire un pollice opponibile artificiale alle persone che, a causa di un danno neurologico, hanno perso la funzionalità della presa in una mano) a quella aumentativa, dalla portata certamente più rivoluzionaria. In questa seconda versione, il pollice artificiale potrebbe probabilmente risultare di enorme utilità in molteplici compiti della vita quotidiana (si pensi, ad esempio, alla possibilità di utilizzare uno dei due pollici opponibili per stringere lo smartphone e, sempre con la stessa mano, consentire all’altro pollice opponibile di digitare).

Tra le risposte più interessanti seguite alle diverse tappe di sperimentazione della ricerca descritte dagli autori, quella a mio avviso più significativa concerne, come accennavo, le stupefacenti reazioni del cervello, che a loro volta confermano (e, in parte, integrano) alcune tra le più recenti teorie scientifiche riguardanti la neuroplasticità. Se il pattern di attivazione delle aree cerebrali sensitive e motorie non sembrava modificarsi un granché al primo utilizzo del sesto dito – spiegano gli autori – dopo solo qualche ora di allenamento si poteva già registrare l’attivazione di regioni corticali aggiuntive. I soggetti “riferivano anche che, a mano mano che l’allenamento proseguiva, essi sentivano sempre più il dito aggiuntivo come fosse il proprio, e quindi non più un oggetto attaccato lì, ma un’autentica parte integrante del proprio schema corporeo”.

La cosa più interessante e inaspettata dello studio, tuttavia, risulteranno essere i dati di fmRI acquisiti alla fine dei cinque giorni di allenamento: “la rappresentazione corticale della mano aumentata nelle regioni sensomotorie della corteccia risultava non più ampia, come ci si sarebbe potuto aspettare, bensì più ristretta, come se la presenza del terzo pollice avesse in qualche modo disorganizzato la normale rappresentazione delle dita.”

Da qui in avanti gli autori proseguono presentando una serie di ipotesi sul concetto di sinergie motorie legate alla neuroplasticità e al cosiddetto embodiment, questioni sulle quali evito di soffermarmi ulteriormente, rinviando per approfondimenti alla lettura del libro.

Sebbene il testo non si dilunghi più di tanto su questioni direttamente connesse alla riflessione epistemologica sul corpo, ritengo sia tuttavia opportuno sottolineare come i lavori di questo genere possano proficuamente contribuire anche alla ridefinizione di alcune delle nostre conoscenze più diffuse, sia scientifico-filosofiche sia di senso comune, relative al rapporto corpo-mente.

Gli autori, di fatto, nel presentarci le complesse sfaccettature che investono le loro pratiche di ricerca, ci pongono di fronte ad una serie di esperimenti neuro-fenomenologici, come quello appena descritto, che possono consentirci di sospendere il nostro “naturale” modo di considerare il corpo, mettendoci in grado di assumere, almeno momentaneamente, una prospettiva meno oggettivante e “data per scontata” sui complessi rapporti tra il corpo proprio e l’ambiente circostante, fatto a sua volta di spazi, oggetti, tecnologie oltre che, naturalmente, di altri corpi propri.

Ambivalenze del corpo e identità

Il pensiero oggettivo ignora il soggetto della percezione. Esso si dà il mondo bell’e fatto, come contesto di ogni evento possibile, e tratta la percezione come uno di questi eventi.

Maurice Merleau-Ponty

Se non si presta l’opportuna attenzione alle tecnologie per migliorare le capacità motorie – un’attenzione almeno paragonabile a quella che viene in maniera crescente riservata alle capacità cognitive e linguistiche (attraverso, appunto, le molteplici applicazioni sui nostri smartphone o agli sviluppi di ChatGPT) – l’essere umano può rischiare di ritrovarsi ad avere una mente straordinariamente avanzata, ma restando ancorato ad un corpo dalle capacità limitate.

A tal proposito gli autori ritengono che uno degli obiettivi del loro lavoro sia proprio quello di “dedicarsi sinergicamente a entrambe le tecnologie di miglioramento, sia cognitivo sia sensorimotorio, proprio per evitare potenziali squilibri tra corpo e mente nell’evoluzione della specie umana.” (49)

Si tratta di riflessioni che ben evidenziano quanto la nostra cultura sia ancora oggi pervasa dalla presenza di alcune emblematiche ambivalenze relative alla questione del corpo.

Innanzitutto, come dicevamo, c’è il tema del rapporto corpo-mente. Su tale questione, in linea con l’eredità cartesiana di cui siamo inevitabilmente portatori, ciò che conta sembra essere soprattutto la mente (il corpo non sarebbe altro che una sorta di involucro materiale di importanza secondaria): il “penso dunque sono” è una fin troppo evidente dichiarazione di supremazia della sostanza immateriale su quella materiale.

D’altro canto, però, nel senso comune è ben presente l’idea che il corpo (inteso come sostanza materiale) debba essere considerato un fondamento ineliminabile di ogni nostra definizione identitaria, soprattutto per ciò che concerne alcuni aspetti pratici come quelli legati, ad esempio, alla diffusione sempre più estesa di una determinata cultura estetica e del benessere fisico.

Il riconoscimento di questa primo genere di ambivalenza è particolarmente significativo. La ricerca contemporanea, soprattutto in ambito sociologico, evidenza infatti come il persistere di un tale atteggiamento si rifletta anche su altre questioni, soprattutto di carattere etico e morale, finendo per alimentare una grande confusione relativa al rapporto tra corpo, mente e identità.

Se per un verso, infatti, la nostra cultura sembra essere sempre più protesa verso una rivalutazione del corpo (“materiale”) e quindi verso un superamento del sistema valoriale cartesiano, d’altro canto, parallelamente (e, per certi versi, anche paradossalmente), si va sempre più diffondendo nelle pratiche della vita quotidiana “anche” una sorta di svilimento del corpo: trascorrendo gran parte delle nostre giornate in un’interazione sempre più “disincarnata” con gli altri e con l’ambiente circostante, si diffonde inevitabilmente nell’immaginario collettivo l’idea di una scarsa rilevanza del corpo ai fini della percezione del nostro senso identitario. Da questo punto di vista, l’enorme e crescente diffusione delle reti sociali non potrà far altro che incrementare questo tipo di percezione di un Sé sempre più indipendente dal corpo.

Volendo semplificare, ci troviamo dunque di fronte ad un doppio movimento: da una parte, il dibattito scientifico e filosofico sembra tendere sempre più verso una rivalutazione dell’importanza del corpo rispetto alla mente, riflettendosi anche in pratiche di estetica e cura del corpo sempre più diffuse; dall’altra, e nonostante ciò, i processi comunicativi e culturali legati alle nuove tecnologie, nonché le nostre relazioni (siano esse di tipo professionale o personale, anche le più intime) e la costruzione stessa del nostro senso di identità, appaiono sempre più disincarnate. In altri termini, l’artificiale sembra effettivamente sostituire sempre più, nel sapere comune, il “naturale” (inteso come biologico).

Ed è proprio questa una delle prospettive più interessanti attraverso cui affrontare alcuni dei temi proposti dal libro di Rossi e Prattichizzo: le consuetudini, sempre più diffuse nella vita quotidiana, che traghettano fondamentalmente un’idea secondo la quale il corpo biologico sarebbe sempre meno importante in un numero sempre maggiore di situazioni e interazioni sociali – dallo svago al lavoro, dalle relazioni di coppia alla partecipazione ad eventi di vario genere (da quelli educativi a quelli politici o sportivi) – possono essere considerate una sorta di cavallo di Troia che a sua volta promuove l’idea secondo cui utilizzare un corpo virtuale (o un corpo sempre più artificiale in cui i “pezzi biologici” possono essere sostituiti o integrati da protesi tecnologiche) non modifichi nella sostanza quello che noi siamo, ovvero la nostra reale identità.

Incorporare la mente

La coscienza stessa è coscienza del corpo in rapporto con il mondo.

Jean-Paul Sartre

L’insieme di queste complesse ambivalenze che, tra alti e bassi, hanno accompagnato il pensiero occidentale almeno a partire dall’epoca di Platone, è stata da oltre un secolo a questa parte affrontata e in parte risolta dall’approccio fenomenologico. A tal proposito già Edmund Husserl distingueva, anche terminologicamente, il Korper (il corpo-oggetto che noi governiamo e che agisce nell’ambiente seguendo le nostre intenzioni e la nostra volontà) dal Leib (il corpo da cui dipendiamo e che segue intenzioni e volontà che noi ignoriamo e che spesso ci si impongono; il corpo che si ammala a causa di una banale caduta e che inoltre si consuma e invecchia, condizionando le nostre intenzioni e le nostre volontà allo stesso modo in cui lo condizionano gli altri organismi viventi e gli altri oggetti presenti nell’ambiente).

In seguito, i successivi sviluppi della stessa fenomenologia, corroborati da complessi processi di secolarizzazione e da alcune grandi innovazioni nelle teorie scientifiche – dalla fisica alla chimica, dalla genetica alle neuroscienze e, soprattutto, dal passaggio da una biologia determinista e dualista a una biologia finalmente aperta alle scienze sociali e decisamente contraria ad ogni forma di essenzialismo – hanno infine traghettato buona parte del pensiero filosofico occidentale verso un arricchimento di questa originaria idea husserliana, affrancandola dai residui di dualismo che ancora la abitavano.

A tal proposito Jean-Paul Sartre, in una sua celebre riflessione, sosteneva che bisognerebbe approcciare ogni discorso sul corpo partendo non dal corpo-oggetto inteso come una cosa, ma dal nostro essere-nel-mondo.[2]“Il corpo – aggiungeva – è sempre in relazione con il mondo. Il punto di vista della conoscenza pura (oggettiva) è contraddittorio: “c’è solo il punto di vista della conoscenza impegnata”. E ancora: “Essere per la realtà umana è essere-là; cioè là sulla sedia, là a quel tavolo”.[3]

Il corpo oggetto delle ricerche scientifiche potrebbe essere considerato, in una tale prospettiva, sempre un corpo “artificiale”, ovvero un concetto che il nostro corpo (il corpo come Leib) elabora in modo “inconsapevole” per poter essere “studiato” grazie a una radiografia, oppure per poter essere efficacemente sottoposto ad un “intervento chirurgico” mentre si trova disteso “là”, sul “quel” lettino di una determinata sala operatoria.

Chiunque di noi, d’altra parte, quando ad esempio si siede sulla poltrona di un dentista, si predispone a vivere l’esperienza di un dolore fisico legato ad una complessa interazione tra il “nostro” dente (con i “nostri” nervi e i “nostri” cervelli) e, ovviamente, l’agire di un “altro” corpo, quello dell’odontoiatra (delle “sue” mani e delle “sue” pinze o altri strumenti protesici). In questo caso la nostra immagine, ovvero l’idea che abbiamo dei “nostri” denti e del “nostro” corpo-oggetto, è assolutamente altra rispetto all’esperienza da “noi” vissuta.

Allo stesso modo, quando ci osserviamo allo specchio, possiamo percepire i peli delle “nostre” sopracciglia, oppure la punta del “nostro” naso, o il colore dei “nostri” capelli o dei “nostri” occhi. Allontanandoci dallo specchio, potremmo percepire il rigonfiamento del “nostro” stomaco o la robustezza dei muscoli delle “nostre” gambe. E, abbassando il “nostro” sguardo, potremmo soffermarci sulle “nostre” ginocchia, o anche sui “nostri” piedi. Potremmo, certo, anche dare uno sguardo d’insieme alla “nostra” figura intera. In nessun caso, però, potremmo dire di percepire con i nostri sensi una “cosa”, un “oggetto” che rappresenti il “nostro” corpo. Tutt’al più potremmo percepirne, grazie al senso della vista, la parte anteriore. E se ci voltassimo potremmo, in alternativa, vederne (ma con la testa girata, oppure attraverso un ulteriore specchio) la parte posteriore o laterale. Insomma, la percezione del “nostro” corpo potrà avvenire solo e unicamente grazie a un’idea espressa attraverso un concetto[4].

La lacuna che noi siamo

Tutto il sapere si installa negli orizzonti aperti dalla percezione. Non ha senso descrivere la percezione stessa con uno dei fatti che accadono nel mondo, giacché, nel quadro del mondo, non possiamo mai cancellare quella lacuna che noi siamo e attraverso la quale esso viene a esistere per qualcuno, giacché la percezione è il “difetto” di questo “grande diamante.”

Maurice Merleau-Ponty

Così scriveva un altro grande fenomenologo:[5] “Considero il mio corpo, che è il mio punto di vista sul mondo, come uno degli oggetti di questo mondo. Rimuovo la coscienza che avevo del mio sguardo come mezzo di conoscenza, tratto i miei occhi come frammento di materia (…), abbandono la mia esperienza e passo all’idea. Come oggetto, l’idea pretende di essere la medesima per tutti, valida per tutti i tempi e per tutti i luoghi. Si forma quindi un pensiero oggettivo (nel senso di Kierkegaard) – quello del senso comune, quello della scienza – che infine ci fa perdere il contatto con l’esperienza percettiva (…).

Il mio corpo non è forse, proprio come i corpi esterni, un oggetto che agisce su recettori e infine dà luogo alla coscienza del corpo? Non vi è forse un’enterocettività così come vi è una esterocettività?”.[6]

La secolare ambivalenza di cui sopra, dunque, tende a dissolversi se ci sforziamo di applicare un (non sempre semplice, per la verità) approccio di tipo fenomenologico.

Uno dei contributi più rilevanti che i lavori come quelli Rossi e Prattichizzo riescono a fornire in tal senso, è proprio quello di divulgare tale approccio attraverso il riferimento a casi pratici. Ad esempio, il libro riesce a mostrare in modo agevolmente comprensibile come, e in che senso, il corpo di cui abbiamo coscienza, ovvero quello che noi definiamo il “nostro” corpo, sia ben lontano dall’essere il semplice riflesso della percezione consapevole del “nostro” corpo biologico o materiale.

Basti pensare ad alcuni concetti – come, ad esempio, quello di enterocezione appena richiamato dalla citazione di Merleau-Ponty – per comprendere il modo in cui abbiamo accesso al nostro corpo indipendentemente dai classici cinque sensi. L’enterocezione, per l’appunto, riguarda la consapevolezza dei nostri stati interiori (che a loro volta concernono il rapporto tra battiti cardiaci, movimenti respiratori e pulsazioni gastriche). In modo simile la propriocezione è invece riferita alla nostra capacità di avere consapevolezza della posizione del nostro corpo nello spazio, indipendentemente dal senso della vista (la quale presuppone il controllo, evidentemente inconsapevole, di circa 400 articolazioni e 570 muscoli), mentre il sistema vestibolare, infine, ha il compito principale di dotare il nostro corpo di quel senso dell’equilibrio necessario ad un orientamento spaziale funzionale e ad una corretta coordinazione dei movimenti.

Insomma, noi disponiamo di più dati sul nostro corpo che su qualunque altro possibile oggetto o fenomeno presente nell’ambiente in cui viviamo. Tali informazioni, tuttavia, non vengono percepite come “oggetti” esterni grazie ai cinque sensi, ma agiscono sul nostro stesso corpo in un modo del tutto diverso (e certamente “inconsapevole”). Essi ci consentono, cioè, di andare al di là della superficie, perché il nostro corpo è l’unico “oggetto” al mondo che ci consente di essere sentito, per così dire, dall’interno, producendo un tipo di conoscenza assolutamente privilegiato.

Noi e soltanto noi possiamo avere accesso a un tale genere di sapere (un sentire). Mentre la visione rivela migliaia di corpi, l’enterocezione, la propriocezione e gli altri indicatori corporei ne rivelano uno solo: il “nostro”.

Questo genere di conoscenza, incorporata ed “extrasensoriale”, può dare luogo a molteplici forme di percezione considerate “illusorie” e talvolta anche paradossali, come accade ad esempio con la “percezione” degli arti fantasma.

Una persona, la stessa persona “qualunque” dell’esempio cui facevo riferimento più sopra, si osserva allo specchio e vede il suo volto, i capelli, la barba, il petto, le gambe. È il suo corpo. Questo sono io, egli dice a sé stesso, generalizzando. Al contempo, egli potrebbe sentire anche un dolore alla clavicola o un leggero formicolio che, a partire da una mano, risale attraverso il polso fino all’avambraccio. Allora scuoterebbe il braccio, accarezzerebbe con l’altra mano la zona semiaddormentata, poi la strofinerebbe con maggiore forza. Ho male al braccio, ripeterebbe ancora a sé stesso.

Queste frasi appena evidenziate, sono riferite al rapporto che la persona in questione ha con il proprio corpo: la coscienza del proprio corpo.

Nel primo caso, lo stato di consapevolezza relativa al corpo sembra attivata da una percezione proveniente da uno dei classici cinque sensi, la vista. Nel secondo caso, invece, la consapevolezza deriva da una “sensibilità” che appare indipendente dai cinque sensi, ovvero da un tipo di sensazione che comunemente definiamo “interiore” e che possiamo adesso comprendere nei termini di un’interazione tra elementi di un ben più complesso sistema, quello del corpo inteso non in quanto “semplice” oggetto ma in quanto fenomeno derivante da un’interazione continua e incessante tra corpo, cervello e ambiente.

Se determinate idee legate alla nostra concezione del corpo trovano oggi terreno sempre più fertile, insomma, è anche evidentemente perché le conoscenze scientifiche relative al “nostro” corpo biologico sono sempre più diffuse anche nel cosiddetto sapere pratico di senso comune.

Come sappiamo, infatti, il benessere del nostro corpo – da curare attraverso pratiche come lo yoga, il footing, gli esercizi in palestra, le passeggiate in montagna, il tennis o il nuoto – è oggi considerato non tanto un obiettivo in sé, ma anche e soprattutto nei termini di un benessere fisico in grado di produrre benefici mentali – come ridurre lo stress, combattere la depressione, gestire più efficacemente il cosiddetto equilibrio psicologico – in linea con una concezione promossa anche dalle neuroscienze e nota con il termine di embodied cognition.

Il libro di Rossi e Prattichizzo, a partire dai risultati delle loro originali ricerche, volte a studiare principalmente il modo in cui il cervello produce tali forme di conoscenza fenomenologica (nonché alle sue possibili reazioni di fronte a determinate manipolazioni della sua stessa biologia, connesse all’introduzione di alcune protesi artificiali), riesce a proporre delle risposte di grande interesse e di sicura rilevanza per il progresso della conoscenza dell’essere umano in termini non solo strettamente scientifici, ma anche molto utili alla riflessione epistemologica.

Tutto ciò nell’ambito di un più generale panorama culturale in cui il confine tra umano e artificiale risulta essere inevitabilmente sempre più indefinito. Oggi la scienza ci insegna quanto il nostro corredo biologico sia estremamente mutevole ed elastico. E, soprattutto, di come esso emerga e si nutra dell’interazione con l’ambiente al punto tale da poter essere plasmato dalle nostre esperienze di vita.

In un tale orizzonte, dunque, in cui il linguaggio e il contesto sociale sembrano essere in grado di modificare le dinamiche biologiche quanto l’innesto di una protesi tecnologica o l’assunzione di un farmaco, le diverse discipline scientifiche (la robotica e la sociologia; le scienze umane e la psicofarmacologia; le neuroscienze e l’ingegneria genetica, così come molte altre ancora) appaiono sempre più interconnesse, impegnate nel fondamentale obiettivo di poter accedere in modo complementare alla conoscenza dell’unica e indistinguibile sostanza di cui è fatto l’uomo: la sua complessa e imperscrutabile umanità.


[1] Jean-Paul Sartre (1943), L’Essere e il Nulla, Il Saggiatore, Milano 2014, p. 366

[2] Jean-Paul Sartre (1943), L’Essere e il Nulla, Il Saggiatore, Milano 2014

[3] Ivi, p. 364.

[4] Cfr., per approfondimenti, Gianfranco Pecchinenda, L’Essere e l’Io. Fenomenologia, Esistenzialismo e Neuroscienze sociali, Meltemi, Milano 2018

[5] Maurice Merleau-Ponty (1945), La fenomenologia della percezione, Bompiani, Milano 2003, p. 117

[6] Ivi, pp. 118-124

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