di Gianfranco Pecchinenda
La Peste è, per molteplici motivi, uno dei più importanti romanzi del Novecento. Al di là di ogni possibile considerazione di carattere stilistico o di genere, si tratta di un’opera in grado di trasmettere magistralmente quella che è l’essenza stessa della filosofia esistenzialista: il senso di estraneità che si prova di fronte alla realtà nel momento in cui questa, all’improvviso, ci appare come qualcosa di assurdo, misterioso e, soprattutto, completamente indifferente ad ogni sentimento umano.
Il lavoro di trasposizione cinematografica di quest’opera, proposto da Francesco Patierno (che, oltre alla regia, ha collaborato insieme a Francesco Di Leva e Andrej Longo alla stesura della sceneggiatura) nel corso della recente Festa del Cinema di Roma, riesce a coniugare il rispetto per i temi e la struttura narrativa presenti nel capolavoro di Camus, con originali e mai banali variazioni di raffinata sensibilità. Misurarsi con un testo sacro come La Peste, infatti, potrebbe risultare un’impresa tutt’altro che agevole. A conti fatti, però, il regista napoletano riesce ad evitare ogni possibile tranello – primo tra tutti la solo apparente semplicità e linearità del testo – con prudente maestria.
Anche se l’incipit del film ( in cui si descrivono le vicende di una troupe cinematografica mentre lavora, durante il lockdown, alla realizzazione di una pellicola tratta da La Peste di Camus), rischia di apparire, sulle prime, un po’ prevedibile, Patierno riesce progressivamente a coinvolgere lo spettatore in una narrazione di grande fascino. Innanzitutto, grazie al continuo e sapiente richiamo ai grandi temi dell’opera di Camus, ma poi specialmente per la straordinaria bellezza delle immagini di una Napoli come sempre suggestiva, catturate con grande saggezza e in grado di restituire intensi quadri esistenzialisti, fatti di surreali silenzi e inquietanti solitudini.
Nel prosieguo della narrazione, la realtà delle vite degli attori chiamati a girare il film, andrà poi ad alternarsi alla finzione dei personaggi che essi stessi interpretano fino a integrare gradualmente i due piani narrativi: I medici e gli infermieri di un ospedale; le istituzioni e i suoi funzionari, i volontari e via via tutte le diverse componenti della società si mescoleranno con la troupe che sta girando il film sulla Peste per affrontare la paura, l’isolamento, i sempre ambivalenti rapporti tra scienza, fede e politica. Infine, la messa in scena del processo di costruzione di quel senso di solidarietà proposto come unica soluzione di fronte alla malattia come metafora dell’inesorabile estraneità del mondo.
Nel complesso, il regista napoletano riesce a ricalcare abilmente le tappe tracciate a suo tempo dal progetto esistenzialista del filosofo franco-algerino.
Primo passaggio, l’imprevedibilità:
La mattina del 16 aprile il dottor Bernard Rieux, uscendo dal suo studio, inciampò in un sorcio morto, in mezzo al pianerottolo (Camus). Oppure, per citare un altro meraviglioso esempio letterario: Mi stavo allacciando le scarpe e, d’improvviso, l’infelicità (Cortázar). In quel momento – come scriveva André Malraux – è come se cominciasse ad avvertirsi, tra ciascuno di noi e la vita universale, una specie di frattura, una spaccatura difficilmente riducibile.
L’imprevisto, per quanto apparentemente banale, interrompe la routine ed insinua nei protagonisti delle vicende narrate un dubbio, rivelando il sospetto che la loro esistenza, le loro credenze (anche quelle più solide) non siano che abitudini dietro le quali si cela un non-senso, un qualcosa che assumerà la fisionomia dell’Assurdo. Di fatto, questi personaggi avranno in sostanza perduto il legame con i loro simili e con il loro ambiente; essi sperimenteranno (con incolmabile angoscia) la loro non-appartenenza a tutto ciò che li circonda.
L’Assurdo – tema fondante di tutta l’opera di Camus – o meglio, il sentimento dell’assurdo, è proprio la consapevolezza di questa separazione, di questa profonda frattura che conduce all’estraneità e modifica tutti i principali riferimenti dell’esistenza umana.
Nel Mito di Sisifo, vero e proprio manifesto filosofico dell’esistenzialismo, appare un celebre brano in cui Camus rende perfettamente questa stessa idea:
Capita il giorno in cui gli scenari crollano. Alzarsi, tram, quattro ore di fabbrica o di ufficio, mangiare, quattro ore di lavoro, mangiare, dormire e Lunedì, Martedì, Mercoledì, Giovedì, Venerdì e Sabato sullo stesso ritmo. Capita che un giorno, un giorno soltanto, il “perché” emerge, e tutto comincia in questa stanchezza tinta di stupore. “Comincia”, questo è l’importante. La stanchezza è alla fine degli atti di una vita meccanica, ma inaugura allo stesso tempo il movimento della coscienza. Essa si sveglia e provoca ciò che segue. Ovvero il ritorno inconscio alla routine, oppure il risveglio definitivo.
Sarebbe difficile poter sintetizzare meglio un’immagine che ci ricordi quanto le nostre esistenze siano incatenate a delle istruzioni che ci sono state fornite in modo preconfezionato ed irriflesso, e di come sia proprio a partire dal sospetto nei confronti della solidità di tali catene che comincia a far capolino, surrettiziamente quanto inevitabilmente, il sentimento dell’Assurdo.
Il secondo passaggio riguarda proprio la centralità (inconsapevole) dell’abitudinarietà:
Oggi è stato un giorno felice; solo routine! – fa dire lo scrittore uruguaiano Mario Benedetti al protagonista del suo romanzo La Tregua, altro grande capolavoro sul sentimento dell’Assurdo, in cui si può leggere tra l’altro: Questo pomeriggio, mentre tornavo dall’ufficio, un ubriaco mi ha fermato per strada (…). Era uno strano ubriaco, con una luce speciale negli occhi. Mi ha preso per un braccio e mi ha detto, quasi appoggiandosi a me: sai che ti succede? Ti succede che non vai da nessuna parte! (…). Sono già quattro ore che non riesco a stare tranquillo, come se realmente non stessi andando da nessuna parte e solo adesso me ne rendessi conto.
L’Assurdo in quanto tale, per quegli autori che in un modo o nell’altro hanno provato ad affrontarne e spiegarne il sentimento, sembrerebbe fare la sua comparsa nel momento stesso in cui l’uomo si rende conto di non poter più ignorare il fatto che il mondo, inumano e dunque del tutto illogico e privo di senso, non si interessa affatto a lui: non si tratta di una teoria ma di un’esperienza. Un sentimento dal quale non si guarisce se non con le armi dell’arte, della letteratura, del gioco, dell’amore, della finzione, dell’ironia; insomma, le armi dell’illusione e – per dirla con Nietzsche – dell’autoinganno.
Quando si cerca di essere sempre razionali, ogni giorno, ogni minuto, ogni secondo; quando non ci si abbandona mai alle illusioni che gli uomini sono così stati così bravi a costruire e ad elaborare nel corso di millenni, allora si rischia di incorrere in quello che, per Camus, era il più serio dei problemi: quello di farsi trovare impreparati!
Sarà allora che emergerà la differenza sostanziale tra colui che è “escluso” – e che ha suo malgrado accesso ad una conoscenza di cui farebbe volentieri a meno – e tutti gli altri, ovvero coloro che, nonostante tutto, perseguiranno nell’ottusa ripetitività delle loro azioni quotidiane: quelli che ora appaiono come una folla, una massa omogenea che si presenta indistinta e che, in quanto tale, sembra trascinarsi nel flusso della propria esistenza senza più un senso né un orientamento.
La tappa immediatamente successiva, strettamente connessa al disorientamento legato al presentarsi di questo sentimento (anch’essa molto ben rappresentata nell’opera di Patierno) è quella dell’attesa.
L’attesa era una malattia sfibrante, progressiva, che afferrava alla gola, stringeva, stringeva. Ti veniva da pensare che non saresti morto, forse, ma non avresti mai più vissuto, non come prima, almeno. Ecco, questa lenta interminabile pioggia aveva mutato la prospettiva delle cose: la tua esistenza non sarebbe più stata uguale, mai più, perché adesso la vita emergente era condizionata dall’acqua che scendeva, che scendeva, dall’acqua che fermava le auto nelle strade
Al secondo giorno ci si rese conto, o meglio s’incominciò a comprendere: forse non era la pioggia degli altri anni, e degli altri mesi, forse questa di adesso veniva da molto lontano.
Questa volta il riferimento è al protagonista di Malacqua, straordinario romanzo di uno scrittore napoletano ingiustamente sottovalutato dalla critica (Nicola Pugliese), che rende benissimo il significato del rapporto tra attesa dell’assurdo e le stravolgenti conseguenze della comprensione, ovvero di quella conoscenza di cui – come già ricordato – ognuno di noi farebbe volentieri a meno. Il tema per eccellenza, in questo caso, è quello della morte.
È difatti un dato indiscutibile che se la morte venisse inclusa negli ambiti “normali” della vita di tutti i giorni, se venisse cioè lasciata penetrare senza quei filtri che contribuiscono a tenerla “ai margini” dei discorsi e delle pratiche quotidiane, la nostra visione del mondo muterebbe profondamente, dando via libera ad una concezione, per l’appunto, assurda della realtà.
Jean-Paul Sartre – altro grande capostipite della filosofia dell’assurdo – esprimeva magistralmente questo concetto attraverso le celebri riflessioni del condannato a morte Pablo Ibbieta, protagonista del suo racconto Il Muro:
Nello stato in cui mi trovavo, se fossero venuti ad annunciarmi che potevo tornarmene tranquillamente a casa mia, che mi avevano graziato, la cosa mi avrebbe lasciato indifferente: qualche ora o qualche anno d’attesa è assolutamente la stessa cosa, una volta che si è perduta l’illusione d’essere eterni. Non tenevo più a niente, in un certo senso, ero calmo. Ma era una calma orribile, a causa del mio corpo: il mio corpo, io vedevo coi suoi occhi, udivo con le sue orecchie, ma non era più me; sudava e tremava da solo e non lo riconoscevo più. Ero costretto a toccarlo e a guardarlo per sapere cosa gli succedeva, come se fosse stato il corpo d’un altro.
Per poter mantenere la morte ai suoi confini, la nostra società ha adottato evidentemente una serie di strategie: abitudini e azioni consuetudinarie, più o meno istituzionalizzate, messe in atto al fine di creare quegli schermi protettivi necessari ad attutire il suo sconvolgente impatto potenziale.
La più efficace delle strategie che l’uomo occidentale moderno ha via via elaborato per tenere ai margini la morte, ben al di là di ogni riflessione di carattere religioso o scientifico, resta però fondamentalmente quella di adeguarsi alla tranquillizzante ricchezza del quotidiano. In particolare, tale strategia è strettamente connessa all’abbondante prosperità materiale prodotta dal pervasivo modello consumistico intorno al quale si è venuta strutturando la realtà da cui egli è attualmente circondato. È la routine! È – come ha ricordato Antonio Cavicchia Scalamonti – l’immergersi in questo dilagante insieme di oggetti materiali e immateriali, ciò che in gran parte ci tranquillizza.
Talvolta – e in modo, ancora, del tutto imprevedibile – accade però che questi margini, queste dighe, questi “filtri” si frantumino e comincino a venir fuori delle crepe. Certo, è vero, una catastrofe come la Peste o come il Covid, non capitano certo tutti i giorni. Purtroppo, tuttavia, le fratture esistenziali da esse provocate agiscono anche indirettamente, come un “virus esistenziale”. Esse ci ricordano che, in fondo, può bastare poco: può essere sufficiente, ad esempio, lo sguardo preoccupato di un medico, una diagnosi infausta, a volte anche un piccolo dolore che non ci si riesce a spiegare razionalmente. E allora, una volta rappresentata l’inevitabilità dell’assurdo, come reagire?
Patierno, così come Camus, ci mostra un percorso – l’unico umanamente percorribile, almeno secondo l’esistenzialismo – descrivendo un’ultima tappa, quella in cui si suggerisce di abbracciare una morale della comprensione.
Il dottor Rieux – nel film di Patierno rivisitato e ottimamente incarnato da Francesco Di Leva – è un uomo di coraggio, che si sforza di affrontare l’assurdo dell’esistenza senza arrendersi, combattendo fino alla fine con le armi della conoscenza e, soprattutto, del valore umano per eccellenza: la compassione. Ovvero quell’atteggiamento che – nelle parole di Schopenhauer, si presenta quotidianamente ai nostri occhi, in situazioni particolari, ovunque un uomo, per impulso immediato, senza riflettere, accorre ed aiuta un altro, talvolta esponendo persino la sua vita al più evidente dei pericoli, pensando solo alla difficoltà e al pericolo in cui si trova l’altro.
Tradotto in pratica, la spinta ad occuparsi emotivamente degli altri, ad accompagnarli risolutamente nel loro assurdo destino, di fronte all’impotenza di ogni credenza prestabilita o di ogni comoda soluzione religiosa.
Come – in conclusione – sentenzia il nostro eroe: forse val meglio per dio che non si creda in lui e che si lotti con tutte le nostre forze contro la morte, senza levare gli occhi verso il cielo dove lui tace.
La Cura
regia di Francesco Patierno
con Alessandro Preziosi, Francesco Di Leva, Francesco Mandelli, Cristina Donadio Andrea Renzi, Antonino Iuorio, Peppe Lanzetta.
Italia, Drammatico, 87′
Le immagini presenti sono tratte dal film