EXAGERE RIVISTA - Luglio - Agosto - Settembre 2024, n. 7-8-9 anno IX - ISSN 2531-7334

La presenza, ovvero perché filosofare

 

di Giacomo Dallari

 

In un’accezione squisitamente filosofica, il termine presenza potrebbe essere descritto come consapevolezza o, più propriamente, come autocoscienza. Per molti pensatori, infatti, essere presenti a sé stessi è la conditio sine qua non della ricerca, nonché il presupposto fondamentale della conoscenza. L’anima, sosteneva infatti Socrate, è tutto[1] e molti secoli più tardi lo psichiatra e filosofo esistenzialista tedesco Karl Jaspers dichiarava che «la coscienza non si esaurisce mai nell’intenzionalità diretta agli oggetti, ma, ripiegandosi, riflette su di sé. Come tale, essa non è solo coscienza, ma autocoscienza. L’io penso e l’io penso che penso coincidono in modo da non poter esistere l’uno senza l’altro»[2]. In un certo senso la presenza viene quindi a costituirsi come una forma di relazione primaria dell’uomo con se stesso che si differenzia da tutte le altre modalità presenti nel mondo naturale, precede l’azione ed è anteriore ad ogni forma di mediazione linguistica.

La presenza, in questa sua dimensione, è una qualità dell’essere umano che non rimanda ad altri concetti come la riflessività o la razionalità e non ha niente a che fare con tutto ciò che è materiale e tangibile. Essa, più che altro, sembra essere una caratteristica del sistema umano nella sua globalità.  È contemporaneamente, come sosteneva Hegel,  ritorno dall’oggetto e presenza a se stessi[3] come a dire che la presenza è contatto, riflesso, riconoscimento che non dipendono dall’oggetto in sé o dai suoi contenuti o attributi, ma dalla dinamica che da essa inevitabilmente scaturisce. Il concetto di presenza, quindi, segna una discontinuità tra noi e gli altri viventi nel segno della relazione e della comunicazione: senza una primaria relazione con noi stesi e senza una genuina comunicazione interiore, non è possibile neppure parlare di presenza, tantomeno di relazione o di rapporto reciproco. Inoltre, se la presenza è prima di tutto autocoscienza, questo significa che essa si presenta sotto forma di desiderio: il desiderio di essere riconosciuta, ovvero di essere confrontata con altre autocoscienze. L’uomo si può riconoscere unicamente come animale desiderante, cioè come un soggetto che vuole, che cerca e che dispone di tutti quegli attributi che lo rendono partecipe di ciò che fa, alla continua ricerca dell’immediatezza e dell’appagamento di una sorta di originaria unità perduta.

In questa sua accezione, tra presenza e filosofia non vi è disaccordo: esse sono la stessa cosa o, per meglio dire, sono contenute nel medesimo orizzonte. La filosofia, sostiene infatti  Lyotard[4], comincia nell’attimo in cui gli Dei tacciono e cioè nel momento in cui l’umanità ha perso la sua primordiale e immatura coscienza e si è ritrovata disgregata e priva di punti di raccordo tra il soggetto che pensa e il mondo che è pensato. In questo senso la filosofia si è poi costituita a partire da una assenza che, come è facile intuire, sta all’opposto della presenza, senza escluderla e senza negarla.

Il termine filosofia, se da una parte rimanda inevitabilmente alla sua accezione etimologica di amicizia e amore per il sapere, dall’altra si presenza come una mancanza che deve essere colmata. La filosofia, infatti, essendo strutturalmente una mancanza a se stessa, si caratterizza, prima ancora che nei suoi contenuti, come continua ricerca, come desiderio, come una tendenza verso qualcosa. La filosofia si muove sempre sul filo della presenza – assenza: una volta tende verso una delle due forze, un’altra verso quella opposta, ma non può in alcun modo prescindere dalla coesistenza di entrambe. L’assenza stabilisce la possibilità di una presenza la quale, a sua volta, determina altre mancanze che devono essere colmate, aprendo così ad altre ed infinite possibilità.

Per conoscere e approdare ad una forma di sapere che sia in grado di apportare dei benefici è indispensabile che il pensare abbia infinite possibilità di assenza che solo come tali possono divenire infinite possibilità di presenza. Esattamente come noi – che  siamo presenti a noi  stessi, ma desideriamo l’altro – anche la filosofia parte da sé stessa per desiderare altro, vive nella mancanza per giungere ad una presenza. È una forma di privazione, di povertà che ci sprona all’azione, che ci conduce verso la lotta per risalire la china della nostra esistenza se ci riferiamo all’autoconsapevolezza e verso la conoscenza se invece ci riferiamo al pensiero.

Nella quattro conferenze che Jean-Francois Lyotard ha tenuto presso l’università Sorbona nel 1964 viene affrontato il tema della filosofia e della sua utilità o della sua presunta inutilità.  Il filosofo francese è lapidario quando afferma che si fa filosofia «perché c’è il desiderio, perché c’è dell’assenza nella presenza, del morto nel vivente; e perché è in nostro potere il fatto che esso non sia ancora tale; e anche perché esiste l’alienazione, la perdita di ciò che si credeva acquisito e la scissione tra il fatto e il fare, tra il detto e il dire; infine, perché non possiamo sfuggire a questo: testimoniare la presenza di una mancanza attraverso la nostra parola. In realtà, come non filosofare?»[5]

Per comprendere meglio la relazione tra la filosofia, l’autoconsapevolezza e il loro rapporto con la dinamica presenza-assenza, è necessario comprendere che il desiderio, così come lo ha definito Lyotard, non può essere descritto attraverso i canoni della logica e del nesso causale dell’esserci e del non-esserci, ma come un «movimento di qualcosa che va verso l’altro come verso ciò che gli manca»[6]. Quando si ha a che fare con il desiderio, dunque, abbiamo a che fare con una relazione che tiene insieme, sullo stesso piano, l’assenza e la presenza e li fa confluire l’uno nell’altro. La filosofia, continua Lyotard, «mostra nella sua trama che la perdita dell’unità, la scissione che separa la realtà e il senso, non è un evento in questa storia, bensì, per così dire, il suo motivo […]; la perdita dell’unità è il movente della filosofia nel senso che è ciò che ci spinge a filosofare»[7].

Le parole del filosofo francese ci aiutano a comprendere che la necessità del cambiamento passa attraverso l’attività della comprensione e la filosofia, che come scherzosamente definisce lo stesso Lyotard, potrebbe anche sembrare «un passatempo per signorine di buona famiglia perché non produce aerei supersonici o perché non interessa quasi a nessuno», fa una cosa che nessun altra disciplina è in grado di fare: usa una mancanza strutturale per giungere alla sua realizzazione ed è, per usare le parole di Lyotard, «il momento in cui il desiderio che è nella realtà viene a se stesso, e la mancanza di cui soffriamo, come individui e come collettività, si nomina e nominandosi si trasforma»[8].

Ed è forse in questo atteggiamento che si racchiude tutta la forza del postmodernismo, di cui Lyotard è uno dei padri fondatori: nella possibilità di rinominare la realtà a tal punto da poterla modificare non solo nella sua facciata esteriore, ma nelle sue componenti strutturali o, come preferiva definirle Lyotard, nelle sue narrazioni. Con l’avvento del postmodernismo assistiamo al tramonto della fiducia aprioristica nei confronti delle grandi legittimazioni omnicomprensive della realtà che accettavano la presenza come eterna giustificazione, e al ripiegamento su racconti più brevi e limitati, capaci però di mostrarci la difficoltà di perseguire verità certe e assolute circa la condizione umana. La presenza è dunque costituita da spezzoni di discorsi esposti continuamente all’incertezza, tenuti insieme da logiche cangianti e continuamente esposti alla possibilità di essere falsificati.  Si tratta, in sintesi, di accettare che pluralità e instabilità costituiscano aspetti propri e prioritari della realtà la quale, diversamente dalle grandi narrazioni e dai grandi racconti che hanno tentato invano di fornirci un fondamento unitario del pensare e dell’agire, non fugge impaurita di fronte all’assenza di senso considerandola, al contrario, come il luogo privilegiato nel quale ricercare e trovare la presenza.

 

[1] Cfr. Aristotele, Sull’anima, libro III, 8, 431 b.

[2] Jaspers K., Philosophie,Trad. it. Filosofia, Torino, Utet, 1978, p. 117.

[3] Cfr. Hegel G. W. F. (1807) La fenomenologia dello spirito trad. it., Rusconi, Milano, 1995.

[4] Cfr. Lyotard J.F., Perché la filosofia è necessaria, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2013.

[5] Lyotard J.F., Perché la filosofia è necessaria, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2013, p.77.

[6] Ibidem, p.5.

[7] Lyotard J.F., Perché la filosofia è necessaria, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2013,p.38.

[8] Ibidem, p. 76.

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