EXAGERE RIVISTA - Ottobre - Novembre - Dicembre 2024, n. 10-11-12 anno IX - ISSN 2531-7334

La scuola del saper rischiare. La didattica del dopo Covid in un’intervista con Donatella Fantozzi

 

di Morena Lari

Quest’anno la Scuola Italiana ha vissuto quello che potrebbe essere descritto come il suo “quadrimestre breve”. Una fase apparentemente di pausa, ma in realtà ricca di mutamenti. Questo periodo ha evidenziato una serie di problematiche, ha messo in luce nuovi e vecchie ruggini, ma anche una forte volontà di cambiamento che ha accomunato docenti di ogni generazione.

Ora anche le aule virtuali sono rimaste vuote, la scuola, però, sta continuando a lavorare, come ogni anno, ma con una prospettiva nettamente diversa e – stavolta – incerta. Questo è, per i docenti,  il momento per fermarsi e guardare la montagna da lontano, per valutare cosa è stato e prepararsi a ciò che sarà. Insegnare e apprendere. Itinerari pedagogici e didattici nella scuola dell’infanzia e primaria a cura di Donatella Fantozzi e Tania Terlizzi è un volume pubblicato da ETS prima dell’emergenza Covid-19, ma è attuale il suo voler tracciare una cammino, nel tentativo di lasciare delle briciole da seguire sul sentiero, per ritrovarlo, per ritrovarsi. Con una delle curatrici, Donatella Fantozzi, docente del corso di laurea in Scienze della Formazione Primaria dell’Università di Pisa, abbiamo cercato di approfondire l’argomento. 

– Il volume che ha curato affronta varie tematiche della scuola, non distinte, ma legate insieme. È un percorso all’interno del ‘fare scuola’ in cui si scorgono le possibili traiettorie da seguire. Quali sono gli itinerari della scuola oggi e dove ci possono portare? Qual è la meta di questo viaggio?

– Apparentemente, gli itinerari della scuola di oggi sono più di uno, ma in realtà è unico e si configura come interdisciplinarità o transdisciplinarità. Ritengo che siano le sfaccettature a essere molteplici perché l’itinerario della Scuola coincide con il viaggio degli studenti. Questo è un aspetto che negli ultimi anni si è andato affievolendo, ma che la scuola non deve perdere di vista. L’attenzione deve essere focalizzata sugli studenti, sempre. Nel testo si parla di scuola dell’infanzia e primaria ed è qui che la scuola dovrebbe essere maggiormente attenta a orientare il viaggio personale degli alunni e cercare di favorirlo. Non dimentichiamo che la dispersione e l’abbandono scolastico si generano proprio nei primi gradi di scuola, mentre nella secondaria di secondo grado si conclamano.

Uno dei problemi della Scuola italiana è terminologico. Faccio un esempio: se io dico ‘obiettivo’ potremmo intenderne di formativi, di specifici, di apprendimento, curricolari e così via. Per costruire un itinerario efficace, un riferimento può essere dato dalle Indicazioni Nazionali del 2012 e dal loro aggiornamento del 2018, I nuovi scenari. In esse si parla di traguardi di competenze e obiettivi di apprendimento e sono questi che noi insegnanti dovremmo declinare. Non è nemmeno casuale che, in questo documento, traguardi e obiettivi siano nominati in questo ordine, poiché i primi ci indicano come progettare, ma anche come costruire un itinerario interdisciplinare. In questo modo, si potrebbero mettere in luce gli aspetti positivi dei ragazzi e non gli aspetti negativi. È così che posso valorizzare i bisogni educativi e le diverse potenzialità all’interno della classe per far emergere quelle che Howard Gardner chiama ‘intelligenze multiple’.

– Cosa manca alla scuola per definire un itinerario di questo genere?

– Alla scuola di oggi manca il coraggio di scommettere e quindi il saper rischiare. Mi piacerebbe che gli insegnanti cominciassero a costruire un aspetto bellissimo della loro professione, ovvero il saper fare il trapezista senza rete. Lanciarsi sapendo che non c’è una rete e, nel momento in cui lascio il trapezio per attaccarmi all’altro, c’è l’atto creativo. Voglio salvarmi dalla caduta e, quindi, devo saper rischiare lanciandomi nella maniera giusta. È anche un po’ l’aspetto della nostra professione che è molto trascurato ultimamente.

– Nella scorsa primavera ci siamo trovati di fronte all’inaspettato e all’imprevedibile. Una pandemia mondiale, la didattica così come l’abbiamo sempre concepita è stata sospesa causa Covid a favore di una forma di didattica in qualche modo sperimentale, quella a distanza. Il tutto ha prodotto un contesto nuovo. Quali risposte si sarebbe potuto dare rispetto alla didattica e alla formazione anche dei docenti?

– Per quanto riguarda il volume, è stata una scelta ponderata non dedicare un saggio alla formazione degli insegnanti. Come curatrice, ho deciso che la raccolta non voleva essere una ricetta, una sorta di bugiardino per l’insegnante, quanto piuttosto una cassetta degli attrezzi con cui confrontarsi. Perché il tentativo è di formare insegnanti diversi.

Rispetto all’emergenza Covid, in quarant’anni di scuola non ho mai assistito a un evento del genere. Credo che sarebbe stato necessario, anche in questo caso, un atto di coraggio. Ovvero chiudere gli istituti, dicendo al contempo a tutta Italia che la scuola doveva prepararsi per dare una risposta adeguata. Occorreva tempo perché la scuola è fatta di persone e questo personale aveva il diritto di ricevere una guida in una situazione mai vissuta prima. Gli insegnanti avrebbero dovuto avere l’occasione di formarsi tecnicamente sugli strumenti, ma anche di confrontarsi, per sapere che non siamo soli, che anche i colleghi stavano provando le stesse sensazioni. Avremmo potuto condividere le titubanze oltre alle buone pratiche.

L’insegnante non nasce come docente virtuale e, in un’emergenza, ha il diritto di sentirsi tutelato e guidato dall’Istituzione. È stato un isolamento su tutti i piani, poiché è mancata una dimensione organizzativa, ma anche relazionale. Gli insegnanti stessi, dovevano sapere che non c’era nessuna fretta di ricevere dagli alunni l’esercizio svolto, poiché anche le famiglie avevano difficoltà.

– L’obiettivo della scuola non è solo istruire ed educare, ma è sviluppare competenze trasversali frutto dell’intreccio tra saper fare e sapere ovvero il saper essere. Qual è il legame fra teoria e prassi pedagogica? Come tenere insieme didattica e pedagogia nella costruzione del progetto di vita di ciascun alunno?

– Non può esserci teoria senza pratica, non può esserci pratica senza teoria. Sono invischiate, non si possono sciogliere. Tenerle separate è un errore. Ed è il buon insegnamento che le tiene insieme.

Entrando in aula, non posso proporre un’attività didattica senza aver già deciso a quali illustri personaggi della storia pedagogica la mia metodologia si rifarà. Mi devo sempre domandare a chi mi affido, in che cosa credo. Se credo nel comportamentismo, utilizzerò determinate metodologie, se scelgo il cognitivismo e il costruttivismo, ne userò altre. Dietro la scelta di un’attività, anche già predisposta da una guida scolastica, deve esserci la consapevolezza teorica del docente, il che significa scegliere se ispirarsi a Pavlov, Vygotskij, Bruner o Piaget. Questo è il legame tra pedagogia e didattica, che talvolta è affievolito, ma che si ravviva lavorando insieme al bambino con cui è fondamentale affrontare e costruire quel famoso itinerario formativo, che non può essere solo educativo o solo istruttivo.

– La comunicazione rappresenta un aspetto fondamentale per indirizzare il pensiero e la formazione dell’alunno. Se pensiamo alle ricadute sugli alunni di ogni età, è evidente che l’emergenza sanitaria ha prodotto conseguenze importanti per il mondo della scuola. Come è dovuta cambiare la comunicazione nella Didattica a distanza?

– Nella giusta misura, ai bambini si può dire tutto e, proprio riguardo all’emergenza Covid e alla Didattica a distanza, bisognava dire la verità. Era importantissimo che gli insegnanti comunicassero il proprio disagio e il proprio dolore agli alunni senza far finta che andasse tutto bene. E lo slogan “Andrà tutto bene” è stato giustissimo perché i bambini vanno incoraggiati a credere che, comunque cambi la situazione, torneremo alla normalità, anche se nel frattempo dovremmo vivere in questo modo. Dopo i genitori veniamo noi insegnanti e da questo derivano compiti e responsabilità. Ovvero, dobbiamo far capire che ognuno di noi deve mettere quanto di meglio ha in questa esperienza, cercando di ricavare tutto il possibile da quanto stiamo vivendo, poiché non è possibile cambiarlo né evitarlo.

Certo, la comunicazione in una relazione con dei bambini dell’età dell’infanzia e della primaria riguarda anche la fisicità, quindi il baciarsi, il toccarsi, l’accarezzarsi, il sorridersi. Gli strumenti della fisicità nella distanza non possono essere vissuti, però possono essere rievocati poiché li abbiamo vissuti in un passato. Un atteggiamento del genere sarebbe stato importante per mantenere la memoria di ciò che si viveva in classe e per costruire una storia dell’attualità da agganciare al periodo precedente. Ho consigliato ai colleghi e agli alunni di tenere un diario, con scritti, foto, immagini, audio. Sarebbero stati modi diversi per mantenere la relazione, per costruire qualcosa che avesse delle fisicità che, a loro volta, potessero essere ricondotte a ciò che già conoscevamo, anche ai nostri comportamenti. Il punto è capire fino a dove è possibile ricostruire una personalizzazione dell’ambiente.

– Intende dire che bisogna ricreare l’ambiente-classe anche online?

– Nella Didattica a distanza, gli alunni si trovano a casa propria, ma una volta collegati – noi docenti e gli alunni – siamo la classe. Quindi è importante anche rievocare i comportamenti, gli atteggiamenti, i riti, su cui abbiamo puntato come insegnanti, cercando di riproporre anche nel virtuale la costruzione dei riti che servono all’educazione, come ci insegna anche il Piccolo Principe.

La costruzione dei riti serve a richiamare quello che abbiamo vissuto in spazi diversi, in tempi diversi, in luoghi diversi e, paradossalmente, dà uno spazio e un tempo anche a un virtuale che altrimenti è lasciato davvero nell’aria.

– Nella pratica scolastica, si parla di progettualità. Spesso essa viene vissuta come un adempimento burocratico fastidioso eppure è un dispositivo fondamentale nella didattica. In uno dei saggi, si afferma che la progettualità è dinamica e sistematica al tempo stesso, grazie alle due dimensioni che la animano. quella previsionale e quella ipotetica. Qual è il ruolo della progettazione in questo momento storico di ripensamento del fare scuola?

– Ipotesi e previsione non sono due aspetti paralleli, si incrociano continuamente e sono la parte fondamentale della progettazione. Nel momento in cui vado a progettare la mia azione pedagogico-didattica devo prevedere dove voglio andare, analizzando il contesto, cioè i bisogni degli studenti. Una previsione è un progetto, quindi partendo dall’analisi pedagogica che ho svolto, costruisco la previsione su cui predispongo delle ipotesi. E qui si può innestare un errore gravissimo che rischia di far scadere il progetto in un programma. Continuiamo a pretendere che i bambini si adeguino a ciò che dicono i libri, mentre – al contrario – dovrebbero essere i libri ad adeguarsi a ciò di cui hanno bisogno i bambini.

Un progetto didattico che abbia alle spalle una pedagogia seria prepara con i bambini il lavoro da svolgere, perché il lavoro dell’insegnante non è somministrare schede, ma appassionare i bambini a imparare divertendosi. E per fare ciò, devo dedicare del tempo a parlare con loro, talvolta mettendo da parte ciò che avevo in programma per la lezione. Comunque vada, loro impareranno a leggere e a scrivere e un bravo insegnante sa cercare l’aspetto pedagogico e la metodologia didattica in qualsiasi occasione, senza bisogno di strumenti preconfezionati.

– Allora quale può essere il punto di partenza di un progetto didattico che parta dagli alunni?

– Bisogna costruire un progetto didattico su ciò che interessa loro. I materiali li portano i bambini, agli insegnanti spetta la competenza pedagogico-didattica. Un bravo insegnante deve essere pronto a utilizzare il materiale dei bambini anche all’impronta. Se entro in aula con l’idea di parlare della rotazione del Sole e della Luna e arriva un bambino che ha trovato un ranocchio in una pozzanghera, io devo parlare di quel ranocchio. Non posso rispondere “Ma cosa c’entra?”. Devo essere capace di sfruttare quell’occasione, un po’ come insegnava Rousseau, per scovarvi la possibilità pedagogica di provocare un insegnamento. Non è una questione di tecnica, bisogna costruire competenze nei bambini e solo sfruttando ciò che interessa loro riusciremo ad attrarli verso il voler sapere. E questo aspetto è trascurato nella scuola.

– Ogni adulto è un modello educativo, per questo per un insegnante diventa importante la scelta del proprio modo di porsi di fronte alla classe. Prima ancora del linguaggio verbale, il comportamento parla di noi e gli alunni sono capaci di carpire ogni sfumatura. In uno dei saggi si afferma che i bambini hanno bisogno di uno ‘sguardo possibile’. Come può essere definito?

– Lo sguardo possibile è tante cose. Per esempio, è il non sanzionare immediatamente una risposta che secondo noi o secondo il canone è sbagliata. Dovremmo provare a chiedere il perché di quella risposta, poiché l’alunno –magari – ha intuito qualcosa che io non avevo ancora visto. Lo sguardo possibile porta a guardare i bambini come bambini. Sono loro che guidano, gli insegnanti sono i registi. Dobbiamo organizzare e trovare il modo di sfruttare gli strumenti che ci offrono, renderli strumenti che portano ad apprendere altro. E questo è anche progettare, fare previsioni e fare ipotesi.

Concretamente, una volta avevo proposto in classe un problema con addizioni e sottrazioni. Un bambino aveva riportato in colonna le diverse operazioni. Io, da maestra gli spiegai che non potevano essere messe in colonna un’addizione e una sottrazione contemporaneamente e lui mi rispose chiedendo se il risultato fosse giusto. Lì capii che l’errore era mio, poiché prima spieghiamo che le operazioni vanno svolte singolarmente e poi, con le espressioni, mettiamo le operazioni tutte in fila e le risolviamo seguendo delle regole. L’importante è seguire una serie di criteri. In fin dei conti, aveva ragione lui che aveva adottato un pensiero divergente.

Ecco, lo sguardo possibile è credere nell’orizzonte che vedono gli alunni. Bisogna avere il coraggio di guardarci, ritorna ancora l’immagine del trapezista che dovrebbe sapersi lanciare senza rete. E torna un concetto per me fondamentale: se un insegnante è preparato e conosce la pedagogia e la didattica – che non è altro che la pedagogia incarnata – qualsiasi oggetto, occasione, strumento, possibilità va bene per trasmettere del sapere. Il mio obiettivo non deve essere insegnare la tecnica del leggere e scrivere, ma soprattutto far amare il leggere e lo scrivere.

– Un aspetto che non sempre viene preso in considerazione.

– Un altro errore gravissimo della Scuola primaria, soprattutto nel primo anno, è puntare alla strumentalità della letto-scrittura e non sulla passione. Prima bisognerebbe lavorare sulla passione e sull’attrazione della letto-scrittura e solo dopo che si sono innamorati della lettura e della scrittura si potrà intervenire sull’ortografia. A quel punto saranno loro a chiedere “Maestra, dimmi se qui ci va l’accento, se qui ci vuole una doppia, se qui è meglio andare a capo”, perché a quel punto scrivere bene sarà diventato il loro desiderio. Facciamoli scrivere intervenendo in maniera non sanzionatoria, ma promuovendoli, accompagnandoli al riconoscimento dell’errore.

La meta del viaggio deve portare a far si che quei bambini rimangano a scuola più tempo possibile, che si appassionino allo studio, al voler conoscere, al sapere, al raggiungere competenze. E che questo atteggiamento non si esaurisca alla fine della scuola.

 

a cura di Donatella Fantozzi e Tania Terlizzi

Itinerari pedagogici e didattici nella scuola dell’infanzia e primaria

ETS, Polifonica, 2020

 

 

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