di Gianfranco Pecchinenda
Riflessioni a partire dal volume di Björn Larsson, Essere o non essere umani. Ripensare l’uomo tra scienza e altri saperi, Raffaello Cortina 2024
Un giorno c’è la vita.
C’è un essere umano che, interagendo con altri esseri della sua stessa specie, lavora, gioca, beve, mangia, si accoppia. Ci sono esseri umani che leggono, scrivono, vanno a teatro, in chiesa: esseri che si distraggono dalla vita. Poi, un altro giorno, qualcuno cessa di esistere, ed è la morte.
Un giorno c’è la morte.
Tutti gli esseri umani lo sanno, la conoscono, l’aspettano; è questo particolare tipo di aspettativa ciò che caratterizza gli umani veramente umani.
L’evoluzione ci ha donato uno strumento, in particolare, che ci consente di immaginare, prevedere, conoscere il tempo futuro e, con esso, di avere anche la coscienza della morte e, talvolta, il bisogno di un senso, di un significato da attribuire a tutto ciò: la vita, la morte, l’esistenza stessa.
Questo dono è il linguaggio.
Non un linguaggio generico, tuttavia, come quello che condividiamo con molti altri esseri viventi, ma un linguaggio strutturato in modo particolarmente complesso, un modo che lo scrittore e saggista svedese Björn Larsson definisce, nella sua ultima opera, Rappresentazione Simbolica Astratta.
- Scienza e conoscenza dell’Umano
Björn Larsson, oltre ad essere un romanziere di fama internazionale, è anche un riconosciuto filologo e traduttore, che da anni si dedica alla ricerca accademica. Il suo recente saggio dal titolo Essere o non essere umani, è un tentativo di presentare a una platea non necessariamente specialistica un compendio del suo pluridecennale lavoro sulla cosiddetta scienza e la conoscenza dell’essere umano, partendo dal presupposto – che considero ampiamente condivisibile – che l’ostacolo principale che ci impedisce di definire in cosa consista l’umanità dell’uomo e che cosa significhi “essere umani”, sia soprattutto l’estrema specializzazione dei saperi moderni e la proliferazione incontrollata della letteratura di settore.
Considerata la sua formazione, che lo spinge a collocare al centro delle sue tesi la questione del linguaggio, l’autore svedese ha ben chiara un’argomentazione di natura sociologica che non manca di precisare e ribadire tanto nelle pagine introduttive al volume, quanto (ripetutamente) nel corso della sua ricca dissertazione: essa riguarda il fatto – solo apparentemente banale – che il linguaggio è molto spesso fonte di grossi fraintendimenti. Tale questione è tanto più significativa quanto più si assume la piena consapevolezza che pensare e scrivere in una certa lingua non sia quasi mai “una scelta puramente espressiva”: a meno di procedere con una certa cautela, infatti, adottare una lingua e talune espressioni idiomatiche, significa automaticamente abbracciare (seppure inconsapevolmente) una certa visione del mondo e, in particolare, una certa visione dell’essere umano.
Altro presupposto della sua ricerca, è quello di provare a non cedere a talune derive scientiste che spesso caratterizzano gli studi sull’essere umano e, in particolare, quelli dedicati all’analisi di specifiche prerogative quali la coscienza, l’immaginazione, la significazione e la conoscenza.
Non avrebbe senso affrontare l’analisi di tali facoltà in termini puramente individuali – egli precisa – ovvero al di fuori di un orizzonte che consideri la coesistenza interpersonale di ogni essere umano. È a tal proposito che assume maggiore importanza la dichiarata avversione dello scrittore svedese per ogni approccio di tipo specialistico: “se l’obiettivo è approdare a una teoria realistica e globale dell’essere umano, insomma, non conviene scommettere tutto su una singola scienza: sarebbe una mossa avventata – egli scrive – almeno quanto vedersela con tutti i saperi che vertono sull’essere umano, dalla fisica e dalla biologia alle scienze umane e sociali (…). L’essere umano partecipa del mondo animale, per cui nessuna scienza, umana o naturale che sia, può venire esclusa a priori dal tentativo di capire come e a quali patti abbiamo finito per diventare quelli che siamo. Lo stesso vale per la filosofia, la teologia e la letteratura”.
Dato, però, che è assai improbabile che i due millenni di riflessione intellettuale che hanno preceduto l’avvento della scienza moderna non abbiano prodotto intuizioni utili sul comportamento e sul pensiero dell’essere umano, un altro presupposto fondamentale di questo lavoro è quello di non limitare la sua ricerca alla sola produzione “scientifica” pura, quella – per capirci – fondata sulla incontrovertibile convenzione che prescrive di evitare ogni discorso in prima persona: il pronome io è una spia di soggettività in un discorso che invece si vorrebbe oggettivo, cioè orientato a conclusioni valide per tutti, senza distinzioni, non solo per chi scrive e per chi legge. “Come regolarsi, tuttavia – egli si chiede –, quando lo studioso è al tempo stesso il soggetto e l’oggetto della ricerca, come accade a chiunque si occupi dell’essere umano? In questi casi, per naturale gravitazione, anche i vissuti personali e i sentimenti dello scienziato possono servire da indizi e acquisire un valore probante (deliri cognitivi a parte).”
- Alterità e duplicazione dell’Essere
Per riuscire a comprendere in che cosa consista l’umanità dell’uomo Larsson ritiene, insomma, che sia necessario spezzare in qualche modo il circolo vizioso che gli studiosi stessi hanno spesso edificato intorno ai loro presupposti rigidamente scientifici, per aprirsi a campi di indagine in cui anche l’analisi della soggettività possa fornire un suo utile contributo. Per Larsson, le conoscenze derivanti dalla ricerca scientifica sarebbero troppo riduzioniste e non in grado di rispondere a quelle domande di carattere esistenziale che più propriamente ci caratterizzano.
D’altronde è innegabile, come egli stesso scrive, che “quando si ragiona di essere umani, anche se in chiave puramente scientifica, descrittiva e oggettiva, è quasi impossibile tenere a bada le implicazioni e le ripercussioni di ordine etico, ideologico e politico”.
Noi tutti siamo, da questo punto di vista, un oggetto di studio molto diverso da altri fenomeni della natura fisica e organica.
Se partiamo dall’eterna e irrisolvibile dicotomia tra determinismo naturale e culturale nella definizione di ciò che distingue l’umano da tutto ciò che umano non è, notiamo che il discrimine non può mai esaurirsi nel riferimento alla biologia o ad altri elementi analizzabili in termini strettamente scientifici; c’è sempre qualcos’altro; e la questione cui è necessario fare riferimento per cogliere questa “alterità”, ha inevitabilmente a che fare con l’esperienza. “L’esperienza di un essere umano – intende far notare Larsson – è quintessenzialmente diversa da quella di un cane, di un maiale, di un pappagallo o di una scimmia. L’umanità, così intesa, ha qualcosa a che vedere con la coscienza, con l’immaginazione, con l’intelligenza, con il sapere, con il libero arbitrio, con la creatività, con la tecnologia, con l’empatia, con la moralità e con altre capacità caratteristiche dello stesso genere”.
Si tratta, dunque, di una differenza qualitativa, di un eccezionalismo umano le cui radici vanno ricercate in qualche fattore che l’autore riscontra non tanto nel linguaggio genericamente inteso, quanto in una sua ben determinata qualità, che però non necessariamente riguarda tutti gli uomini, ma solo coloro che, evolutivamente, hanno raggiunto un certo grado di umanizzazione, ovvero coloro che egli definisce gli umani umani.
Va tuttavia notato come, su questo punto, l’insistenza dell’autore sul presunto riduzionismo di taluni approcci scientifici sembrerebbe voler ignorare il fatto che già da diversi anni molti studiosi (alcuni dei quali lo stesso Larsson dimostra d’altra parte di conoscere, citandoli ripetutamente) abbiano proposto una serie di riflessioni che testimoniano con chiarezza la profondità di alcune grandi innovazioni paradigmatiche intervenute in molte discipline – dalla fisica alla chimica, dalla genetica alle neuroscienze – e, soprattutto, indicano l’avvenuto passaggio da una biologia determinista e dualista a una biologia finalmente aperta al contributo di discipline anche non necessariamente “scientifiche” e, comunque, decisamente contrarie ad ogni forma di riduzionismo.
In questo rinnovato clima che sta investendo la ricerca scientifica, insomma, Larsson pare voler ignorare l’oramai sempre più diffuso riconoscimento, anche da parte delle scienze più “dure”, del fatto che il linguaggio o il contesto sociale siano in grado di modificare la biologia dell’uomo quanto o più di un farmaco o della stessa ereditarietà genetica, e che discipline quali la sociologia, la psicologia, la biologia, l’ingegneria genetica o le neuroscienze – insieme alla letteratura o alle altre arti più in generale – non siano altro che approcci complementari per accedere all’umanità propria della nostra specie.
Chiarite le sue premesse, comunque, Larsson si preoccupa poi di collocare al centro stesso del suo discorso una distinzione teorica a suo avviso dirimente tra l’Essere umano (l’essere vivente che possiede i prerequisiti organici per poter diventare – se socializzato in modo linguisticamente adeguato – e l’Essere che egli definisce umano umano.
Ma perché, reduplicare l’aggettivo?
Da un lato – scrive Larsson – è un richiamo alla nomenclatura latina della nostra specie, Homo sapiens sapiens, l’essere capace di un doppio sapere, di una conoscenza di secondo grado; dall’altro vuol essere un sinonimo di persona, nel senso della filosofia morale, cioè designare l’essere umano in quanto soggetto e non solo in quanto oggetto o inteso come un’entità vivente di ordine biologico.
Si tratta, insomma, di introdurre una riflessione relativa a un concetto che egli ritiene essere il principale elemento in grado di determinare la realizzazione di un grado di umanità di livello superiore e, soprattutto, unico e imparagonabile con quello di qualunque altro essere vivente.
Stiamo parlando del concetto di Rappresentazione Simbolica Arbitraria (RSA).
Vediamo di cosa si tratta.
- Dalla Deissi alla Rappresentazione Simbolica Arbitraria
Prendendo spunto dalle teorie proposte da alcuni celebri studiosi dello sviluppo infantile – quali, ad esempio, Lev Vygotskij, Jerome Bruner o Michael Tomasello – in relazione all’origine delle Rappresentazioni Simboliche, l’autore sottolinea come le prime rappresentazioni mentali emergano dal fenomeno dell’attenzione referenziale congiunta, in particolare dal gesto dell’indicare, che tra gli umani sembrerebbe avere una valenza semiuniversale anche per i bambini piccolissimi.
“I neonati iniziano prestissimo a protendersi verso le cose che desiderano. Se non riescono ad afferrarle, fletteranno il busto e cercheranno (invano) di avvicinarsi all’oggetto concupito. È a questo punto, di solito, che interviene l’adulto, avvicinandolo o porgendolo al bambino. E questo allora capisce: non è indispensabile protendersi davvero, con l’intento di afferrare fisicamente, anzi è più facile ed economico stendere il braccio e sperare che un adulto venga in soccorso. Lo stadio successivo si ha quando il neonato indica un oggetto che non vuole realmente mettersi in bocca (l’opzione standard), per vedere che cosa succede. Eureka! L’adulto cerca di individuare il referente e di capire che intenzioni abbia il bambino. È nata la deissi, intesa come l’atto codificato e intersoggettivo dell’indicare.”
A questo punto si potrebbe concludere che la rappresentazione simbolica nasca come conseguenza di questi primi atti di indicazione codificata. Molto probabilmente – fa notare Larsson – nella storia dello sviluppo dell’Homo sapiens è andata proprio così e lo sviluppo ontogenetico degli individui umani pare funzioni, almeno in parte, in modo simile. Tuttavia, la questione decisiva potrebbe essere che, a differenza dell’uomo preistorico, i bambini umani nascono in ambienti dove la rappresentazione simbolica è già pienamente articolata secondo una modalità arbitraria, ovvero secondo una forma di rappresentazione in cui i simboli sono del tutto svincolati dalla cosa rappresentata e, dunque, qualunque suono o gesto può stare per qualunque altra cosa.
Insomma – prova a sintetizzare Larsson – la vera storia dell’Essere umano umano, “ha avuto inizio quando due o più dei primi sapiens hanno capito o scoperto che una cosa – qualunque cosa: un oggetto naturale, un manufatto, un suono, un gesto – poteva stare per qualunque altra cosa, farne le veci. Questa è la svolta che ha reso possibile l’autocoscienza, il libero arbitrio, l’immaginazione, il linguaggio e le altre facoltà che tendiamo ad associare all’esperienza umana.”
Questa capacità, secondo il nostro autore, oltre ad accrescere in modo radicale le possibilità di comunicazione, rendendo possibile “comunicare di” o “riferirsi a” (un oggetto, un simbolo grafico o anche un suono) realtà assenti, o di cose che non si possono indicare direttamente, aprirebbe le porte a un fenomeno rivoluzionario: gli esseri umani umani “hanno dovuto stabilire di concerto che cosa poteva fungere da simbolo di qualcos’altro, cioè concordare il significato di un suono arbitrario. E questo esigeva, a monte, la capacità di prendere decisioni condivise e di memorizzare quanto pattuito, a livello di individui e di comunità. Nasceva così una forma di interazione e memorizzazione intersoggettiva radicalmente diversa da tutte le altre. Un individuo, come è logico, non può stabilire per proprio conto quale sia il referente di un simbolo arbitrario: la Rappresentazione Simbolica Arbitraria – conclude efficacemente Larsson – può darsi solo in una chiave intersoggettiva”.
- La Realtà (umana) come costruzione sociale
A questo punto è chiaro in che senso, secondo Björn Larsson, si possa parlare della nascita di una vera e propria differenza di ordine ontologico tra la realtà condivisa da Esseri in grado di produrre e comunicare solo attraverso Rappresentazioni Simboliche vincolate spazio-temporalmente, ed Esseri in grado di svincolarsi dal tempo e dallo spazio dell’hic et nunc, grazie a forme di rappresentazione puramente arbitrarie e totalmente astratte.
Queste ultime hanno innanzitutto bisogno di essere istituzionalizzate e tramandate di generazione in generazione, seguendo un processo che la sociologia fenomenologica ha studiato in modo molto efficace, grazie ad autori quali Alfred Schütz, Peter Berger o Thomas Luckmann.
Dal momento che i simboli arbitrari si danno solo come entità intersoggettive, peraltro, impongono alla memoria collettiva dei requisiti del tutto originali (forse per questo la “parola” è sempre stata considerata “sacra”; forse per questo l’invenzione della scrittura, facilitando la memorizzazione e alleviando gli uomini dal peso della trasmissione orale del significato, ha condotto a una svolta epocale così fondamentale per la storia della nostra specie).
Ma, soprattutto, la RSA ha reso possibile una vera e propria duplicazione della realtà, costituendo una realtà umana umana percepibile ad un livello completamente distinto, astratto e totalmente svincolato dalla percezione sensoriale immediata.
Grazie alla RSA la realtà che può essere immediatamente esperibile ed accessibile mediante i sensi, diventa totalmente “altra” rispetto a quella prodotta ed esperita attraverso la mediazione dei simboli impiegati nella rappresentazione simbolica. Detto in altri termini: la RSA consente di riferirsi a entità non percepibili per mezzo dei cinque sensi e/o prive di un nesso simbolico motivato e vincolato alla realtà sensibile.
- La possibilità del dubbio
Si tratta di una questione essenziale per tutto il discorso proposto dallo studioso svedese: la possibilità di parlare di “realtà” totalmente sottratte all’esperienza sensibile, comporta l’emergere di un problema del tutto nuovo e ignoto alle altre specie viventi: la possibilità del dubbio.
I simboli arbitrari e svincolati, a partire dalla “parola” stessa, non offrono infatti alcuna garanzia intorno alla reale esistenza del referente; intorno alla “corrispondenza” tra la cosa per cui stanno e la realtà ri-presentata.
Insomma, la RSA rende possibile la domanda: esiste davvero ciò di cui si parla? Esistono davvero le cose invocate dai referenti simbolici arbitrari?
Esiste davvero la realtà?
Esiste davvero Dio?
“La rappresentazione simbolica arbitraria – scrive Larsson, alludendo ancora una volta, seppure solo implicitamente, alla sociologia fenomenologica – non garantisce di per sé l’esistenza del referente, ma per prodursi esige una dinamica decisionale di ordine intersoggettivo”.
- Don Chisciotte e la tentazione referenziale
Giungiamo così al cuore della riflessione teorica propostaci da Larsson, quella che a mio avviso sintetizza al meglio il suo approccio da saggista-scrittore al tema dei mondi di finzione.
In un prezioso saggio pubblicato intorno alla metà del Novecento, intitolato Don Chisciotte e il problema della realtà, Alfred Schütz aveva utilizzato il capolavoro di Cervantes proprio per evidenziare la centralità del tema della molteplicità dei piani di realtà (le cosiddette realtà multiple) e la questione del dubbio ontologico introdotto nel Don Chisciotte e ripreso da Larsson in riferimento ai mondi di finzione più in generale.
A ben vedere, si tratta di dirimere l’annosa questione della visione relativista della realtà, antica querelle filosofica che vede impegnata la cultura occidentale tra idealisti e realisti almeno dai tempi di Platone e Aristotele.
Nei termini proposti da Larsson, la contrapposizione si potrebbe finalmente superare definendo le idee come categorie di rappresentazioni simboliche astratte, interiorizzate e tramandate sul piano intersoggettivo.
“Le idee, i concetti e le astrazioni – egli scrive – esistono davvero, nella mente, ma non sono realtà innate o trascendenti, perché derivano da concrete ri-presentazioni della realtà tradotte in segni arbitrari, dotati di senso ma svincolati dalle immediate percezioni sensibili. Dal momento che nel mondo reale pochissimi oggetti o eventi sono esattamente identici tra loro per la forma o la sostanza, però, le categorie che se ne ricavano non corrispondono mai del tutto a specifici referenti individuali o a gruppi di referenti simili. Sono per forza di cose delle generalizzazioni, cioè delle astrazioni che possono coincidere in misura maggiore o minore con il dato di fatto concreto”.
L’errore che andiamo ripetendo da millenni – prosegue Larsson – è contrapporre due atteggiamenti di fondo: li potremmo definire il donchisciottesco e il sanchopanzesco. Il primo, è proprio di coloro che vivono in un mondo ideale fatto di simboli, finzioni e immaginazione, in cui non ci si interroga più di tanto sull’eventuale corrispondenza tra tali rappresentazioni simboliche (astratte) e la realtà dei sensi; l’altro, quello dei realisti, appartiene a coloro che fanno di tutto per rintracciare corrispondenze o addirittura coincidenze tra idee, rappresentazioni simboliche e realtà sensibile.
Bisognerebbe comprendere, invece, secondo Larsson, che entrambi gli atteggiamenti sono accomunati proprio dal fatto che siamo umani umanizzati: anzi, siamo diventati quello che siamo proprio perché abbiamo reso possibile questo dualismo e la dicotomizzazione della realtà che ne consegue. Un dualismo che condividono tanto la scienza come l’arte, la letteratura e tutte le forme di narrazione fondate sulle rappresentazioni simboliche arbitrarie.
Paradossalmente, anche la scienza stessa emerge a lungo andare dalle rappresentazioni simboliche arbitrarie. “Il suo punto di partenza – ci ricorda lo stesso Larsson – non è la conoscenza certa, o la verità, ma il dubbio. La scienza intesa come ricerca di una conoscenza attendibile ha inizio quando ci domandiamo se la realtà è davvero quella che percepiamo, quella di cui facciamo esperienza. La scienza esige la capacità di astrarsi dalla realtà immediatamente data, di prendere le distanze dall’esperienza per adottare il punto di vista di un osservatore terzo (…). In linea di principio il progetto della scienza si può descrivere come uno sforzo per colmare il divario tra la realtà da un lato e i concetti, le idee, le generalizzazioni e le astrazioni dall’altro – uno scollamento introdotto dalle ri-presentazioni simboliche arbitrarie.”
- Essere “come se”…
“Piaccia o no, gli esseri umani sono dei dualisti, sia in termini ontologici sia sul piano esistenziale, anche se non tutti sono pronti ad ammetterlo. Con l’avvento dei simboli arbitrari e dei segni che usiamo per comunicare – compendia l’autore – la realtà smette di coincidere con la percezione sensibile: reale, a questo punto, è anche ciò che le nostre percezioni significano.
È allora che nasce la finzione, l’immaginazione. Se i simboli non corrispondono per forza di cose a entità realmente esistenti, come Homo sapiens ha scoperto a un certo punto, diventa possibile utilizzarli in modo più libero e spregiudicato, come se si riferissero a una realtà esterna: formulare ipotesi, ragionare in termini di possibilità, evocare scenari congetturali o futuribili (per esempio la vita dopo la morte: ecco spiegato, forse, perché Homo sapiens inizia a inumare i defunti in forma cerimoniale) o anche solo concepire la dimensione del futuro”.
Ed è proprio a partire da questa tentazione referenziale che si dispiegano le possibilità di vivere come se esistesse una dimensione temporale sganciata dalla percezione immediata della realtà (il cosiddetto “presente”). Oppure vivere come se esistessero la mente, la coscienza, il libero arbitrio, la morale e, insomma, tutte quelle “realtà” che contraddistinguono ogni definizione dell’Essere umano in quanto dotato di un’umanità immersa in una dimensione esistenziale ontologicamente diversa da qualunque altra dimensione condivisa con tutti gli esseri viventi non umani a noi noti.
Nei capitoli finali del saggio, l’autore svedese precisa ulteriormente queste sue idee introducendo il concetto di potenziale d’umanità e mettendolo in relazione ad alcuni principi da lui ritenuti fondamentali e solo in parte legati alla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo.
La sua conclusione è quella di ribadire che Esseri umani umani non si nasce e che “l’umanità nel senso forte del termine va acquisita, sviluppata, mantenuta in essere e tramandata nell’interazione con altri esseri umani”, perché nessun significato, nessuna etica e nessuna morale sono possibili al di fuori dell’interazione e che ogni eventuale questione relativa al “senso della vita umana” può esistere solo ed esclusivamente in una realtà intersoggettiva socialmente costruita e condivisa.
Björn Larsson,
Essere o non essere umani.
Ripensare l’uomo tra scienza e altri saperi,
Raffaello Cortina 2024