intervista di Federica Biolzi
Gestire le fasi finali dell’esistenza non è cosa facile. La delicatezza del momento, gli affetti, la riservatezza, il rispetto per la persona richiedono spesso la presenza di professionisti appartenenti a differenti discipline. La medicina si occupa di questi momenti attraverso la pratica delle cure palliative il cui scopo è quello di accompagnare il malato in quelle situazioni in cui non ha più senso parlare di guarigione. Ma, proprio in questi momenti, il vocabolo cura sembra recuperare la sua accezione originaria e più umana. Si tratta di un lavoro complesso e articolato che, all’Istituto Europeo di Oncologia di Milano, viene svolto da un’equipe multidisciplinare coordinata dal dott. Vittorio Guardamagna, direttore dell’Unità di Cure Palliative e Terapia del dolore. Con lui, e con la dott.ssa Florence Didier, Psicologa e Psicoterapeuta presso la Divisione di Psiconcologia dell’Istituto, abbiamo cercato di comprendere quale ruolo possa avere, in questi attimi la gestione delle informazioni, in vari campi, che vengono scambiate col paziente e i suoi famigliari.
– Dott. Guardamagna, gli ambiti di cui si occupa affrontano problematiche legate a malattie con progressione infausta, malattie oncologiche e spesso terminali, che necessitano di trattamenti adeguati e gestiti in équipe multidisciplinari, ci può spiegare come avviene la presa in carico di queste tipologie di pazienti?
– GUARDAMAGNA: L’avvicinarsi alla fase avanzata e/o terminale di malattia, anche oncologica, spesso è un momento di difficile individuazione e previsione, per cui frequentemente lo specialista oncologo tende ad inviare i pazienti a servizi di Cure Palliative in una fase molto spesso troppo, avanzata. La segnalazione può avvenire anche da parte di altre figure professionali, quali MMG, assistenti sociali, altri specialisti ed infine per segnalazione diretta da parte dei familiari stessi.
– Dott.ssa Didier, l’Influenza ed il ruolo del caregiver per la persona affetta da malattia terminale, sono fondamentali, quali sono le metodologie che vengono adottate nei percorsi di cura in un’ottica sistemico-relazionale?
– DIDIER: La famiglia, i caregiver di riferimento sono in effetti fondamentali nel percorso di cura e nell’accompagnamento della persona ammalata. Le cure proposte dall’équipe delle cure palliative e della terapia del dolore sono quindi centrate non solo sui pazienti ma anche sulle loro famiglie. Come? si concentrano sul controllo del dolore e altri sintomi invalidanti e includono l’analisi e il sostegno dei bisogni psicosociali e spirituali in accordo ai valori, al credo e alla cultura di ogni sistema famigliare e di ogni singolo paziente.
L’obiettivo delle Cure Palliative/terapia del dolore è di anticipare, prevenire e ridurre la sofferenza in senso ampio e supportare la qualità della vita dei pazienti e delle loro famiglie.
È di fondamentale importanza il lavoro di équipe in cui vengono accolte, capite e trattate le varie componenti del sistema familiare e dell’individuo ammalato; emotive, affettive/relazionali, sociali, cognitive, comportamentali, spirituali, fisiche-funzionali,
In un’ottica sistemico-relazionale l’équipe di Cure Palliative si può definire come un gruppo operativo interdisciplinare il cui compito è il raggiungimento di obiettivi attraverso strategie condivise: il progetto comune incentrato sul paziente e i familiari.
È importante la sinergia degli interventi medico oncologo/ medico palliativista- terapista del dolore/psicologo/eventuale psichiatra di riferimento, paziente e caregiver.
Una buona comunicazione all’interno dell’équipe curante e con il paziente e il suo sistema di sostegno nettamente migliora l’aderenza del paziente alla terapia farmacologica.
Poiché la famiglia è la prima unità di assistenza per il malato, specialmente nel fine vita preso in carico a domicilio, in un contesto stressante anche la famiglia necessita di attenzione e a volte anche di cure
Il ruolo rivestito dai familiari durante l’evoluzione della malattia e le loro reazioni si ripercuotono sul malato e influenzano profondamente la sua capacità di adattamento. A sua volta, anche le reazioni del paziente hanno delle ripercussioni all’interno della famiglia, ma anche all’interno dell’équipe. Per questo diviene fondamentale non sottostimare l’importanza di nessuno degli attori coinvolti durante la fase terminale.
Il ruolo dell’équipe di cure palliative in ospedale è anche quello di aiutare il paziente e la sua famiglia a scegliere nel rispetto dei bisogni espressi dal paziente e delle sue aspettative il luogo dove il paziente morirà (a domicilio o in hospice o in ospedale); questo al fine di assicurare una continua salvaguardia dell’autonomia del paziente, nella ricerca dell’esplicita espressione delle possibili opzioni da lui ritenute come più vantaggiose e di beneficio, da considerare ed intraprendere.
Lo psicologo ha il ruolo di aiutare non solo l’ammalato m anche la famiglia ad affrontare il trauma rappresentato dalla malattia e dalla terminalità. Sostiene la famiglia nel difficile compito di “ammortizzatore” nello scontro con questa nuova realtà, fatta da sofferenza, e funge da “contenitore” delle ansie della famiglia che sono la naturale conseguenza di questo cambiamento che genera incertezze sul futuro di tutto il nucleo familiare.
La famiglia viene accompagnata nel suo duplice sforzo: da un lato preservare la propria identità e continuità verso l’esterno, dall’altro riorganizzare al suo interno i ruoli e compiti pratico/affettivi, come conseguenza della frantumazione causata dalla malattia e dai continui cambiamenti a questa collegati.
Lo psicologo aiuterà l’individuo e la famiglia a salvaguardare il proprio equilibrio interno (che sia l’ammalato stesso o un familiare/caregiver specialmente se ci sono bambini e adolescenti).
– Le cure palliative e la terapia del dolore hanno finalità comuni, ma significati diversi, come vengono introdotte al paziente ed alla famiglia che si trova coinvolta?
– GUARDAMAGNA: La definizione di Cure Palliative, secondo la legge nazionale 38/2010 e secondo le recenti definizioni fornite dalla Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), concerne il fine ultimo dei trattamenti di qualsiasi malattia caratterizzata da un’inarrestabile evoluzione e da una prognosi infausta, sia essa oncologica sia non oncologica, vale a dire il miglioramento della qualità di vita ed il supporto olistico al paziente e ai familiari nel percorso evolutivo della malattia.
Ma il concetto stesso di Cure Palliative, è tutt’oggi gravato da scarsa conoscenza, barriere ideologiche e concetti precostituiti, tabù e falsi miti, che conducono ad una errata considerazione da parte dell’opinione pubblica (come da parte degli stessi operatori sanitari), interpretandola come medicina “inutile” o, peggio, da dedicare esclusivamente negli ultimissimi giorni di vita, per cui il parlarne con familiari e pazienti è spesso complicato. Per questo Società scientifiche ed esperti internazionali sottolineano l’importanza di un intervento precoce delle équipe esperte in Cure Palliative, accanto agli altri specialisti nel percorso diagnostico-terapeutico di ogni malattia ad andamento evolutivo e a prognosi infausta, al fine, in particolare, del miglioramento della comunicazione.
Differente è l’aspetto della Terapia del Dolore, definita come l’insieme di “interventi diagnostici e terapeutici volti a individuare e applicare alle forme morbose croniche idonee e appropriate terapie farmacologiche, chirurgiche, strumentali, psicologiche e riabilitative, tra loro variamente integrate, allo scopo di elaborare idonei percorsi diagnostico-terapeutici per la soppressione e il controllo del dolore” (L. 38/2010), il cui fine ultimo è proprio il controllo di sindromi dolorose croniche in presenza di patologie evolutive, siano esse cronico-degenerative o oncologiche. Un concetto ancora poco conosciuto, ma eticamente accettato.
– Il dolore cronico spesso nel malato terminale è fonte di un deterioramento, fisico e psichico, della persona. Da un punto di vista etico come viene affrontata questa fase: è sempre necessario informare il paziente oppure si valuta, caso per caso, anche rispetto a fattori anagrafici, condizioni di salute della persona, ecc..?
– GUARDAMAGNA: Nel trattamento del dolore cronico nel malato terminale, definito da Cicely Saunders “Dolore globale” in quanto interessate, oltre alla sfera fisica, quelle spirituali, sociali e psicologiche, è fondamentale, oltre alla multidisciplinarietà, il coinvolgimento attivo di paziente e famiglia al fine di migliorare il più possibile la compliance, o aderenza, nei confronti dei trattamenti. Si va oltre quello che può essere definito un semplice “Consenso Informato”: il patto terapeutico che va stretto con paziente e familiari deve essere lineare, chiaro e condiviso in tutti i suoi aspetti. Questo permetterà al paziente di comprendere pienamente l’obiettivo di cura, di accettare le scelte terapeutiche farmacologiche spesso gravate da tabù , credenze e connotazioni negative: “se assumo morfina diventerò drogato”, “diventerò tossicodipendente”, “dormirò tutto il giorno”: anche gli effetti collaterali, se chiaramente spiegati e fatti comprendere a paziente e famiglia, verranno tollerati ed accettati senza paure.
Nelle proposte di trattamenti al fine vita, come ad esempio qualora indicato un trattamento di Sedazione Palliativa (abolizione farmacologica della coscienza al fine della riduzione, fino alla scomparsa, della percezione di un grave sintomo) a fronte della comparsa, negli ultimi giorni di vita, di un sintomo non più rispondente ad ogni trattamento scientificamente conosciuto (sintomo refrattario), la comunicazione andrà maggiormente espressa con chiarezza nei contenuti, nelle modalità e, soprattutto, negli obiettivi e quindi condivisa con il paziente stesso qualora fosse capace di intendere e di volere e, in ogni caso, con Caregivers e familiari.
– Di fronte ad una persona anziana affetta da malattia oncologica terminale, impossibilitata per le condizioni fisiche generali ad effettuare cicli di chemioterapia, quali terapie e supporti psicologico-relazionali possono essere proposti dall’équipe multidisciplinare ?
– DIDIER: A prescindere del fatto che la persona sia anziana o meno, quando l’ammalato non può più effettuare trattamenti oncologici attivi, lo psicologo in cure palliative si ritrova a collaborare strettamente con l’équipe e il paziente ne viene informato. Viene spiegato che la consulenza è strumento di connessione e di integrazione di competenze specifiche.
Il supporto psicologico s’inserisce in Oncologia non solo quando l’obiettivo è quello di sconfiggere la malattia, combattendo a fianco del paziente, ma anche quando l’obiettivo della guarigione non è più perseguibile, controllando la progressione della malattia il più a lungo possibile.
La Valutazione e il supporto psicologico si svolgono attraverso colloqui puntuali condotti col paziente e con i familiari insieme o separatamente quando è necessario coinvolgerli durante il tempo della assistenza. La Valutazione può essere la premessa per un percorso di supporto psicologico maggiormente articolato e strutturato. Il bisogno psicologico/relazionale che è alla base di questi percorsi, parte da una domanda da parte del paziente o del familiare che viene ridefinita insieme allo psicologo.
Lo psicologo fornisce un supporto per aiutare il malato a vivere il più attivamente possibile fino alla morte. A tale proposito è importante notare che è il paziente che stabilisce obiettivi e priorità.
In tal caso si passa da una medicina “del fare” a una medicina “dell’essere”, dove l’obiettivo non è più quello di sconfiggere o di lottare contro qualcosa di ineluttabile ma, se viene richiesto, di accompagnare con tutte le risorse a disposizione il paziente fino alla morte.
L’équipe rappresenta una compagnia per la strada che dovrà fare la persona verso la morte, strada lungo la quale la persona dovrà elaborare il lutto per la vita, elaborare il lutto per se stesso, la sua persona –abbandonare tutto e separarsi da tutto, sostenere la sua dipartita, valorizzare il presente, il tempo nella fase terminale, valorizzare la qualità del presente.
L’équipe medio-infermieristica, lo psicologo sostengono la persona nell’elaborazione delle varie perdite (autonomia, ruolo all’interno della famiglia, ruolo all’esterno (lavoro), ruolo nella gestione della casa), sostiene il paziente nell’elaborazione e l’accettazione del senso del limite (associato alla frustrazione/rabbia), aiuta il paziente a superare il senso di impotenza e trasformarlo (obiettivi realistici).
– Con la Legge 38/2010 è stata promossa una maggiore attenzione al problema della sofferenza inutile e una migliore appropriatezza prescrittiva. Quali terapie vengono oggi promosse rispetto ad un passato in cui i farmaci oppiacei rimangono solo una “buona prassi”?
– GUARDAMAGNA: Le conoscenze scientifiche in campo di Cure Palliative e di Terapia del dolore negli ultimi anni hanno beneficiato di un notevole impulso grazie anche all’interesse di ricercatori motivati e di lungimiranti aziende farmaceutiche; ciò ha permesso di disporre oggi, per il trattamento dei sintomi che caratterizzano la fase avanzata o terminale di una malattia evolutiva oncologica o degenerativa, di trattamenti farmacologici e di presidi e device medici moderni, sicuri ed efficaci (si pensi alla totale compatibilità con diagnostica di immagini di risonanza magnetica che caratterizza la maggior parte dei moderni sistemi totalmente impiantabili per il controllo del dolore cronico o nel paziente con cancro) e dotati di un alto profilo di efficacia/sicurezza, che si affiancano ai canonici trattamenti con oppiacei, che rivestono ancora oggi un’importanza capitale nel trattamento di firme dolorose complesse e croniche. Altri trattamenti farmacologici innovativi, quale la cannabis terapeutica, sono oggi oggetto di ricerca e studio a livello interazionale.
– Ci può spiegare meglio la proprietà del THC e dei suoi dosaggi nell’impiego della cannabis terapeutica e quali sono le controindicazioni?
– GUARDAMAGNA: La cannabis è una pianta con molteplici attività terapeutiche intrinseche, grazie alla presenza di numerose molecole attive con interessanti proprietà, in essa contenute. Queste molecole, tra le quali i cannabinoidi (i principali sono il THC, Tetraidrocannabinolo ed il CBD, cannabidiolo) e altri derivati (es. terpeni e flavonoidi), possono essere utilizzate per il trattamento palliativo e sintomatico di malattie incurabili, per portare sollievo a malati terminali o nella terapia del dolore cronico come terapia aggiuntiva o alternativa agli oppiacei e fornire una valida opzione rispetto alle cure attuali che in diversi casi si sono rivelate poco efficaci, causa di effetti indesiderati e onerose per il Sistema Sanitario Nazionale, come nel caso dell’epilessia infantile e per la SLA.
La Cannabis terapeutica è quella che soddisfa gli standard qualitativi per l’uso del prodotto come farmaco. Viene quindi prodotta secondo normative farmaceutiche: ogni varietà presenta un profilo standardizzato di Principi Attivi Farmaceuti (API) e livelli di inquinanti (quali muffe, batteri, metalli pesanti o altri) sicuri per l’inalazione nei polmoni.
Attualmente la consapevolezza dell’efficacia e i bassi livelli di assuefazione riscontrati, al contrario degli oppiacei, è basata sulle evidenze precliniche riportate in letteratura scientifica internazionale sia in modelli in vitro che in vivo di patologia, ma soprattutto sul feedback dei pazienti.
Le differenti tipologie di preparati disponibili in commercio attraverso canali legali (farmacie galeniche) differiscono tra loro per il titolo (percentuale di contenuto in peso) dei due cannabinoidi principali, CBD ed, in particolare, THC, molecola psicoattiva (variabilità da <1% in peso a 22% in peso). Tali preparati vengono dispensati su richiesta del medico curante, sia esso Medico di Medicina Generale sia Specialista, in formulazioni consentite da normative ministeriali, vale a dire estrazioni in olio (per assunzione orale o sublinguale) e cartine per vaporizzazione (è vietato, ovviamente, il fumo).
Per ciò che concerne le controindicazioni, le principali sono: presenza di storia personale o di un membro stretto della famiglia di schizofrenia, di altri disturbi psicotici, di disturbo di personalità grave o di altro disturbo psichiatrico significativo; storia nota o sospetta di abuso di sostanze/disturbo da dipendenza; allergia nota o sospetta a cannabinoidi; infarto miocardico o cardiopatia clinicamente significativa; insufficienza renale e/o epatica significativa; stato di gravidanza o allattamento. I più comuni effetti collaterali, dovuti in particolare all’utilizzo di cannabinoidi per un uso ludico, a dosaggi ben più alti rispetto a quelli terapeutici, includono tachicardia, ipersalivazione, sonnolenza, comparsa di formicolii, alterazioni della funzionalità intestinale, euforia e effetti psicostimolanti di nuova insorgenza. Vanno attentamente monitorati in particolare durante la fase di titolazione, vale a dire la ricerca del corretto dosaggio, che risulta essere notevolmente individualizzato e non standardizzabile.
– E quando ci sono figli piccoli o adolescenti? Che cosa fare? Cosa dire ai figli di un genitore gravemente ammalato?
– DIDIER: Non è facile parlare con i propri figli quando ci si ammala o quando la malattia si aggrava o peggio ancora nella fase terminale della malattia. Ma spesso i figli, anche molto piccoli, intuiscono che qualcosa non va in famiglia. Scegliere di tacere completamente potrebbe indurli a pensare che ci sia un argomento troppo spaventoso da affrontare.
I figli, siano bambini piccoli o adolescenti, hanno il diritto di conoscere ciò che accade in famiglia per poter dare un senso ai cambiamenti che avvengono nella loro e nella vostra quotidianità, e per poter partecipare a modo loro, con le loro emozioni e i loro vissuti. Sebbene abbiano bisogno di moltissimo sostegno e spiegazioni, i figli, anche i bambini piccoli, devono essere coinvolti e sostenuti dagli adulti.
I figli capiscono che il genitore non sta bene, ma se non sanno perché possono sperimentare intensi vissuti di colpa e attribuire a loro stessi la causa del malessere, “la mamma non sta bene perché io l’ho fatta arrabbiare”. Inoltre, potrebbero sentirsi isolati e non abbastanza importanti da essere inclusi in una “questione di famiglia”. È importante far capire ai figli che si può parlare anche di malattia in famiglia, che possono chiedere senza timore, insegnando loro a condividere e a gestire non soltanto le emozioni positive ma anche quelle negative, derivate da un momento di vita difficile.
Parlare con i bambini o gli adolescenti permette anche di evitare l’esperienza traumatica di sapere la verità da qualcun altro, ottenendo informazioni errate da altre fonti poco rassicuranti.
Gli adulti che si trovano a gestire situazioni stressanti (dolore, avanzamento della malattia, il pre-lutto e il lutto) con i figli sono spesso addolorati per l’evento, impreparati e preoccupati di proteggere il figlio da tanto dolore. In situazioni famigliari molto tese i bambini, gli adolescenti vengono talvolta esclusi dal processo in un tentativo animato da buone intenzioni di “proteggerli”.
Come gli adulti anche i bambini, gli adolescenti hanno bisogno dell’opportunità di essere ascoltati e compresi e dovrebbero essere integrati il più possibile nel gruppo familiare centrale.