di Paolo Del Signore
La rottura del legame che ci unisce in vita pare sempre essere qualcosa di simile alla recisione di una fune, che non avviene in un unico momento. Essa si offre al taglio dell’invisibile ma inesorabile falce della morte sfilacciandosi, facendo ruotare la fune su se stessa ed infine cedendo. Dell’altro capo noi osserviamo solo le spoglia inerti ma a noi rimane altro: non abbiamo un singolo filo reciso di netto, ma al suo posto osserviamo una serie molto numerosa di cordicelle sottili ma robuste, che formavano il legame e lo univano in modo indissolubile. In noi rimane quel capo della fune, che impiega un lungo tempo per cadere a terra. Possiamo osservarla come in un rallenty cadere lentamente, scontrarsi con il suolo, effettuare un lieve rimbalzo, per poi quietarsi per sempre. Toccherà infine a noi avere il coraggio di prenderla nuovamente in mano e congiungerla alle altre esperienze che fanno di noi ciò che siamo.
Essendo un fotografo la mia strada mi ha portato ad esprimermi principalmente attraverso le immagini, non potendo fare a meno poi di cercare di riunire in un unico filo cose che all’apparenza apparivano slegate tra loro. La morte di mia madre ha riportato alla luce tantissime situazioni che pensavo fossero risolte, ma che invece erano solamente lì, pronte a riaffiorare.
Qualche tempo prima della sua morte avevo sentito in me la necessità di interrogare la casa in cui avevo vissuto da ragazzo, cercando di trarne in parte un ritratto di lei. Erano fotografie premonitrici, fatte quando la sua malattia la costringeva a letto. Una delle cose che più mi rattristava era il non poter stare a parlare con lei sul divano che aveva da quando ero ragazzo. Il cuscino del divano che occupavo di solito era infossato dal peso del mio corpo, mentre sulla poltrona che in genere lei occupava c’era solo il segno dello schienale, ma il cuscino era perfettamente a posto, segno della sua assenza. Da ragazzo dovetti convincerla a farmi usare quel divano, sempre perfetto ed in attesa di chissà quali ospiti. Da uomo invece ero contento di poterlo vivere insieme a lei, proprio lei che decenni prima mi diceva di non usarlo.
Uno degli ultimi suoi desideri, purtroppo non realizzabili per il lungo viaggio necessario, era qullo di poter vedere il centro ippico frequentato assiduamente da una mia cugina a noi molto cara. Dopo la sua morte andammo lì con la mia famiglia, cercai quindi di riprendere il luogo, come se lo dovessi far vedere a mia madre. Ma mentre scattavo mi accorgevo che mi soffermavo su ciò che era nella mia mente presente come metafora del dolore da lei sofferto. Gli ostacoli da saltare erano altro, i paracolpi delle scuderie erano altro, la staccionata candidissima era altro, i ferri appoggiati al box erano altro. Tutto si trasformava.
Il cavallo che mi guardava senza paura mi faceva viaggiare attraverso uno dei suoi occhi. In camera oscura mi accorsi che dentro quell’occhio, scuro e lucente solo del riflesso della luce che lo colpiva, c’era la nostra realtà umana. Ed il mio cercare qualcosa dentro quell’occhio, ingrandendo sempre più il medesimo fotogramma, mi dimostrava che non ero pronto ancora a lasciare andare.
In una notte in cui piansi lacrime amare, finalmente capii che i due progetti erano solo un unico racconto. L’indomani caddi di nuovo nella disperazione e nel pianto, proprio mentre stavo presentando il lavoro ad una fotolettura all’interno di un concorso. Non so cosa avrei fatto io al posto di quelle persone che stavano visionando il mio lavoro, avendo davanti a loro un uomo di quasi cinquant’anni che piangeva come un bimbo. Ma credo che sia giusto così, quel pianto era necessario, era giusto, era dovuto. Quelle lacrime che non avevo espresso nei giorni della morte di mia madre ora uscivano. Già questo è un immenso dono che la fotografia mi ha fatto, concedendomi di esprimermi, di riconoscermi, di rivelarmi per come sono, anche se di me ho spesso io stesso imbarazzo. Meglio così.
Dopo quasi un altro anno e mezzo dalla morte di mia madre sgomberammo la sua casa in vista di una vendita. Uno o due giorni prima di questo sgombero passai lì e la fotografai nuovamente, questa volta con una fotocamera digitale. Volevo infatti ricordare gli spazi vuoti ma pieni di mobili che avevamo lasciato intatti per molto tempo. Ero più sereno e decisi di soffermarmi su alcuni particolari che mi richiamavano alla mente mia madre. Ho unito proprio in questi giorni in cui scrivo questa ultima parte di scatti nei due precedenti lavori.
Non credo che il dolore cesserà facilmente, né credo sia giusto che accada. Ritengo che il nostro dovere verso noi stessi sia la sincerità, unita però all’accoglimento di ciò che siamo.