EXAGERE RIVISTA - Luglio - Agosto - Settembre 2024, n. 7-8-9 anno IX - ISSN 2531-7334

Le aberrazioni della scuola fondata sul principio manageriale del teaching by the test . Intervista a Philippe Meirieu

di Gianfranco Brevetto

(ITA/FRA, originale in fondo)

L’Armando Editore, per la collana Ricerche educative e politiche formative, ha reso disponibile al pubblico italiano il libro Una scuola per l’emancipazione di Philippe Meirieu , tradotto e curato da Enrico Bottero. Apparso in Francia con il titolo La riposte, che sta per replica, contrattacco, porta, in quella versione,  un sottotitolo altrettanto significativo, per farla finita con gli specchietti delle allodole. Il professor Meirieu, protagonista di prim’ordine nelle vicende del sistema scolastico transalpino, ci ha gentilmente concesso questa intervista che ci fornisce spunti e stimoli nel dibattito, mai sopito, sul sistema scolastico nel nostro paese.

– Nell’introduzione del suo libro , scritto con Enrico Bottero, lei sottolinea la distanza tra la riflessione pedagogica e le politiche educative in Italia e in Francia. Cosa è successo e cosa sta succedendo oggi in Italia e in Francia?

– In Francia la scuola pubblica è stata “fondata” quando Jules Ferry, nel 1882-1883, approvò le “leggi laiche”, rendendo l’istruzione obbligatoria e la scuola comunale e  gratuita per tutti i ragazzi. Questa fondazione è stata accompagnata da un grande lavoro pedagogico svolto da filosofi e pedagogisti sotto la direzione di Ferdinand Buisson, poi insignito del Premio Nobel per la Pace. L’obiettivo era quello di creare una scuola capace di costruire l’unità nazionale facendo affidamento sulla conoscenza (che unisce le persone, perché può essere condivisa da tutti) e non sulle credenze (che le dividono, perché le credenze  sono diverse e non conciliabili tra loro). Questo progetto pedagogico può essere oggetto di  discussione, ma resta il fatto che comunque esisteva. Dopo la prima guerra mondiale, il movimento della Educazione Nuova si è coagulato attorno al motto “mai più guerra”, con l’ambizione di educare alla pace e alla fraternità. I suoi promotori non erano sempre d’accordo tra loro, ma avevano una volontà comune. In Francia il governo del Fronte Popolare (1936) cercò di attuare tutto questo prima di essere spazzato via dall’occupazione nazista. Con la Liberazione  sono rinate   grandi speranze. Negli anni Sessanta sono sorte iniziative emblematiche, come quella di Lorenzo Milani in Italia. In Occidente sono nati anche grandi progetti politici con l’obiettivo di democratizzare la scuola.  Questa democratizzazione, tuttavia, si è realizzata in senso sostanzialmente quantitativo, sotto la pressione della società e senza tener conto dei fattori sociali, psicologici e pedagogici. Una maggiore attenzione non solo avrebbe permesso di accogliere i bambini provenienti dalla classe operaia, ma anche di far in modo che avessero un reale successo formativo. Poi, a partire dagli anni 2000, sono arrivate le valutazioni internazionali come OCSE PISA, con l’introduzione dell'”obbligo di raggiungere risultati” e dell’ideologia neoliberista, secondo la quale solo grazie alla concorrenza è possibile migliorare risultati stessi. Gli educatori erano già emarginati prima, ma con l’affermarsi di questa ideologia sono stati completamente esclusi. Essi, infatti, promuovono valori non facilmente quantificabili, come la cooperazione o l’emancipazione, incarnano un paradigma educativo che non riduce gli obiettivi della scuola a ciò che è strettamente comparabile e l’attività scolastica a un “percorso a ostacoli”. Per questo motivo, gli educatori chiedono che la politica torni a pensare alla scuola come a un’istituzione che promuove la solidarietà. La questione della scuola interessa tutta la società. Potranno finalmente essere ascoltati?

– Lei parla spesso di esperienze pedagogiche di rottura e di rinnovamento, prima fra tutte quella di Lorenzo Milani. Perché queste esperienze non sono riuscite a portare un profondo cambiamento nel sistema educativo?

– L’esperienza di Lorenzo Milani è esemplare. Per me la sua scoperta  è stata un momento decisivo. Quando ho iniziato ad insegnare, ho letto la Lettera a una professoressa: è stato uno shock! I ragazzi di Barbiana hanno scritto che compito degli insegnanti era quello di far sì che tutti gli alunni avessero successo in tutte le materie. Non ci si doveva accontentare di osservare coloro che riuscivano a  lavorare da soli escludendo gli altri con il pretesto che non erano dotati o che non lavoravano abbastanza. Allora mi sono reso conto che alla base di ogni pedagogia c’è il principio dell’educabilità: dobbiamo partire dal postulato che tutti possono avere un successo formativo. Non dobbiamo mai rassegnarci all’esclusione. L’educabilità non è un “fatto scientifico”, è una convinzione fondativa, quella che spinge ad andare alla ricerca di nuovi metodi verso una maggiore uguaglianza e solidarietà. La sfida dell’educabilità è alla base di ogni pedagogia autenticamente progressista. È questa la sfida che ha ispirato Lorenzo Milani.

Non è affatto certo, tuttavia, che la società nel suo complesso stia facendo la stessa scommessa. Per la nostra società, l’insuccesso scolastico non è veramente un problema, anzi, è la soluzione al problema della selezione. Quando non è più l’origine sociale a  selezionare del tutto le élite, ci pensa  l’insuccesso scolastico a svolgere questo ruolo (più o meno nello stesso modo, ma con un criterio apparente di giustizia, quello delle “pari opportunità”). A tutti  va bene questa scelta perché aiuta a riprodurre le gerarchie sociali ed economiche. Scommettere sull’educabilità di tutti, come voleva Lorenzo Milani, significa rifiutare tutto questo. Non è solo una scelta educativa, è una scelta sociale, una scelta politica, nel senso più nobile del termine. Una scelta che non abbiamo ancora fatto.

– Oggi ci si pone il problema della scuola nell’era delle nuove tecnologie e dei social network. Con tutto questo, si riduce il tempo per la riflessione e l’approfondimento delle conoscenze. Inoltre, su questo tema spesso andiamo avanti conslogan. Quali sono, secondo lei, i rischi concreti?

Di per sé il digitale non è né buono né cattivo. Per riprendere  Bernard Stiegler, possiamo dire che è uno strumento, un pharmakon, come dicevano i greci. A seconda della dose e dell’uso, il  pharmakon può curare o uccidere. Può essere un valido aiuto didattico, in particolare per migliorare il controllo individuale e programmare esercizi adatti a ciascuno. Può essere utilizzato anche nel contesto di un’ economia contributiva, quella  in cui lo scambio di conoscenze è gratuito. Tuttavia, è chiaro che la tecnologia digitale è oggi in gran parte monopolizzata dalle GAFAM (acronimo che sta per Google, Amazon, Facebook, Apple, Microsoft, ndr.), con il grave rischio di un uso interamente a vantaggio della finanza, a beneficio di pochi e di coloro che saranno in grado di pagare. Inoltre, questo digitale è dominato dal tracciamento (che fa di ogni utente un obiettivo  degli inserzionisti) e dall’immediatezza (bisogna reagire molto rapidamente senza perdere tempo a pensare). Siamo all’opposto degli obiettivi dell’educazione. Nell’educazione dobbiamo permettere a ciascuno di scoprire nuovi e insospettabili orizzonti (l’esatto opposto di quello che succede con i GAFAM, che ci propongono solo ciò a cui abbiamo concesso il nostro gradimento con un “mi pace”). Nell’educazione dobbiamo concederci il tempo per pensare, confrontare, documentare, discutere, esercitare la nostra mente critica e non reagire sulla spinta dell’urgenza (l’opposto della reazione pulsionale immediata promossa dai media tecnologici commerciali). Temo che, nonostante gli sforzi reali di molti insegnanti, l’uso prevalente del digitale in educazione sia individuale e programmato, a scapito degli sforzi per la costruzione di un collettivo e della scoperta di ciò che è comune e unisce. Queste ultime sono le sfide essenziali per la costruzione di una cultura civile.

– Nel suo libro Una scuola per l’emancipazione, a proposito dei sistemi di valutazione, lei scrive: “Le classificazioni internazionali dettano la loro legge: la scuola deve preparare gli studenti a sostenere gli esami e gli insegnanti sono soprattutto al servizio di questo obiettivo. L’educazione basata sulle prove non si può mettere in discussione”. Perché il modello manageriale è in contrasto con la pedagogia?

– Il modello manageriale fa riferimento al paradigma della “scuola efficace”, efficace per il successo di test e per le valutazioni standardizzate. Siamo ben consapevoli delle gravi aberrazioni prodotte da questo fenomeno: la pressione valutativa dei manager impone che si insegni solo di ciò che sarà valutato dai test. È ciò che gli anglosassoni chiamano “teaching by the test”. Le conseguenze sono gravi e numerose: sono trascurate discipline essenziali per lo sviluppo del soggetto (ad esempio, le attività artistiche); si preferisce l’apprendimento di procedure rispetto all’apprendimento culturale; non viene affrontato il problema di come promuovere apprendimenti a  medio e lungo termine, al di là dei test; infine, l’esigenza di costruire un collettivo viene trascurata a favore di dell’apprendimento di performance. A lungo termine, c’è anche il rischio che gli insegnanti vengano valutati sulla base dei punteggi raggiunti dai loro studenti, il che sarebbe una catastrofe per la  pedagogia.

– Oggi stiamo vivendo un lungo periodo di chiusura delle scuole a causa della pandemia di coronavirus. Dove funziona, la tecnologia digitale sembra essere la soluzione per insegnare in questa situazione eccezionale. Secondo lei, è stata persa un’opportunità, e se sì, perché?

– La situazione è talmente eccezionale e imprevista che è difficile dire a posteriori ciò che si sarebbe dovuto fare. Questa situazione rivela comunque le carenze dei nostri sistemi educativi, perché non erano preparati ad affrontarla. Essa ha messo in evidenza le grandi disuguaglianze sociali  e tra le famiglie. Le disuguaglianze hanno un ruolo nel successo educativo e contro di esse  non abbiamo agito a sufficienza. La nuova situazione rivela in modo palmare le ingiustizie prodotte dall’introduzione della concorrenza tra le scuole e dalla concorrenza tra l’istituzione scuola e le aziende private che speculano sull’angoscia delle famiglie per ottenere un profitto. Essa rivela anche l’assenza di un’adeguata formazione pedagogica degli insegnanti, che non sempre sono in grado di vedere le sfide  educative con un’ottica che vada al di là della semplice distribuzione dei corsi di insegnamento e della somministrazione di esercitazioni. Questa situazione rivela anche che nei nostri sistemi educativi la cooperazione e la solidarietà non hanno il posto che meriterebbero. C’è da sperare che si possa trarre la giusta lezione dal periodo drammatico che stiamo vivendo e che si possa cambiare rotta. Non è ancora finita!

(traduzione di Enrico Bottero)

Philippe Meirieu

Una scuola per l’emancipazione

(a cura di Enrico Bottero)

Armando Editore, 2020

***

(versione originale)

– Dans l’introduction de votre ouvrage (écrite avec Enrico Bottero) vous soulignez la distance entre la réflexion pédagogique et les politiques éducatives menées en Italie et en France. Que s’est-il passé et que se passe-t-il en Italie et en France aujourd’hui au sujet de ses politiques?

– En France, l’Ecole publique a fait l’objet d’une véritable « fondation » au moment où Jules Ferry, en 1882-1883, a fait voter les « lois laïques », rendant l’instruction obligatoire et l’école communale gratuite pour tous les enfants. Cette création fut accompagnée d’un travail pédagogique exceptionnel mené par des philosophes et des pédagogues sous la direction de Ferdinand Buisson, qui fut ensuite prix Nobel de la Paix. Il s’agissait de créer une école capable de construire l’unité nationale en s’appuyant sur les connaissances (qui rassemblent car elles sont partageables par tous) et non sur les croyances (qui divisent en groupes antagonistes)… On peut discuter ce projet pédagogique, mais il y en avait un. Après la Première Guerre mondiale, le mouvement de l’Éducation nouvelle s’est construit autour du « Plus jamais ça » et de l’ambition d’une éducation à la paix et à la fraternité : ses promoteurs n’étaient pas toujours d’accord entre eux, mais ils avaient une volonté commune que le gouvernement du Front Populaire (1936) a tenté, en France, de mettre en œuvre, avant d’être balayé au moment de l’Occupation. À la Libération, on a vu, aussi, naître de grands espoirs puis, dans les années 1960 ont émergé des initiatives emblématiques comme celle de Lorenzo Milani en Italie. On a vu aussi, en Occident, de grands projets politiques naître autour de la démocratisation de l’école.

Mais, cette démocratisation s’est effectuée en termes essentiellement quantitatifs, sous la pression sociale et sans vraiment intégrer les données sociologiques, psychologiques et pédagogiques qui auraient permis, non seulement d’accueillir les enfants des milieux populaires, mais aussi de les faire réussir. Puis sont arrivées, depuis les années 2000, les évaluations internationales comme PISA, avec l’introduction de « l’obligation de résultat » et l’idéologie néolibérale selon laquelle seule la concurrence permet d’améliorer les résultats. Les pédagogues étaient déjà marginaux, mais, avec cette idéologie, ils furent mis à l’écart presque complètement : en effet, ils promeuvent des valeurs qui ne sont pas facilement quantifiables comme la coopération ou l’émancipation. Ils incarnent un paradigme éducatif qui ne réduit pas les objectifs de l’école à ce qui est strictement comparable et réduit l’activité scolaire à un « parcours du combattant ». C’est pourquoi les pédagogues réclament que les politiques réinvestissent l’école comme une question de société et en fassent une institution pour promouvoir la solidarité. Puissent-ils être, enfin, entendus ?

– Vous parlez souvent d’expériences pédagogiques de rupture et rénovation, tout d’abord celle de Lorenzo Milani. Pourquoi n’ont-ils pas réussi à changer en profondeur le changement du système éducatif ?

– L’expérience de Lorenzo Milani est exemplaire. Sa découverte fut, pour moi déterminante. Quand je débutais dans l’enseignement, j’ai lu la Lettre à une maîtresse d’école : ce fut un choc ! Les enfants de Barbiana écrivaient que la tâche des enseignants était de « faire réussir tous les élèves dans toutes les matières » plutôt que de se contenter de regarder travailler ceux qui travailleraient sans eux et d’écarter les autres au prétexte qu’ils n’étaient pas doués ou pas assez travailleurs. J’ai pris conscience ainsi qu’au fondement de toute pédagogie, il y a le principe d’éducabilité : il faut postuler que tout le monde peut réussir et on ne doit jamais se résigner à l’exclusion. L’éducabilité n’est pas un « fait scientifique », c’est une conviction fondatrice qui permet de chercher de nouvelles méthodes et d’aller vers toujours plus d’égalité et de solidarité. Le pari de l’éducabilité est à la source de toute pédagogie authentiquement progressiste et c’est ce pari qui animait Lorenzo Milani…

Mais, il n’est pas certain, en revanche, que la société tout entière fasse le même pari. Pour notre société, l’échec scolaire n’est pas vraiment un problème, c’est une solution au problème de la sélection. Quand l’héritage ne sélectionne plus complètement les élites dirigeantes, c’est l’échec scolaire qui s’en charge (sur les mêmes bases à peu près, mais avec une apparence de justice, au nom de « l’égalité des chances »). Et nous nous accommodons parfaitement de cela parce que cela permet de pérenniser les hiérarchies sociales et économiques. Faire le pari de l’éducabilité pour toutes et tous, comme Lorenzo Milani, c’est refuser cela. Ce n’est pas seulement un choix pédagogique, c’est un choix de société, un choix politique, au sens le plus noble du terme. Et un choix que nous n’avons pas encore fait.

– Vous posez le problème de l’école à l’ère des nouvelles technologies et des réseaux sociaux : avec tout cela, les temps de réflexion et d’approfondissement des connaissances sont réduits. En plus, sur ce sujet on avance par slogans. Quels sont les risques concrets selon vous?

– Le numérique n’est ni bon, ni mauvais en soi. Selon la formule de Bernard Stiegler, c’est un outil, un pharmakon comme disaient les Grecs, qui peut, selon la dose et l’usage, soigner ou tuer. Le numérique peut être un auxiliaire précieux pour l’enseignement, en particulier pour améliorer le suivi individuel, programmer des exercices adaptés à chacune et à chacun. Il peut aussi être utilisé dans le cadre d’une économie contributive où les échanges de savoirs sont régis par la gratuité….

Mais on voit bien que le numérique est aujourd’hui très largement monopolisé par les GAFAM, avec le risque grave d’un usage entièrement financiarisé, au profit de quelques-uns et pour ceux qui pourront payer. De plus, ce numérique est dominé par le double souci du traçage (qui fait de chaque utilisateur un cœur de cible des publicitaires) et de l’immédiateté (il faut réagir très vite sans prendre le temps de réfléchir). Tout cela est à l’opposé des objectifs de l’éducation : en éducation, on doit permettre à chacune et chacun de découvrir de nouveaux horizons insoupçonnés (tout le contraire de ce qui se passe avec les GAFAM où l’on ne cesse de vous recommander ce que vous avez déjà utilisé et aimé), on doit prendre le temps de réfléchir, comparer, se documenter, discuter, exercer son esprit critique et non réagir dans l’urgence (à l’inverse de la réaction pulsionnelle immédiate promue par le numérique commercial). Et puis, je crains que, malgré les efforts réels de beaucoup d’enseignants, l’usage dominant du numérique éducatif soit individuel et programmatique, au détriment de la construction du collectif et de la découverte du commun qui sont, à mes yeux, des enjeux de civilisation essentiels.

– Dans votre livre, au sujet des systèmes d’évaluation vous écrivez: « Les classifications internationales dictent leur loi: l’école doit préparer les élèves à passer les tests et les enseignants sont avant tout au service de cet objectif. L’evidence based education ne se discute pas ». Pourquoi le modèle managérial est il contraire à la pédagogie comme vous la pensez ?

– Le modèle managérial est subordonné au paradigme de « l’école efficace » : mais efficace pour la réussite des tests et des évaluations standardisés. On connaît bien les dérives graves de ce phénomène : la pression évaluative des managers aboutit à ce que l’on n’enseigne plus que ce qui est évalué par les tests. C’est ce que les Anglo-Saxons nomment « teaching by the tests ». Les conséquences de cela sont nombreuses et graves : on néglige certaines disciplines essentielles pour le développement du sujet (les activités artistiques, par exemple) ; on privilégie les apprentissages de procédures au détriment des apprentissages culturels ; on ne se préoccupe pas de la question du transfert des acquisitions à moyen et long terme, au-delà des tests ; et, enfin, on évacue le collectif au profit des performances strictement individuelles…. À terme, il y a aussi, bien sûr, le risque d’une évaluation des enseignants sur la seule base de la réussite aux tests de leurs élèves, ce qui serait pédagogiquement catastrophique.

– Aujourd’hui il y a une longue période de fermeture des écoles à cause de la pandémie du coronavirus. La technologie, là où elle fonctionne, semble être la solution pour faire la classe dans cette situation exceptionnelle. À votre avis, on a manqué une occasion et, si oui, pourquoi ?

– La situation est tellement exceptionnelle et imprévue qu’il est difficile de légiférer a posteriori sur ce qu’il aurait fallu faire, mais cette situation révèle les défauts de nos systèmes éducatifs qui n’étaient pas préparés à y faire face. Elle révèle les terribles inégalités familiales et sociales qui jouent dans la réussite scolaire et contre lesquelles nous ne nous sommes pas assez battus. Elle révèle les injustices créées par la concurrence entre les établissements, ainsi que par la concurrence entre l’institution scolaire et les officines privées qui spéculent sur l’angoisse des familles pour faire des bénéfices. Elle révèle le déficit de formation proprement pédagogique des enseignants qui ne sont pas toujours en mesure de voir les enjeux éducatifs au-delà de la simple distribution de cours et d’exercices. Elle révèle que la coopération et la solidarité n’ont pas la place qui conviendrait au sein de nos systèmes éducatifs… Il faut espérer que nous saurons titrer les leçons de cette période dramatique pour changer de cap. Mais rien n’est joué !

 

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