EXAGERE RIVISTA - Luglio - Agosto - Settembre 2024, n. 7-8-9 anno IX - ISSN 2531-7334

Le mosche: il delitto e la decomposizione della verità. Intervista a Emiliano Ereddia

di Gianfranco Brevetto

Le mosche sono spettatrici, in una Roma dai tratti gotici, di un delitto efferato. Le indagini appaiono il simulacro di una giustizia che mette sotto accusa se stessa. Emiliano Ereddia, scrittore, sceneggiatore e autore televisivo, ci presenta il suo nuovo romanzo noir: un’attenta analisi della realtà nelle sue mille verità e un atto di accusa verso un sistema sempre più incomprensibile.

– Con il tuo avvincente racconto ci troviamo immersi in una Roma dai tratti oscuri, inquietanti, in cui si muovono personaggi dai tratti altrettanto fluidi e che attraggono proprio per questa loro apparente imprevedibilità. Perché Roma, questa Roma, è l’ambientazione giusta per il tuo noir?

– Roma è una scelta per il semplice fatto biografico, vivo a Roma e, per un periodo, ho abitato proprio in quel quartiere dove è ambientato il romanzo. Io stesso mi sentivo l’agente inquinante in quella periferia in fase di gentrificazione. Questo, evidentemente, crea dei conflitti, dei contrasti, dei cortocircuiti che mi interessava raccontare. Mettere in questo quartiere popolare una persona come la figlia di un ambasciatore, e da lì cominciare a raccontare una storia complessa, multilivello, mi affascinava. Sono interessato ad una letteratura della complessità, mi piace scomporre il reale e cercare di fare un racconto il più ricco possibile. In questo caso, l’oggetto della scomposizione era la verità che sta dietro un omicidio e l’articolazione di questa verità in tante sfaccettature, come la cronaca, le ipotesi della polizia, ecc. Per questo Roma, città complessa in sé, ne è stato il luogo naturale di ambientazione. Roma, per la sua storia millenaria e per le sue presenze, è una città ricca di fantasmi.

– Il titolo del tuo libro non passa inosservato. L’incipit è telegrafico e s’imprime nella mente del lettore. Occorre notare che le mosche, gli insetti, sono variamente presenti in vari componimenti letterari, una sorta leitmotiv, sotterraneo, che sembra attraversare, soprattutto nel novecento, una parte della produzione letteraria, in primis europea. Cosa è questa mosca avida che “è ma non esiste”?  

– La mosca, in senso metaforico, somiglia a quella narrata nel Signore delle mosche. Amo citare la frase di William Golding che dice che l’uomo produce il male come le api il miele. Per me le mosche sono anche, visto che parliamo di periferia, quegli insetti che si muovono nella visione periferica del nostro campo visivo e non sono mai al centro della scena. Così anche i miei personaggi, non sono protagonisti sotto i riflettori, sono mosche. Cercano di sopravvivere, come le mosche che, quando vivono in mezzo a noi, producono escrementi, ci depongono le uova addosso. I miei personaggi fanno lo stesso, anche se in modo candido, non necessariamente sono delle persone malvage, sono come tutti noi. Sono mossi da un’etica, che di solito è il tornaconto personale. Nella mia personale ricerca di scomposizione della verità, le mosche contribuiscono a portare il loro filamento in un terreno nel quale, spesso, restano impigliate. Ecco, assumere il punto di vista delle mosche è per me il gioco letterario all’interno del romanzo.

– L’ incipit, dicevo, colpisce, è ad effetto. Una raffica di brevissime preposizioni, dal contenuto molto denso, che pongono il lettore nella prospettiva della mosca.  

– Quando si scrivere si cerca un ritmo, questa costruzione iniziale paratattica non è però una costrizione per il resto del racconto. Sono appassionato della prosa poetica, penso, per esempio, a Mal visto mal detto di Samuel Beckett. Mi piaceva colpire il lettore già dalla prima pagina, anche con apparenti contrasti. L’esistenza liminare di questo insetto, rende la sua vita paradossale, esiste ma non c’è. In questo libro, c’è gran parte della letteratura che amo e che è stata oggetto dei miei studi. 

– Tra i personaggi che si impongono maggiormente c’è Assenza. Incolpato ingiustamente di un delitto e che diventa, a sua volta, investigatore. Un presunto colpevole che ha l’onere della prova della sua innocenza. Perché questo nome?

– Io sono un feticista dei nomi, mi piacciono i nomi e l’abbinamento tra nomi e cognomi. I nomi sono le nostre piccole etiche, vedi etichette, che significano e ci mettono nel mondo. I cognomi che uso nel libro sono in gran parte di origine siciliana, nomi che mi sono portato dietro per dare, queste etiche, ai personaggi fin dal primo momento. Assenza è l’uomo scomparso, per me ha i tratti dell’accattone pasoliniano. Ma, nel mio racconto, vive in un mondo che è più malvagio, abita il mondo di oggi e non le periferie pasoliniane. M’interessava avere un personaggio che fosse con più dimensioni e arriviamo a conoscere, la sua vita, molto bene nel corso delle pagine. Assenza è una mosca perfetta, la sua esistenza è anche una non esistenza. Si è lasciato andare al corso delle cose e, come accadrebbe nel 90 % delle città moderne, non esiste. Inizia ad essere solo in quanto capro espiatorio, nei meccanismi di una macchina della giustizia imperfetta e che andrebbe riformata. Lui, che ha fatto un passo indietro, che ha scelto di non esistere, viene resuscitato solo in quanto colpevole, è lui la mosca per antonomasia.

– Il tema della giustizia. Un poliziotto, l’ispettore Canè incaricato delle indagini, cerca a tutti i costi un colpevole a scapito della verità. Un tema che ci fa trovare immersi in un universo per certi versi kafkiano, giusto per ritornare, in qualche modo, agli insetti. Nel mondo da lei narrato, qual è il rapporto tra legge, colpevolezza e giustizia?

– In questo enorme gioco della scomposizione, come accade alla descrizione della scarpa in Underworld di Don DeLillo, mi piace scendere nei minimi particolari, nelle minuzie, per me è un grande esercizio letterario al limite della nevrosi. In questo enorme calderone delle complessità, dicevo, mi piaceva affrontare anche le storture della giustizia. Ma non la giustizia piatta raccontata in tanti romanzi contemporanei, fatta di commissari e di procuratori, i miei personaggi, si noti, si chiamano tutti dottore tra loro confondendone i ruoli. La macchina della giustizia sembra fatta apposta per non far comprendere nulla ai non specialisti. Ha una sua perversità e, a me, non servivano eroi, ma personaggi complessi, descritti in chiaroscuro. Il mio racconto è anche il racconto di una giustizia che, come la conosciamo, è arrivata alla fine del suo percorso, con le sue storture, ricca di personalismi, nella quale si può ben difendere solo chi è ricco. Chi è come Assenza viene lasciato a se stesso in balia di norme, spesso oscure, in cui si resta impigliati come mosche.

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Emiliano Ereddia

Le mosche

Il Saggiatore, 2021

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