EXAGERE RIVISTA - Luglio - Agosto - Settembre 2024, n. 7-8-9 anno IX - ISSN 2531-7334

Lenin, un letterato nella zona franca della Russia zarista

di Gianfranco Brevetto

 “…”Il concetto di “letterato” (nell’accezione datagli da Lenin) è inscindibile dall’ambito dell’intelligencija russa tardo-ottocentesca: quest’ultima corrisponde solo in parte alla definizione di “ceto intellettuale” (si può benissimo essere un uomo di cultura accademica senza essere un intelligent e viceversa).”

Chi è stato e cosa ha significato per la letteratura e le vicende europee  Vladimir Il′ič Ul’janov? Come ha saputo Lenin farsi interprete di una realtà radicata e complessa fino a farsi teorico e artefice di una trasformazione che ha segnato la storia del ‘900?

Il Professor Guido Carpi, ordinario di Letteratura Russa all’Università Orientale di Napoli, ci aiuta a far luce su questo importante personaggio con il suo recentissimo libro.

Lei ha da poco pubblicato per la Stilo Editrice un primo volume dedicato agli anni di formazione di uno dei personaggi simbolo della storia mondiale del secolo scorso, Vladimir Il′ič Ul’janov, cioè Lenin. Perché questa scelta?

– Sì è trattato di una scelta molto impegnativa per me, perché – nonostante io mi sia già cimentato con la storia delle ideologie in Russia – non sono propriamente uno storico, almeno non per formazione. Inoltre, da marxista, non amo particolarmente il genere della biografia, in quanto sono convinto che l’elemento individuale non vada troppo enfatizzato, quando si parla di processi storici.

Ho affrontato questo tema per un intero ordine di motivi. Il primo, molto banalmente, è che mi mancava un cimento nel genere biografico: mi incuriosiva come esperienza in sé. In secondo luogo, le biografie di Lenin attualmente disponibili mi sembrano tutte o irrimediabilmente invecchiate o divise per tifoserie: quelli che io chiamo “leninofagi” e “leninomani”. E invece, a trent’anni dalla fine del ciclo storico apertosi nel 1917, è arrivato il momento di fare luce sulla figura di Lenin in modo meno partigiano.

Naturalmente, quando ci si accinge a un lavoro di carattere non strettamente specialistico, la prima cosa da fare è chiarire bene a se stessi per quale pubblico si sta scrivendo, e io ho cercato di organizzare il materiale per rendere il libro fruibile sia da un pubblico accademico sia da un uditorio più generalista. In particolare, spero che esso possa risultare utile al variegato mondo della militanza politica, specialmente a lettori giovani, politicamente impegnati, che, al di là di polemiche ormai prive di senso, siano interessati a capire come Lenin si poneva determinati nodi problematici: in che modo ci si può formare una griglia ideologica adatta a capire un determinato contesto (per lui, la Russia di fine Ottocento-inizio Novecento) e a incidere su di esso; che logica seguire nel porsi gli obiettivi e nel ricalcolarli continuamente; come coniugare analisi dei fenomeni e prassi politica; che tipo di organizzazione darsi; come selezionare una nuova figura di militante e come plasmarne l’identità di gruppo.

Ecco, forse è proprio su quest’ultimo punto che ho messo maggiormente l’accento: sui militanti, sulle loro motivazioni, psicologie e pratiche. Troppo spesso si è narrato Lenin senza tenere abbastanza conto della sua cerchia di sodali. Eppure, nella continua osmosi con essa si dipanava tutta l’attività teorica, pratica e organizzativa del leader: è difficilissimo, oggi, leggere gli scritti di Lenin astraendoli da un contesto e da una rete di interlocutori che per lui era sempre presente e prioritaria. Inoltre, tale impostazione mi ha permesso di sfruttare a fondo uno strumento usato molto poco nei lavori analoghi: la monumentale corrispondenza fra i “centri” politici guidati da Lenin in esilio (dall'”Iskra” alla frazione bolscevica) con le centinaia di militanti che a tali centri facevano riferimento, dentro la Russia e fuori di essa. È una mole di materiale epistolare che ci consente di vedere gli eventi “in tempo reale”, così come venivano vissuti, percepiti e valutati dagli attori immediati, mentre la memorialistica successiva, comunque preziosa, opera una selezione e una deformazione sistematica dell’accaduto.

–  Lei inizia il suo interessante ragionamento definendo Lenin un letterato. Ci può chiarire meglio l’accezione usata e perché?

-Beh, in parte tale definizione voleva essere un po’ provocatoria, dato che le “belle lettere” non sono certo la prima cosa che viene in mente pensando a Lenin: uno s’immagina marinai nerboruti con le cartucciere incrociate sul petto, che assaltano il Palazzo d’Inverno al rombo delle cannonate dall’incrociatore Aurora, sullo sfondo di un incendio vermiglio…

Dopo di che, la definizione ha un suo senso. Intanto, lui stesso, non senza una certa gigioneria, si qualificava “letterato” nei moduli che gli capitava di dover compilare, alla voce “occupazione”. Mica poteva scrivere “sovversivo”, e anche dopo la rivoluzione Lenin considerava le sue cariche politiche un qualcosa di passeggero rispetto all’opera compiuta in decenni di scrittura. In Russia, un “letterato” è molto più di uno “scrittore” o di un “uomo di lettere”: in una società dove ogni dialettica democratica era inibita, la parola scritta rappresentava una zona franca in cui potersi esprimere su argomenti inerenti alla sfera civile. Ciò riguarda la fiction, la pubblicistica o anche le forme di letteratura che stanno a metà fra le due, come nel caso di Passato e pensieri di Alexandr Herzen o il Diario di uno scrittore di Dostoevskij.

Infine, il concetto di “letterato” (nell’accezione datagli da Lenin) è inscindibile dall’ambito dell’intelligencija russa tardo-ottocentesca: quest’ultima corrisponde solo in parte alla definizione di “ceto intellettuale” (si può benissimo essere un uomo di cultura accademica senza essere un intelligent e viceversa). Per l’intelligencija, il criterio fondamentale è l’analisi positivista, e a orientarne l’azione è un sincero impegno democratico, seppur molto variamente declinato (dalle formi legali fino al terrorismo). Un esempio tipico è il padre di Vladimir Il’ič. Di origini molto modeste, Il’ja Ul’janov era tutt’altro che un radicale: era estraneo a qualsiasi velleità rivoluzionaria e identificava il progresso sociale e il “servizio” al popolo con l’attività pedagogica nei confronti dei ceti più umili. Ad essa aveva dedicato la vita, finendo per diventare ispettore delle scuole popolari del governatorato di Simbirsk, sulla media Volga.

– In quale contesto storico, familiare e politico nasce e si forma Vladimir Il′ič ?

Procedendo per anelli concentrici, l’emergere di personalità del genere è dovuto a processi di lungo, medio e breve periodo.  Nati in piena Restaurazione e formatisi in un periodo di turbolenze continue, fra scosse rivoluzionarie e frenate “normalizzatrici”, Marx ed Engels erano stati testimoni del sistema capitalistico nella sua fase di ascesa vertiginosa, e non dimenticarono mai nemmeno per un attimo che esso ha carattere di totalità e genera «l’universalità delle relazioni» (come scrive Marx nei Grundrisse), disponendo quindi di mezzi pressoché illimitati per tenere la classe operaia intrappolata all’interno dei propri meccanismi di dominio. Di qui la necessità che il movimento operaio eserciti una pressione articolata e costante sui nodi contraddittori della società e del potere politico: ancora nel 1880, a un giornalista americano che nel corso dell’intervista gli aveva chiesto quale fosse secondo lui «la legge ultima dell’essere», l’anziano Marx aveva risposto solennemente – La lotta!

I leader della Seconda Internazionale – in primo luogo i “fratelli coltelli” Bernstein e Kautsky – nascono invece all’inizio degli anni Cinquanta e risentono in modo determinante della cultura positivista e del clima evoluzionistico di fine secolo: dopo il lungo inverno delle leggi antisocialiste bismarckiane, essi concorrono a rifondare la Socialdemocrazia tedesca prima e l’Internazionale poi, in un contesto di riforme, di conquista di diritti, di inclusione graduale della classe operaia nel tessuto civile e politico; essi, inoltre, hanno scarsa dimestichezza con le fonti hegeliane del pensiero di Marx: la dialettica è da loro interpretata come mero processo evolutivo che si snoda nel tempo. Gli elementi di volontarismo politico sono messi fra parentesi, a fronte della tendenza a pensare il marxismo come una mera teoria dello sviluppo della società capitalista, il cui esito appare predeterminato: è una versione semplificata del celebre capitolo Ventitreesimo del Capitale, dove Marx scandisce «la legge assoluta, generale dell’accumulazione capitalistica» dall’ineluttabile «carattere antagonistico» perché fondata su «un’accumulazione di miseria proporzionata all’accumulazione di capitale».

Tale impostazione ebbe conseguenze di linea politica così riassumibili: 1) il soggetto protagonista dell’emancipazione è sì il proletariato, ma a elaborare la tabella di marcia sono i dirigenti incaricati di comprendere le leggi storiche e di cogliere la fatidica “ora x”; 2) l’idea che la rivoluzione non si debba “fare”, ma che ci si debba preparare ad essa accumulando forze; 3) la convinzione che l’intera umanità sia destinata a vivere gli stessi processi evolutivi, dunque che non ci sia via al socialismo che non passi attraverso il capitalismo industriale di tipo occidentale (voglio sottolineare come l’ultimo Marx non condividesse affatto questo assunto, e fosse al contrario impegnato in uno studio a 360° dei sistemi socio-culturali periferici, non capitalistici, fra cui la comune agraria russa). Ciò condizionava l’atteggiamento del movimento socialista nei confronti della questione contadina e della questione coloniale: i socialisti non se ne disinteressavano certo, ma non le ritenevano questioni determinanti per il futuro, né elaborarono al riguardo strategie che includessero mondo agrario e periferia coloniale o semicoloniali in un progetto politico complessivo.

La generazione ancora successiva, nata grosso modo negli anni Settanta, già nel periodo della propria formazione si deve confrontare con un evidente cambiamento di fase, riassumibile col termine di imperialismo: l’economia entra in un processo di trustizzazione e finanziarizzazione, il ruolo dei nazionalismi assume un carattere esasperato e massificato, lo sfruttamento sempre più intensivo delle colonie getta le basi per un vero e proprio sistema-mondo. Di qui la messa in discussione delle placide certezze degli “anziani”, l’aumento del tasso di radicalismo e il riemergere di un deciso orientamento al volontarismo rivoluzionario, pur declinato in varie forme, né è un caso che numerosi teorici e dirigenti di questo indirizzo (Lenin, Luxemburg, Trockij) provengano dall’Impero zarista: un sistema “periferico” e fortemente squilibrato, in cui le contraddizioni dell’epoca si fanno sentire con particolare acutezza.

Quanto a Lenin, nello specifico, ho già accennato alla storia della sua famiglia e alla figura di suo padre, le cui generose convinzioni democratiche vengono aspramente frustrate dagli eventi storici. Nel 1881 i terroristi di “Narodnaja volja” (Volontà popolare) uccidono lo zar Alessandro II, e il figlio Alessandro III sale al trono in un clima di decisa stretta reazionaria: le scuole popolari vengono prese di mira come focolaio “sovversivo”, Il’ja Ul’janov viene ostracizzato col prepensionamento e lui ne muore di crepacuore. Anche l’esecuzione del fratello maggiore di Lenin, Aleksandr, implicato in un fallito attentato ad Alessandro III, ha prodotto una ricca mitologia ideologica di segno opposto: per i “leninofagi”, l’intero percorso politico successivo di Lenin sarebbe stato dettato da mera sete di vendetta («Per vendicare il fratello ha distrutto un intero Paese!»); i “leninomani”, invece, fanno risalire a quell’evento il primo dei classici meme leniniani: «Noi andremo per un’altra strada», ossia certificano che un ragazzino non ancora sedicenne potesse dedurre da quella tragedia personale la necessità di un movimento politico radicato nelle masse rispetto all’azione eroica di singoli terroristi. L’importanza della morte del padre e l’esecuzione del fratello è di carattere più profondo e mediato (a parte l’ovvio lato umano): esse mostrano al giovane Lenin che l’intero ciclo politico dell’intelligencija populista (tanto nella variante moderata, pedagogica, che in quella radicale, terrorista) è terminato. Inoltre, dopo la morte di Aleksandr i pacifici abitanti di Simbirsk voltano le spalle alla famiglia degli Ul’janov, fino ad allora benvoluta da tutti: di qui nasce il profondo disprezzo nutrito da Vladimir Il’ič per la “società civile” liberale. Ancora nel 1919, quando nel pieno della guerra civile Maksim Gor’kij gli chiederà di rilasciare gli intellettuali liberali incarcerati per rappresaglia, Lenin avrà parole feroci per la “società civile” borghese e per le sue “forze intellettuali” che «si spacciano per il cervello della nazione», ma che «di fatto non sono il cervello, ma la merda!».

Ricordiamo anche la lettura chiave da cui prende le mosse il suo impegno: il romanzo Che fare? di Nikolaj Černyševskij, “testo sacro” della generazione populista, che Lenin riattualizza in modo originale. Seguono l’espulsione dall’università, i primi cenacoli marxisti di provincia e, finalmente, l’arrivo a Pietroburgo, dove Vladimir Il’ič manifesta una curiosa capacità proteiforme: presso il tribunale egli è un praticante avvocato in frac e cilindro, figlio di un rispettato funzionario; nelle camere in affitto degli squattrinati studenti marxisti, dove subito diventa una sorta di primus inter pares, è “il fratello di Aleksandr Ul’janov il martire”; indossati il berretto e un abito frusto, sotto falso nome si reca nel sobborgo operaio oltre il Bastione della Neva (Nevskaja Zastava): la più grande zona industriale della Russia del tempo. Ed è certo l’incontro con gli operai il punto centrale del suo apprendistato politico.

– Leggere Lenin, la sua prosa coinvolgente e affascinante, ha molto influenzato alcune generazioni. Cosa ha di particolare?

Fra i rivoluzionari russi ci sono esempi di scrittura assai più trascinante: penso al Viaggio da Pietroburgo a Mosca del “giacobino” Aleksandr Radiščev, alle poesie del decabrista Kondratij Ryleev, giustiziato dopo la fallita rivolta del 1825, all’appassionata “lettera aperta” di Vissarion Belinskij a Gogol’ (che il critico democratico accusava di essersi venduto all’autocrazia), al già citato Che fare? di  Černyševskij, alle memorie di Aleksandr Herzen intitolate Passato e pensieri, fino a contemporanei di Lenin certo più dotati di lui dal punto di vista stilistico: in primo luogo giganti come Rosa Luxemburg e Lev Trotsky. Un’ideale antologia in cui le Lettere dal carcere del nostro Gramsci occuperebbero uno dei posti d’onore…

Ciò che forse affascina di più in Lenin sono le doti di camaleontico stratega, che fanno di lui, come scriverà proprio Trotsky, «forse il più inflessibile utilitarista mai prodotto dal laboratorio della storia». Per capire il leninismo è necessario distinguere i suoi parametri invarianti dai mutevoli avatar che esso si mostra in grado di assumere: «Lenin prendeva ciò che gli serviva e quando gli serviva», scrive ancora Trotsky, ma ogni cosa che egli prende viene riposto in una cassetta degli attrezzi dagli scomparti assai bene ordinati. A costituire la griglia immutabile attraverso cui il bolscevismo filtra, scompone e metabolizza ogni altro elemento, sono: la lotta come esperienza diretta, immediata che – assai più delle acquisizioni teoriche – determina la crescita politica, organizzativa, addirittura morale dei soggetti coinvolti; la profonda consapevolezza di come la lotta pratica non sia mai fine a se stessa, ma sia fonte primaria di teoria, così come non si dà teoria che non si traduca direttamente in pratica; l’enfasi su una nuova figura di militante, che unisce in sé le capacità teoriche dell’intelligent e la determinazione pratica del proletario. Infine, tutti questi elementi trovano la propria sintesi nell’organizzazione, pietra filosofale del leninismo e manifestazione sensibile di quell’universale istinto alla partiticità (partijnost’) che si configura come una vera e propria grazia laica.

– Lei cita a più riprese Che fare?, noto scritto di Lenin. Qual è il lascito di questo volume nel delicato rapporto tra l’uomo, la storia, la prassi?

Il Che fare? – il cui titolo riprende quello del romanzo di Černyševskij – nasce proprio per motivare i militanti di tipo nuovo e fornire loro un vademecum organizzativo. È un testo non privo di ambiguità, specie per quanto riguarda la “catena di comando” politica: da una parte, esso pare prescrivere un rigido verticismo, dove un nucleo di “illuminati” portano “dall’esterno” al proletariato una consapevolezza politica che quelli non avrebbero potuto in nessun modo maturare da soli; in altri passaggi, risulta chiaro come questo esterno sia anche – e soprattutto – un orizzonte esterno agli immediati rapporti di lavoro che l’operaio stesso si conquista attraverso una serie di dure lotte inizialmente solo economiche, che poi si allargano a una visione complessiva di una trasformazione politica della società.

All’autore del Che fare? risulta chiaro che un “soggetto rivoluzionario” dato a priori non esiste: esso va attivamente costruito in condizioni storiche concrete che si danno volta per volta (difficilissime quelle russe), costituendo alleanze fra classi diverse. Parimenti, a Lenin non importa nulla di conquistare all’egemonia del proletariato la totalità delle classi medie e dei segmenti popolari non proletari, né lo ritiene auspicabile, ma capisce benissimo quanto sia indispensabile differenziare le classi medie e i ceti popolari, legando al movimento operaio i loro settori più subalterni e sfruttati per plasmare un blocco politico di forze sociali capace di disarticolare il potere politico avversario, facendone saltare una per una – e poi tutte insieme – le connessioni interne.

– Tra le tante e  stimolanti citazioni del suo scritto, una in particolare mi ha colpito. Nel prologo lei richiama Gramsci a proposito del rapporto tra l’ideologia e la visione del mondo e delle cose. Il rapporto, tra l’ideologia, nella sua declinazione marxiana, e la conoscenza. Quanto il riferimento a questa complessa implicazione ci può aiutare nella comprensione dell’attualità?

Si tratta di un tema molto complesso, che tocca aspetti filosofici. Lenin compie un fondamentale passaggio dal modello di sviluppo storico lineare e concentrico di ascendenza illuministica (ereditato dalla Seconda Internazionale) a una concezione globale del progresso umano come molteplicità di varianti allo stesso tempo differenti e fra loro interdipendenti. Come avrebbe poi scritto Ernst Bloch negli anni Trenta, appellandosi proprio a Lenin, «la storia non è un’entità che avanza rettilinea in cui il capitalismo sarebbe l’ultimo stadio, quello che avrebbe superato tutti gli stadi anteriori. Essa è piuttosto un’entità pluriritmica e plurispaziale, con zone non ancora sufficientemente padroneggiate e ben lontane dall’essere portate alla luce, superate».

Nell’elaborare questo nuovo modello di sviluppo storico, Lenin supera il marxismo secondo-internazionalista anche sul piano del metodo: in particolare quella concezione engelsiana della dialettica come successione meramente temporale, sul modello dell’evoluzionismo, che gli epigoni avevano poi ulteriormente banalizzato in senso meccanicistico. Se lo scopo è far saltare le contraddizioni interne al capitalismo come sistema e rovasciare quest’ultimo – tutto assieme – in un sistema alternativo, devi elaborare un modello di dialettica in cui la contraddizione non si risolve nel tempo, propagandosi dal centro alla periferia, ma coinvolge l’intera struttura, ingenerando dinamiche differenti sui diversi piani e allacciando di continuo connessioni nuove fra gli elementi, finché la struttura stessa – sovente in modo improvviso – diventa altro da ciò che era: con le letture hegeliane di fine 1914 Lenin acquisisce un compiuto e versatile controllo di questa dialettica del rovesciamento, che è algebra e non aritmetica, non gioco dell’oca ma tavola da scacchi (o, se si vuole, cubo di Rubik), in cui tutte le categorie e le loro connessioni sono continuamente mutevoli.

È curioso quanto le riflessioni di Lenin su come rappresentarsi la totalità in tutta la sua dinamica simultanea ricordino molto quelle sviluppate da Marx in un testo probabilmente ignoto al capo bolscevico: quell’Introduzione del 1857 a sua volta nutritasi di una rilettura della Logica hegeliana. Ma a Marx, allora, interessava solo capire: nella via ancora lunga verso il primo libro del Capitale, suo scopo era dedurre dal flusso indistinto della realtà le determinazioni astratte capaci di ridefinire i fenomeni concreti nelle loro relazioni; al Lenin del 1915 la tassonomia conoscitiva serve per per elaborare una visione strategica, ossia per agire. Marx opera all’inizio del ciclo storico, i processi di ristrutturazione del capitalismo internazionale sono appena partiti, l’Internazionale non c’è ancora e la realtà va innanzitutto compresa, prima che divenga possibile aggredirla: il risultato del lavoro “a doppio binario” è dunque il laboratorio teorico e metodologico dell’Introduzione del 1857, che porterà ai capolavori analitici di Per la critica dell’economia politica e infine de Il capitale. Lenin opera alla fine del medesimo ciclo, il capitalismo imperialista sta deflagrando, l’Internazionale non c’è più e le riflessioni sul metodo e sull’analisi – per molti versi parallele a quelle marxiane – servono per forgiare gli immediati strumenti atti ad aggredire la realtà: di qui opere come L’imperialismo, fase suprema del capitalismo e Stato e rivoluzione. Rappresentare il concreto, per Lenin, significa innanzitutto pervenire alla prassi.

Adesso più che mai, l’analisi è finalizzata all’azione, anche perché assieme al modello storico lineare Lenin si è lasciato alle spalle ogni illusione meccanicistica e teleologica di ineluttabilità della rivoluzione nel contesto dato: le leggi generali regolano il funzionamento del sistema, ma il suo esito non è prevedibile in forma astrattamente logica, bensì va definito come obiettivo che i soggetti coinvolti devono perseguire attivamente, creandosi gli strumenti adatti. Da tali smottamenti teorico-pratici (mai espressi da Lenin in forma sistematica) deriva la più fruttuosa corrente del marxismo novecentesco, impegnata a liberarsi da ogni residuo deterministico: anche qui mi vengono in mente le riflessioni di Ernst Bloch sulla distinzione tra »futuro genuino» e »futuro non genuino», nel suo ultimo libro Experimentum mundi.

Quanto alla differenza fra Lenin e Gramsci, essa riguarda soprattutto la teoria sullo Stato. Lenin teorizza ora un “abbattimento controllato” dello Stato stesso sull’abbrivio della guerra trasformata in guerra civile, ad opera di due poli complementari: al centro, la dittatura del proletariato (ossia del partito che ne organizza l’avanguardia), a livello locale è l’ autogoverno delle “comuni” (organizzate in soviet) che al potere proletario deve garantire l’egemonia nel periodo transitorio del passaggio al socialismo, fino alla completa estinzione delle classi e di qualsiasi sovrastruttura istituzionale volta a perpetuarne il dominio.

Si tratta, ovviamente, di quella storiosofia ciclica d’impianto russoviano, i cui schemi avevano esercitato un’influenza costante su buona parte della cultura politica ottocentesca impegnata a vario titolo nella critica della società moderna: da Novalis a Saint-Simon, da Schelling a Dostoevskij e allo stesso Marx, che ancora nei postremi Quaderni antropologici (1881) preconizzava: «come il suo comparire ha luogo solo a un certo grado di sviluppo sociale, così [lo Stato] scompare di nuovo appena la società perviene a uno stadio non ancora raggiunto». Ovunque si verifichi un deficit di collegamento coi meccanismi reali – vuoi per una condizione di marginalità presente, vuoi per la necessità di spingere lo sguardo avanti di troppe fasi storiche – riemerge lo schema storiosofico ternario: prima un irriflesso e indistinto comunitarismo primitivo, poi il distacco dal sostrato ontologico, lo sfacelo della frantumazione in monadi, in classi, la lotta di tutti contro tutti, e infine – in prospettiva –  il momento della nuova comunità, non inconsapevole come la prima, bensì memore di tutto ciò che nel frattempo era accaduto, e quindi libera e infinitamente feconda.

Tanto è nota questa ultima grande generalizzazione teorica di Lenin, quanto essa si è rivelata utopistica nei fatti. Essa manifesta il vero tallone d’Achille del marxismo ottocentesco e primo-novecentesco nella sua totalità, ossia l’assenza di una vera teoria complessiva dello Stato: una lacuna che si rivelerà esiziale a rivoluzione appena compiuta e a cui nel 1917-1921 Lenin sopperirà con la sua incomparabile arte di navigare a vista; a colmare tale lacuna da un punto di vista analitico – in tutt’altro contesto storico – provvederà il nostro Gramsci nelle riflessioni dei Quaderni.

 

Guido Carpi

Lenin, La formazione di un rivoluzionario (1870-1904)

vol. I

Stilo Editrice, 2020

 

Share this Post!
error: Content is protected !!