Di recente pubblicazione il secondo volume di Déjà vu
Salvatore Inglese e Giuseppe Cardamone, Déjà vu 2. Laboratori di etnopsichiatria critica, Edizioni Colibrì, Paderno Dugnano (MI), 2017
Salvatore Inglese e Giuseppe Cardamone, Déjà vu. Tracce di etnopsichiatria critica, Edizioni Colibrì, Paderno Dugnano (MI), 2010
di Sergio Zorzetto
Il termine etnopsichiatria è un esempio di quanto possano divergere le traiettorie di significante e significato. Mentre in Francia il termine è stato sempre più ostracizzato di pari passo con il chiarirsi e l’approfondirsi del suo senso metodologico grazie all’opera di Tobie Nathan, in Italia si è assistito ad un andamento opposto. Nel nostro paese, alla diffusione dell’utilizzo della parola etnopsichiatria ha corrisposto un incremento dell’indeterminatezza delle teorie, delle metodologie e delle prassi a cui dovrebbe corrispondere. Tale parola viene addirittura invocata taumaturgicamente nei programmi ministeriali italiani per rispondere ai problemi psicopatologici di richiedenti asilo e rifugiati, ma la sensazione è che si tratti di un “tutto va bene” coincidente in fin dei conti con una “qualsivoglia psichiatria applicata agli stranieri”.
Lontano da simili pressapochismi, i due volumi di Salvatore Inglese e Giuseppe Cardamone presentano due traiettorie personali, professionali e scientifiche che ci aiutano a ridefinire il termine, offrendo una possibilità di riavvicinamento sensato fra significante e significato.
L’uscita di Déjà vu 2 permette, ad anni di distanza, di richiamare quella del primo volume, passata purtroppo sotto silenzio nel panorama nazionale. Nel loro complesso i due libri raccolgono l’opera di riflessione ed analisi compiuta dai due Autori dalla metà degli anni ’90 sino ad oggi, arricchendosi progressivamente dei contributi e delle collaborazioni provenienti da un gruppo crescente di ricercatori e clinici – di cui ho avuto la fortuna e l’onore di far parte.
Se l’etnopsichiatria francese ha una matrice psicoanalitica, quella che Inglese e Cardamone propongono e progressivamente elaborano è un’etnopsichiatria a matrice psicopatologica che si nutre del dialogo con la psicoanalisi e con la fenomenologia. Di questa prospettiva appare particolarmente esemplificativo il primo volume che, quasi come un manuale, affronta diverse figure cliniche (depressione, schizofrenia, anoressia nervosa, disturbi post-traumatici, sinistrosi), facendo emergere le potenzialità di una lettura capace di mettere in tensione psichiatria e antropologia, dimensione psichica e culturale. La potenzialità di quest’ultima di mettere alla prova, fino ad inficiarle, la pregnanza e la pertinenza dei sistemi diagnostici e classificatori generati dalla scienza occidentale è per altro esplicitata attraverso una disamina del concetto di Culture-bound Syndrome (sindromi culturalmente caratterizzate), per ribadire la necessità e l’imprescindibilità di psicopatologie antropologicamente fondate.
Grazie a questa parte quasi-manualistica, preceduta da una dedicata alla ricostruzione storico-epistemologica ed all’esposizione testimoniale del passaggio dalla psicopatologia delle migrazioni all’etnopsichiatria clinica, il primo volume assume una fisionomia fondazionale. In esso si depositano, ad un tempo, le linee di fondo ed i concetti angolari della metodologia etnopsichiatrica ed anche le nozioni operative per la pratica quotidiana. Nel secondo, invece, le armi metodologiche e gli strumenti critici elaborati ed affinati sono principalmente indirizzati ad affrontare oggetti problematici dello scenario geopolitico e sociale contemporaneo: l’ibridazione culturale ed il contatto fra culture, il terrorismo jihadista, le violenze politiche e le migrazioni forzate di massa, le trasmutazioni traumatiche del corpo ed i dilemmi clinici e culturali in cui si dibattono le seconde e terze generazioni di migranti.
Il passaggio nelle tematiche affrontate dal primo al secondo volume testimonia della consapevolezza degli Autori di un mutamento epocale cui l’etnopsichiatria è chiamata a dare il suo contributo conoscitivo ed operativo. Fino a circa la metà del decennio scorso, si trattava ancora di indagare quelle differenze che le sofferenze psichiche dei migranti ponevano di fronte ai clinici come incorporazione di verità esterne alle loro soggettività ed interne a quei sistemi antropologici che quelle stesse soggettività avevano fabbricato. Si trattava anche della necessità di condividere con le collettività di clinici e ricercatori l’importanza di prendere in considerazione quelle differenze nella pratica assistenziale-terapeutica e nella riflessione teorica. Nell’ultimo decennio, le sfide teoriche e pratiche si sono notevolmente ampliate in tutte le direzioni sotto l’effetto di due principali processi metamorfosici posti in evidenza da Inglese e Cardamone. Da un lato, quelle differenze hanno raggiunto una tale massa critica da esercitare i loro effetti pressori non solo su punti nevralgici istituzionali (servizi sanitari, scuole, giustizia, ecc.) ma sull’insieme del corpo sociale delle società di accoglienza, che deve pertanto diventare a sua volta oggetto di attenzione quando non di preoccupazione per le pieghe xenofobiche e xenopatiche cui va incontro. Dall’altro, quelle differenze sono esse stesse soggette a processi di ricombinazione per effetto di mutazioni a più livelli e della loro interazione lungo specifiche linee di contatto. In primo luogo, le mutazioni prodotte dall’incontro/scontro con le antropologie delle società di accoglienza. In secondo luogo, le mutazioni nelle seconde e terze generazioni migranti nell’intreccio fra trasmissione culturale intrafamiliare e socializzazione nel contesto adottivo ed in quello virtuale. Infine, le mutazioni transnazionali (e dunque anche nelle culture d’origine) prodotte dai processi geopolitici successivi alla caduta del muro di Berlino e catalizzati dall’attacco alle Torri Gemelle.
Ma non sarebbe corretto tracciare una netta distinzione fra i due volumi. Nel secondo non si rinuncia a discutere di aspetti metodologici e strettamente clinici, in particolare nella sezione che affronta il problema della lingua nell’interazione diagnostica e terapeutica transculturale. Nel primo, d’altra parte, il contributo dell’etnopsichiatria alle scienze psichiatriche e psicologiche non rinuncia ad una critica dell’esistente. Questa critica, anzi, si rivela sufficientemente radicale da riuscire a delineare l’attuale ed a preannunciare ciò che ci attende. Si rivela, anche, abbastanza radicale da riuscire ad offrire opzioni strategiche condivisibili per i servizi pubblici di salute mentale – nel cui ambito i due Autori svolgono da sempre la loro attività – oltre a strumenti operativi per una clinica transculturale sovvertita dall’irruzione di almeno un’altra lingua e vitalizzata dal dialogo multidisciplinare.