di Francesca Rifiuti
“La vita è incontro.” scriveva Philippe Jeammet a Peter Fonagy nel 2019. Questa frase apre il libro a cura di Achim, Lebel ed Ensink, dal titolo “La mentalizzazione in neuropsichiatria infantile. Interventi terapeutici”, edito da Raffaello Cortina.
Sicuramente una frase semplice, ma molto potente. L’incontro presuppone infatti un avvicinamento di corpi, ma anche e soprattutto una connessione tra menti. Incontrarsi non è soltanto trovarsi faccia a faccia. È conoscersi e riconoscersi, saper pensare a se stessi all’interno della relazione con l’altro e saper pensare l’altro, cercando di tenere a mente la sua mente.
I processi di mentalizzazione si riferiscono proprio a questo tipo di competenza, alla capacità di “percepire e interpretare il proprio comportamento e quello altrui in termini di stati mentali” (Achim et al., 2023, pag.2).
Gli autori del libro concentrano la loro attenzione sull’importanza dei processi di mentalizzazione all’interno dei percorsi terapeutici che coinvolgono i bambini e le loro famiglie, proponendo interventi integrati individuali, di coppia e familiari, sottolineando l’importanza di osservare il bambino e intraprendere un lavoro con lui tenendo sempre presente il contesto socio-relazionale in cui è inserito.
Il testo è un riferimento importante e ben strutturato per psicologi, psicoterapeuti e neuropsichiatri che lavorano con le famiglie, mette a disposizione un excursus teorico sul costrutto della mentalizzazione e sul suo sviluppo nell’età evolutiva, procedendo poi, con l’aiuto di casi clinici, nell’esposizione di modalità terapeutiche utili e innovative, che cercano di porre l’accento sull’individuo e la propria mente ma anche sui legami e sulle relazioni, attraverso una sapiente integrazione tra approcci terapeutici diversi ma complementari.
Grande importanza viene data all’utilizzo del gioco all’interno del setting terapeutico, sia nei momenti individuali con il bambino, sia nel corso delle sedute familiari in cui sono presenti anche i genitori.
Fonagy e Target (1996) insistono molto sulla rilevanza del gioco simbolico e del disegno nella terapia con i bambini, poiché queste due attività creano uno spazio di condivisione e comunicazione degli stati mentali e delle emozioni e sono un mezzo per riuscire, gradualmente, a costruire una narrazione autobiografica. Giocare e disegnare, così come proporre tecniche non verbali basate sull’utilizzo di immagini, fotografie, illustrazioni, permette di superare il canale verbale e di raggiungere emozioni, vissuti e aspetti di fragilità altrimenti di difficile accesso.
Gli autori suggeriscono alcuni indicatori per valutare l’espressione degli stati mentali dei bambini tramite il gioco e il disegno e ci invitano per esempio a osservare l’effetto che il gioco ha sulla regolazione emotiva, se esso sembra essere associato all’esperienza soggettiva del bambino, quali emozioni vengono messe in scena, quali sensazioni ci attraversano mentre giochiamo con lui.
Giocare permette infatti ai bambini di esprimere le proprie emozioni “allo stato grezzo”, di sperimentare, in una situazione di sicurezza e di protezione, molti scenari emotivi e modalità di risoluzione dei conflitti, cogliendone, con l’aiuto del terapeuta, tutte le implicazioni.
Come professionisti, attraverso il gioco incontriamo molte opportunità per lavorare sulla regolazione emotiva e sulla mentalizzazione del bambino e possiamo coglierle se siamo riusciti a instaurare con il paziente una buona relazione di fiducia, se abbiamo trovato il modo di entrare nel suo mondo, di attivare un contatto in un modo per lui tollerabile.
Partendo dai contenuti del gioco, o dell’attività grafica, per il terapeuta sarà possibile allora esercitare la funzione di specchio, mettendo la propria psiche al servizio del bambino, aiutandolo a costruire connessioni tra ciò che viene manifestato nel gioco e ciò che è dentro di lui.
Il gioco viene utilizzato anche all’interno delle sedute familiari, attraverso il Reflective Family Play, che prende spunto dalla tecnica LTP (Lausanne Triadic Play di Fivaz-Depeursinge). Questa attività di gioco semistrutturato, in cui i genitori devono guidare e coordinare la famiglia attraverso quattro fasi distinte, ha come scopo il rafforzamento dell’alleanza tra i genitori nella loro funzione di “sottosistema esecutivo” (Minuchin, 1974) e un maggior lavoro di squadra nella guida della famiglia e nel decision making, ma anche la creazione di un contesto favorevole all’empatia dei genitori nei confronti dei figli, alla loro identificazione con i bambini e quindi alla mentalizzazione delle loro esperienze. Gradualmente, con l’aiuto degli incontri terapeutici, anche i genitori apprenderanno le modalità più efficaci per entrare in contatto con i vissuti dei loro figli, per aiutarli a comprendere la realtà interna ed esterna e per assumere per loro la funzione di specchio.
Filo conduttore del libro, più volte ripreso e approfondito all’interno dei capitoli, è anche l’importanza del costrutto di mentalizzazione per i professionisti della salute mentale: mentalizzare significa allora pensare i bambini e le famiglie, le loro difficoltà e le loro motivazioni, le preoccupazioni che li portano a chiedere il nostro aiuto, il loro funzionamento, le relazioni e i legami che si intessono tra di loro e tra loro e noi.
Ma significa anche pensare e ripensare se stessi come terapeuti, autoregolarsi, osservarsi e porsi sempre domande nuove, avere curiosità verso se stessi e prestare attenzione alle risonanze che generano in noi i comportamenti, le emozioni e i vissuti di chi abbiamo di fronte.
Achim, J., Ensink, K., Lebel, A. (a cura di) .
La mentalizzazione in neuropsichiatria infantile. Interventi terapeutici.
Raffaello Cortina Editore, 2023
Altri riferimenti bibliografici
Fonagy, P., Target, M. (1996). Playing with reality 1. Theory of mind and the normal development of psychic reality” in International Journal of Psychoanalysis, 77, 2, pp. 217-234
Minuchin, S. (1974). Famiglie e terapie della famiglia. Casa Editrice Astrolabio