di Giorgio Bombieri
L’approccio alla fotografia, il mio, è sempre orientato alla funzionalità, oserei dire all’utilità. Sono all’inizio ho fotografato per il gusto di farlo, per imparare; poi è prevalso sempre un senso di fine, di con-fine, di orizzonte. Tendenzialmente fotografo paesaggi, soprattutto del territorio veneziano: ho la fortuna, sfacciata, di farlo da almeno vent’anni, all’interno del mio lavoro in Comune di Venezia. Documentare il cambiamento del territorio, o semplicemente il territorio, a futura memoria. Un lungo, continuo e interminabile repertorio di immagini della città, delle città, della periferia, della laguna, dei campi. Con tratti ossessivi, con “l’insistenza dello sguardo”.
Ho fatto l’operatore sociale per una decina d’anni ed ho sempre usato la fotografia come mezzo di relazione, anche come fine (producendo mostre, laboratori, ecc .ecc.), per una “sensibilizzazione” sui temi sociali. Ho fotografato i luoghi “del” sociale: le istituzioni totali, carcere e centro di salute mentale, il dormitorio pubblico… In questi contesti ho spesso fotografato le persone, per avvicinarle, per intrattenere una relazione significativa, cercando sempre di usare le fotografie, stampate, come oggetto relazionale, sia quelle dei luoghi, sia i ritratti. Con le persone che abitavano questi luoghi, che definirei “forti”, ho tenuto dei laboratori di fotografia, abbandonandomi anche a sessioni di autoritratto, cosa molto difficile e densa, perché ho sempre voluto stare nel processo, stare in relazione, prolungatamente, e mai con quel tratto voyeuristico che spesso hanno i fotografi, la curiosità di fare una esperienza in carcere, per esempio, e poi andarsene bellamente a fare la mostra fuori. Beh, per me è sempre stato più importante il processo, il mezzo… che rappresenta anche il fine, il modo: la relazione.
Un esempio: in carcere femminile alla Giudecca, a Venezia, ho fatto varie cose: il volontario in orto, c’ho lavorato come operatore sociale ed ho fatto molte foto: delle rappresentazioni teatrali, dei laboratori. Ma soprattutto ho fatto ritratti per loro, per le donne recluse. In due occasioni ho organizzato un set fotografico, con luci e fondale, ho portato truccatrice e stylist con un baule di vestiti ed ho fotografato le donne! Per loro! Perché potessero avere una fotografia, stampata, da spedire a casa. In qualche modo la stampa fotografica è divenuta testimonianza dell’esserci, di stare “bene” (certo, omettendo, visivamente, tutto quello che poteva ricordare il carcere, come le sbarre, un certo tipo di abbigliamento), di essere qui e ora. Infatti, in entrambe le occasioni, le donne hanno voluto molte stampe, non solo per spedirle a casa, al marito, ai figli, ai parenti… ma anche foto che le ritraevano assieme alle compagne di detenzione, sviluppando così una mappatura fotografica, sebbene inconsapevole, delle loro relazioni. Nell’ultimo intervento, fatto nel 2017 con la Cooperativa Rio Terà dei Pensieri, abbiamo pubblicato un libro, “al femminile”, che riporta, almeno in parte, due giorni di completa eccitazione: una cinquantina di donne, sei truccatrici, due stylist, due assistenti fotografi. Due giorni in cui le donne si sono fatte truccare al meglio, vestire e vestire di nuovo, e si sono fatte fotografare a ripetizione… anche con l’aiuto di una ex-modella professionista che suggeriva loro le pose.
Per questi due giorni il carcere della Giudecca (che di media ospita centoventi detenute) è stato teatro, set, contesto di piacevoli esperienze… Con le agenti penitenziarie che guardavano dallo spioncino e ogni tanto chiedevano perchè anche loro non potessero farsi fare delle foto! Il fine, i fini… dare loro le foto stampate, il libro, vendere il libro per raccogliere soldi per finanziare un centro d’ascolto (della cooperativa), “innestare” un piccolo ricordo piacevole. Poi c’è il paesaggio, di fronte al quale siamo. Di fronte al quale siamo uomini/donne. Tengo le cose distinte, non so perché: ritratto e paesaggio, quest’ultimo quasi esclusivamente senza presenza umana. Il paesaggio come essere vivente? Potrebbe darsi… Mi piacerebbe. Continuo a fotografare Venezia (sarebbe più corretto dire: continuo a non saper fotografare Venezia!) e scopro sempre luoghi che non ho ripreso; per non parlare della laguna, fotograficamente ostica con quell’orizzonte sempre al centro… ma sempre speciale, interessante, ampia, sconosciuta. Quel che più mi interessa sono i margini della città: i quartieri popolari, anche quelli più difficili, i “territori di nessuno”, i margini.
Non faccio foto di tramonti a San Marco, preferisco di gran lunga passeggiare/camminare/fotografare Mestre, Marghera, le zone ai margini del centro storico di Venezia.
Adoro l’indefinitezza dei margini.