EXAGERE RIVISTA - Gennaio-Febbraio 2024, n. 1-2 anno IX - ISSN 2531-7334

L’informazione secondo il Coronavirus. Intervista a Cecilia Ferrara

di Francesco Orietti e Francesca Rifiuti

 

Informazione è dare forma, cercare di far luce sulle cose, partendo anche dal sapere di non-sapere, facendo i conti con questa condizione. Informarsi è uno sforzo costante di uscita fuori dalla bolla, è contaminarsi ed essere umili. Pronti a cambiare idea, pronti alla rettifica. Informazione è un metodo scientifico applicato sulla realtà. È osservazione, interrogazione, verifica e condivisione. L’emergenza Covid-19 ha aggiunto un ulteriore nodo di complessità nel dedalo delle notizie. Come orientarsi? In questa intervista con Cecilia Ferrara, giornalista freelance fondatrice del sito coviditalianews.org, si cerca di riportare alla luce il ruolo dell’informazione come strumento, all’interno del labirinto, per trovare una strada. Ognuno la propria.

– Quando e in che modo il mondo dell’informazione si è trasformato in un grande labirinto?

– L’informazione è uno strumento potente che spesso viene utilizzato per fini non solo di interesse pubblico ma anche per fini politici. È sempre stata un labirinto, è uno strumento che gli utenti dovrebbero maneggiare con prudenza: ogni lettore, telespettatore, ascoltatore, in questo labirinto di oggi dovrebbe trovare da solo una propria via. Questo si è senza dubbio reso più difficile con l’aumento dei mezzi di comunicazione e con l’esplosione dei Social Network. Sembra sempre più difficile trovare quella che una volta era la contro-informazione:  in epoca pre-Facebook c’erano IndyMedia, le radio libere, la stampa alternativa che facevano la voce fuori dal coro. Ora al posto della contro-informazione viene dato molto spazio a una sorta di “complottismo”. C’è da dire che l’informazione non è mai slegata dal contesto politico, quindi in un periodo storico come gli Anni ’90, in cui c’era un grande fermento politico-sociale, la  contro-informazione era molto forte. Negli anni in cui invece la politica si fa su internet, l’informazione segue queste tendenze. È molto complesso riuscire a ritrovarsi in questo labirinto, per cui è sempre più importante parlare di informazione e soprattutto parlarne con i giornalisti.

– Quale potrebbe essere uno strumento per orientarsi? Come si valuta l’informazione quando ce ne sono così tante?

– Ci sono dei mezzi di informazione universalmente riconosciuti. La grande stampa ha guadagnato credibilità, ma anche in questo ambito talvolta si cade nella trappola della pubblicazione senza verifica. Lo strumento più utile è sicuramente quello di trovare più tipi di informazione, più canali, leggere giornali di diverso orientamento politico. Conoscere gli editori e le tendenze politiche del giornale che andiamo leggendo sarebbe importante, anche se non è facile. Lo strumento principale è sicuramente la nostra testa, la volontà di aprire la mente e di non chiudersi ognuno nella propria bolla (filtering bubble), perché oggi attraverso i Social Network è più facile costruirla e rimanerci intrappolati.

– Come senti che è cambiato il tuo modo di fare questo mestiere nel labirinto di oggi?

– Io mi considero una “outsider”: parto da una radio locale legata all’associazionismo e alla contro-informazione. La cosa bella di fare il giornalista sul campo, sporcandosi le mani, è quello di poter cambiare idea mentre si lavora, di poter conoscere cose di cui si ignorava l’esistenza, di provare a comprendere i meccanismi di tante realtà diverse, dal crimine organizzato all’amministrazione pubblica e molto altro. Se fai bene questo lavoro, cambi ogni volta e ti apri a nuove esperienze: viaggiare all’estero per esempio mi ha permesso di aprire a collaborazioni con network di giornalismo investigativo fuori dall’Italia e conoscere nuovi modi di essere professionisti. Anche in Italia mi trovo bene: mi piacciono quelle redazioni in cui è possibile collaborare con chi mantiene integra l’identità dei miei pezzi.

– Man mano che il labirinto diventa più complesso, forse l’unico modo è abbracciare la sua complessità?

– Assolutamente sì. Diffido di chi ha certezze granitiche sulle questioni. Riporto quello che epidemiologa che ho intervistato riguardo agli scenari post-Covid mi ha detto: “dobbiamo lavorare e prendere decisioni sapendo che vi è un margine significativo di incertezza”. Anche per questo vanno usati tutti i sensi che abbiamo a disposizione. È importante abbracciare la complessità, per non rischiare di diffondere idee o notizie che risultano a lungo andare anche dannose.

– Il coronavirus è un argomento complesso. Le notizie sono innumerevoli, tanto che si è arrivati a parlare di infodemia.

– L’infodemia è proprio il labirinto di cui stiamo parlando. Una grande massa di informazioni arrivano in flusso continuo, sono contraddittorie, si crea confusione e ci si deve in qualche modo districare. In momenti di emergenza è facile che si crei questo meccanismo. Il tema del Coronavirus mette in campo libertà personale, salute, scienza, futuro, economia e molto altro. E non è una guerra, nessun carro armato fuori dalla porta. È un’emergenza che da una parte è invisibile e dall’altra è totalizzante: ha invaso tutti gli aspetti della nostra vita ed è diventata terreno fertile per l’infodemia, per le notizie che continuano ad arrivare senza sosta e non sono diffuse solo per far conoscere le cose ai cittadini ma per pungolare una parte del tuo stomaco e farti cliccare, farti indignare, rassicurare, prendere parte, agire in qualche modo.

– C’è stato un grande rimbalzare di paragoni e metafore belliche. Come pensi che sia stato raccontato questo virus?

– Si può utilizzare questa metafora, forse, per quei momenti in cui gli ospedali italiani sembravano proprio ospedali di guerra in alcune zone del paese, prevalentemente in Lombardia, ma anche nelle Marche per esempio. Era uno scenario in cui molti medici hanno confermato di trovarsi a trattare con la “medicina delle catastrofi”. Per il resto la metafora non regge molto, nonostante il pericolo sono rimaste alcune sicurezze, la possibilità di mangiare e di vivere una vita, per quanto in modo diverso. È vero che anche nei conflitti è possibile vedere la vita che va sorprendentemente avanti, ma non è la stessa cosa: dall’informazione dovrebbe arrivare il messaggio che questa condizione non è assolutamente paragonabile a quella che è possibile trovare oggi in alcune zone devastate dalla guerra.

– In questo periodo hai realizzato il progetto Covid Italia News. Di cosa si tratta?

Mia cugina è un’infermiera e quando ho sentito che stava iniziando ad avere paura, ho pensato che in tempo di pace non è giusto andare a lavorare temendo per la propria vita. Il progetto Covid Italia News, realizzato insieme ad alcune colleghe giornaliste, è nato proprio perché nel bel mezzo di un’emergenza e con la sensazione di trovarsi a combattere una guerra, venivano lasciate indietro alcune domande fondamentali da fare alla politica e alle amministrazioni.

– Quali sono le domande che si sono perse nel labirinto dell’infodemia?

– Le domande che mancavano riguardavano i motivi delle misure restrittive, le dimensioni dell’epidemia, i contagiati, il modo in cui avviene il contagio, i ruoli dei vari settori della Sanità, come per esempio la medicina del territorio, i medici di famiglia e il Dipartimento dell’Igiene Pubblica. Un altro aspetto inizialmente molto importante è stato chiedere conto degli annunci che i governatori regionali iniziavano a fare. Si parlava di costruire grandi ospedali, di somministrare test a tutta la popolazione, di chiudere i confini e molto altro. Adesso siamo in un’altra fase dell’emergenza e i giornalisti delle testate principali hanno iniziato a investigare su cosa sta succedendo davvero, ma inizialmente è stato fondamentale verificare tutte le informazioni che circolavano. Ci sono state notizie anche assolutamente false, oppure tematiche che riempivano i giornali e poi, dopo qualche giorno, si dissolvevano (pensiamo all’app Immuni). Penso che in un primo momento in questa emergenza non si facessero le domande giuste: forse i giornalisti temevano di farle, c’erano tanti morti, era tempo di celebrare gli eroi in corsia. C’è stata tanta retorica, diffusa anche dalla politica: certo, se vuoi tenere 60 milioni di persone in casa, costringendole a cambiare comportamenti e abitudini, questa retorica serve, così come una dose di patriottismo. Ma sono armi che vanno usate con parsimonia, senza penalizzare l’informazione.

– In questa infodemia sono circolate, come dicevi, tante fake news, che sono state riportate anche dai grandi giornali. Che cosa dà forza a questo fenomeno?

– Le fake news ci sono sempre state, ovviamente la dimensione del fenomeno si è ampliata molto a causa del proliferare di mezzi di comunicazione. Ma c’è anche da considerare che, quando si parla di salute, viene fuori un lato umano che ha a che fare con la vita e la morte, con l’ipocondria, si toccano aspetti psicologici importanti. Nel contesto politico mondiale di oggi ci sono personaggi che in primis diffondono informazioni fuorvianti e non vere alla popolazione. Come dicevo, il mondo dell’informazione non è mai scollegato dalla realtà politica e in questo contesto è difficile che i giornali riescano ad auto-regolarsi.

– L’infodemia, come hai detto, colpisce aspetti psicologici e colpisce soprattutto le persone più fragili. Questo labirinto si poteva in qualche modo evitare?

– Si poteva evitare parzialmente, se ci fosse stata fin dall’inizio una comunicazione istituzionale più trasparente e meno paternalistica e se i mass media avessero fatto più domande e seguito meno la retorica nazionale. Non è andata così, il sistema dell’informazione si è indebolito e bisogna prenderne atto. La cosa a cui bisogna puntare è provare a dire qualcosa di diverso, tenendo presente che non è solo una questione di informazione ma anche di quanto è grande il segmento delle fragilità delle persone. Tutto è collegato: la politica, la formazione, le difficoltà socio-economiche e l’informazione vanno di pari passo.

– Oltre al racconto proposto dall’informazione, c’è un tessuto di storie formato dai pensieri delle singole persone, che si esprimono, per esempio, attraverso i commenti sulle pagine Facebook. Il labirinto diventa sempre più complesso. Qual è il ruolo dell’informazione nel confronto con questi racconti?

– L’informazione e i commenti sono due cose diverse. È un fenomeno molto interessante, da studiare anche dal punto di vista sociologico, ma non è informazione. L’informazione rispetto a questo deve fare molta attenzione, a volte sono commenti molto violenti, faticosi da sostenere. Non si può inseguire il sentimento dei commenti, anche perché a prima vista sembra una massa importante di persone ma in realtà sono quelle che sono più agguerrite e attive sulla pagina, ma soprattutto quelle che cadono nella trappola del clickbait. Le storie degli utenti Facebook non vanno confuse con l’informazione: la condivisione del proprio punto di vista, con le dovute eccezioni, non è una notizia.

– In che modo la diffusione rapida di commenti e notizie influisce sulla credibilità dei giornali e sull’importanza della fonte?

-L’informazione deve difendere la propria credibilità, facendo il proprio lavoro in maniera credibile. Facendo le domande giuste, facendone tante a chi ci governa, facendo un buon servizio. Il rischio c’è, perché il mondo è cambiato e la comunicazione è diventata davvero labirintica. Si pensi ai messaggi vocali di sedicenti dottori che giravano su Whatsapp nel primo periodo dell’emergenza: le notizie circolano sempre più rapidamente e sono difficili da arginare, la fonte si perde. Sarebbe importante sensibilizzare le persone ad analizzare le notizie virali: purtroppo alcuni non vedranno mai la smentita di queste notizie, ma questo ha a che fare con un lavoro sistemico che parte dall’istruzione delle nuove generazioni.

-Quindi fare giornalismo non è fare dichiarazioni, ma trovare le domande giuste?

-Le domande sono lo strumento fondamentale del giornalista: io da sempre cerco di porre quelle domande per le quali, come cittadina, vorrei ottenere una risposta.

-Pensi che questo fenomeno attuale porterà dei cambiamenti nel labirinto dell’informazione?

-Sicuramente porterà delle grosse sofferenze in termini economici: durante una crisi di solito i piccoli chiudono, i grandi sopravvivono e si mangiano i piccoli. Nell’arco di questi due mesi, gradualmente i giornalisti hanno iniziato a investigare e questo mi ha molto confortato. Detto questo, non voglio spingermi oltre,. Sinceramente non vedo grandi cambiamenti all’orizzonte.

-Quale idea di giornalismo c’è alla base del progetto Covid Italia News?

-È un progetto che vuole crescere, vorremmo avere sempre più corrispondenti da tutta Italia che abbiano voglia di farci vedere cosa sta succedendo e che credano nell’idea del fare le domande e di non accontentarsi. Ci piace l’idea di tornare al “citizen journalism”, in cui le persone stesse diventano i media: i cittadini, con la guida dei giornalisti, possono avere la capacità di confrontarsi col mondo esterno, di capirlo e di raccontarlo. Per esempio, una delle nostre collaboratrici, quando è venuta a conoscenza del progetto, ha iniziato a lavorare con noi con molto entusiasmo: abbiamo lavorato insieme, le abbiamo consigliato alcune domande da fare, lei ha attivato i suoi contatti e, a un certo punto, è riuscita a passare attraverso lo Specchio di Alice: ha scoperto cose molto interessanti, a tratti sconvolgenti, che non avrebbe mai esplorato da sola perché, come tutti noi, è fruitrice dei mass media. Se fai le domande giuste riesci a orientarti nel labirinto e a comprendere i fenomeni. Scoprire notizie in prima persona è un’esperienza davvero molto forte, che ti colpisce e ti cambia in modo incredibile.

 

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