di Federica Biolzi
L’importanza del confronto transdisciplinare su temi di forte valenza esistenziale è uno degli obiettivi del Laboratorio di Psicoanalisi, Ermeneutica, Fenomenologia a cui fanno riferimento Vinicio Busacchi e Giuseppe Martini autori del saggio L’identità in questione, fresco di stampa per le edizioni Jaca Book. Al professor Martini abbiamo chiesto di parlarci di questa interessante pubblicazione.
– Nel volume si affronta un tema classico, ma estremamente attuale, quello dell’identità. Tra i tanti possibili approcci, nel volume si segue quello del contributo interdisciplinare tra psicoanalisi e filosofia. Perché questa scelta?
– Il tema dell’identità riguarda per eccellenza il nostro essere nel mondo ed è sempre stato al centro della riflessione umana, come testimonia il monito del tempio delfico “conosci te stesso”. Naturale che sia spettato alla filosofia indagarlo in profondità e incessantemente sin dai secoli più remoti. Più di recente le si è affiancata la psicoanalisi mettendo drasticamente in discussione, grazie alla scoperta dell’inconscio, il cogito cartesiano –e dunque per certi versi l’idea stessa di identità (per lo meno nel senso della medesimezza e della costanza). E’ dunque per così dire immediato per un filosofo e uno psicoanalista affrontare una tale tematica e vedere come le due discipline possano integrarsi nella ricerca, in un rigoroso rispetto della specificità dei due campi, ma con l’idea di mettere in tensione dialettica i due saperi. Vorrei al proposito segnalare che sia io che Busacchi facciamo parte di un gruppo di ricerca, il Laboratorio di Psicoanalisi, Ermeneutica, Fenomenologia (https://www.fattoreumanoedizioni.com/lapef/), che ha come obiettivo la riflessione e il confronto transdisciplinare intorno a quei temi centrali del discorso sull’umano che vedono possibile, o meglio esigono, un apporto tanto della filosofia quanto della psicoanalisi. Il Laboratorio non mira dunque a una riflessione di parte filosofica sulla psicoanalisi, né viceversa a un approccio psicoanalitico alla filosofia, ma a riflettere congiuntamente su temi di forte valenza esistenziale. A ciò si aggiunga il comune riferimento di Busacchi e mio a un filosofo che, oltre a segnare profondamente il Novecento, ha dato un contributo fondamentale alla psicoanalisi, Paul Ricoeur (di cui nella stessa collana che ospita il nostro libro è uscito, a cura di Francesco Barale, il volume di scritti Attorno alla psicoanalisi). Il tema dell’identità è centrale nel pensiero del filosofo francese (si pensi all’opera Sé come un altro e alla sua proposta di una identità narrativa più volte avanzata nei suoi scritti). Noi siamo partiti di qui per giungere all’idea di identità traduttiva, che esalta il paradigma della traduzione (pure tipico dell’ermeneutica ricoeuriana) rispetto a quello classico dell’interpretazione, e insieme dà rilievo, sulla scia del pensiero psicoanalitico contemporaneo di derivazione bioniana, all’idea di trasformazione. L’identità non si dissolve, ma si trasforma, sulla base di un continuo lavoro di traduzione della nostra vita emozionale inconscia in linguaggio e azioni. Ma a questo lavoro trasformativo non è mai estraneo l’altro, che questo possa essere rappresentato (nello specifico caso di una relazione terapeutica) dallo psicoanalista, oppure, più generalmente, dalle persone che incontriamo e con cui interagiamo nel corso della nostra vita. Direi che il punto di partenza e insieme di approdo del nostro percorso sta in due dimensioni, fortemente condivise dall’ermeneutica e dalla psicoanalisi contemporanea e al cui incrocio troviamo l’identità: una dimensione orizzontale, che è quella in rapporto con l’alterità, e una dimensione verticale, che è quella individuata da Paul Ricoeur nella dialettica idem-ipse e dalla psicoanalisi nella dinamica tra conscio e inconscio.
– Lei ci indica la psicanalisi come deflagrazione dell’identità. Evidente il raccordo, come lei stesso cita nel testo, con l’approccio filosofico derridiano. È proprio così? Quali rischi si corrono?
-Se la psicoanalisi fosse solamente una deflagrazione dell’identità evidentemente i rischi sarebbero elevati! Questo è un punto su cui nel libro si insiste molto. Fortunatamente non è così e si è sempre più riconosciuto come il momento di scomposizone o, se si vuole, di decostruzione del sé, vada accompagnato dal momento ricostruttivo, lungo un percorso che beninteso non si dà mai in forma completa e che non ha mai fine. Torniamo così a dare rilievo a un vocabolo fondamentale dell’ermeneutica ricoeuriana: inachèvement… Un approccio decostruttivista non dà assolutamente conto del lavoro psicoanalitico e la psicoanalisi, per lo meno nella mia concezione, non si coniuga affatto con quelle teorie che asseriscono la morte o l’evanescenza del soggetto. La psicoanalisi parla di un soggetto in conflitto, talora irrealizzato, talora dissociato, talora frammentato, ma il suo fine, come si esprime Castoriadis, è proprio l’avvento del soggetto. La psicoanalisi demolisce le certezze cartesiane (e soprattutto quelle certezze identitarie generatrici di patologia attraverso la coazione a ripetere, la rigidità del carattere, la credenza delirante, etc.) per aprire uno spazio di interrogazione all’interno del quale possa svilupparsi un’opera di ricostruzione: una ricostruzione mai solipsistica ma che si muove nello spazio relazionale della cura e che sia votata alla scoperta di modalità nuove e più funzionali di essere nel mondo con gli altri. Quest’opera ricostruttiva è di particolare importanza nel caso dei disturbi più gravi e in particolare nel caso dei disturbi psicotici ove il Sé è profondamente frammentato sino a perdere il contatto con la realtà e a non riuscire più a distinguere chiaramente dove termina il me e inizia il non-me. Questa perdita della membrana (sia pure permeabile) che separa il sé dal mondo esterno, tipica degli stati psicotici acuti, è esperita con estrema angoscia e genera un vissuto di confusione (chi sono? dove sono?) e di invasione reciproca (una perdita dei confini dell’io) per cui l’esperienza dell’altro diviene terrifica.
– Nell’interessante capitolo Identità e delirio lei entra nel cuore del problema. Il credere di essere il re di Francia, pone di fronte al nocciolo del problema identitario. Quale il rapporto tra identità e de-lirio?
-Da quanto accennavo sopra nasce l’interesse per il delirio come osservatorio estremo ma fecondo che si apre sul problema dell’identità. Cosa succede a quelle persone che perdono completamente il contatto con il proprio sé, con la propria storia di vita, con le proprie emozioni (rigettate e proiettate sul mondo esterno) e si costruiscono una identità totalmente altra, come il paziente che si crede re di Francia di cui in Identità e delirio o come, ad es., il Mattia Pascal pirandelliano? Proprio laddove l’identità subisce le più gravi destrutturazioni, testimoniando apparentemente a favore della inconsistenza dell’idea di soggetto, proprio lì noi meglio comprendiamo l’inconsistenza di quelle posizioni relativiste che vorrebbero cancellare il soggetto. In che senso? Perché da questo possiamo cogliere la differenza abissale tra la crisi identitaria della psicosi e la crisi identitaria della soggettività moderna. Si tratta di due condizioni agli antipodi: nella prima c’è davvero una drammatica sparizione del sé (per quanto anche qui mai totale), nella seconda c’è un soggetto che riflette sulla propria crisi, un soggetto, direi, che proprio attraverso questa riflessione mostra la sua forza, se non la sua ipertrofia, che gli permette di giungere persino a negarsi! La psicopatologia ci mostra come la possibilità di plasmare all’infinito e “a proprio piacimento” l’identità possa darsi solo nel delirio, a spese non solo di una negazione pervicace della realtà, ma anche di una grande sofferenza. Dunque, 0debolezza di quel pensiero “debole” che nega l’idea di soggettività; la seconda inerente l’insuperabilità, se non nella follia, di quei vincoli identitari che sono rappresentati dalla corporeità, dalla “materia affettiva” e dalla propria storia di vita, oltre che naturalmente dalla Storia, dalla società, dalla cultura.
– Viene messo in evidenza il rapporto tra il tempo e l’identità, notoriamente a proposito dell’inconscio. Questo ripropone alcuni nodi classici non solo filosofici, in primo luogo il problema di cosa è il tempo. Quale il suo pensiero a questo proposito?
-Il problema del tempo è trattato nel nostro libro limitatamente ai suoi effetti trasformativi sull’identità. Direi che il tempo è il principale fattore che interviene nel trasformare la nostra identità sia fisica che psichica, sia conscia che inconscia. Molti fattori radicalmente trasformativi dell’identità hanno un carattere contingente: un cambiamento di lavoro, di partner, di abitazione, un episodio drammatico o felice della nostra esistenza. Ma la temporalità è di altro ordine e grado: essa interagisce costantemente e sottilmente con l’identità riconfigurandola continuativamente sino a produrre le trasformazioni più radicali. Per la riflessione su tempo e identità ci siamo valsi oltre che del contributo di filosofi e di psicoanalisti, soprattutto di uno scrittore, insuperato nella sua riflessione sul tempo vissuto: Marcel Proust. Ne Il tempo ritrovato egli descrive gli uomini come giganti immersi nel tempo e insieme indica una dialettica che possiamo ritenere costitutiva dell’umano. Essa si articola tra l’immersione nella temporalità e l’ambizione ad uscirne, ad annullarla (un’attitudine che ritroviamo anche in certe cosmogonie e filosofie orientali e su cui si è soffermato Mircea Eliade).
– Una visione suggestiva ma alquanto delicata…
-Il “gigante” proustiano mira a godere della atemporalità estatica dell’attimo, ma insieme è “condannato” a tenere assieme i diversi sé che si sono succeduti nel corso della sua vita. Da questo punto di vista il percorso psicoanalitico -sempre con riferimento alla dissoluzione/ricostruzione dell’identità- può intendersi come un tentativo di riconciliare i sé molteplici che si sono succeduti e di prender atto del filo che li lega e degli strappi che il tempo ha operato. In tal senso esso viene a configurarsi come il modulatore delle due dimensioni cardine dell’identità: il familiare e l’estraneo, emergendone in tal modo in tutta la sua portata il carattere che Freud definiva (a proposito di certi altri aspetti della vita psichica) Unheimlich, perturbante. Con questo non ho certo risposto alla domanda cosa sia il tempo, per cui non saprei che rimandare alla saggezza di Sant’Agostino (“che cosa è il tempo?” quando nessuno domanda, si sa ma se qualcuno domanda…). Come psicoanalista vorrei tuttavia aggiungere un richiamo a un concetto molto importante di Freud, la Nachträglichkeit, con cui egli evidenzia la risignificazione del passato alla luce del presente, sempre con riferimento all’inconscio (di cui peraltro segnala più volte il carattere atemporale). Non è solo il passato a dare significato al presente, ma è anche grazie al presente che noi attribuiamo un senso nuovo al passato (o un senso tout court di cui prima era privo). Questo testimonia la rilevante distanza della psicoanalisi da una concezione lineare della temporalità. Ma l’après coup (o Nachträglichkeit) non è riferibile solo alla vita inconscia: essa può mettersi a confronto con quella che Gadamer chiama la storia degli effetti riferendosi alla risignificazione e alla reinterpretazione della storia alla luce del presente. Insomma noi viviamo nel presente senza sapere con esattezza cosa ci sta accadendo e quale nostra identità sia in gioco in quel momento. Questi accadimenti inconsci, consci e addirittura storici vengono ritradotti senza tregua alla luce dei nuovi eventi che ci occorrono e in questo modo risignificati e trasformati.
– Nel testo si ricordano i diversi approcci al problema dell’identità. Sorge il classico dubbio che, anche dal punto filosofico, l’identità stessa rischi di divenire un archetipo, un eidos, più che una realtà con la quale fare i conti. Ci aiuti a venirne fuori.
-E’ difficile definire l’identità proprio per la sua instabilità, ma ciò non toglie che essa sia una “realtà” per lo meno nel senso che ha effetti “reali” quali possono essere rappresentati ad es. dalle nostre azioni. Vorrei allora così riassumere alcuni punti essenziali della nostra ricerca: a) l’identità è molteplice in quanto mette in gioco diversi personaggi che si succedono o prendono contemporaneamente parola nel teatro della mente: a questo ci riferiamo quando –da diversi punti di vista- parliamo di Es-Io-Super Io, di conscio e inconscio, di Sé molteplice o sé dissociato, di identificazioni multiple, etc.; b) l’identità è dialettica, cioè richiede una continua “contrattazione” tra le diverse parti di me, ma non di meno abbisogna di una stabilità, di un filo conduttore, in assenza del quale si cade nella patologia psichica oppure, cambiando totalmente registro, nella doppiezza e nella malafede (la quale, come si esprime Sartre, tende ad attribuirmi un essere che non sono); c) l’identità non è arbitraria ma vincolata: al corpo, alla nostra storia, all’alterità; d) l’identità è personale, in quanto, seppure le sue basi siano biologiche e inconsce, rimanda alla persona (“individui si nasce, persone si diventa”), che è soprattutto connotata dalla capacità di agire consapevolmente e dalla libertà decisionale.
-Interessante, ma con quali implicazioni?
-Questa idea di persona si “complica” però in forza di un passaggio per le regioni dell’inconscio. E’ ad esso che dobbiamo la contemporanea presenza sulla scena di una molteplicità identitaria che può far addirittura profilare il rischio della sua sparizione: la contemporaneità di diverse identità, come ad esempio nei disturbi dissociativi ma anche nel sogno e nella così detta dissociazione “fisiologica”, interroga infatti profondamente questo concetto. La coscienza, sostituendo la molteplicità con il cambiamento, rilegittima l’idea di identità col riconoscere che, proprio grazie al tempo che la trasforma, tuttavia essa persiste; e) l’identità è traduttiva giacché si ricostituisce continuamente attraverso quelle che abbiamo chiamato trasformazioni traduttive. La traduzione non può essere colta se non nei suoi effetti trasformativi, così come la trasformazione non si dà se non come traduzione di un antecedente, quale che ne sia il livello (genomico, corporeo, psichico). L’identità si genera da queste operazioni che plasmano la materia vivente, dapprima d’ordine molecolare (a partire dalla sintesi degli acidi nucleici che chiama in causa un RNA traduttore), biochimico e genetico, sino a configurarsi un po’ più avanti come materia affettiva. A questo livello, cioè a livello inconscio, il fondo pulsionale, emozionale e sensoriale è tradotto in rappresentazioni inconsce, che a loro volta si trasformano emergendo alla coscienza (ad es., attraverso la rimozione e il mascheramento, o attraverso la simbolizzazione) o anche ricadendo nel magma dell’irrappresentabilità. A questo livello, nel suo continuo farsi e disfarsi, l’identità parrebbe “non esistere”. Ma cosa accade a livello coscienziale? La coscienza è l’altro luogo, quello, come già dicevo, ove il tempo torna a presentarsi come temps vécu e l’identità riemerge. Riemerge con le sue incertezze, le sue ambivalenze, i suoi nuclei dissociati, ma riemerge. Per questo risulta essenziale il lavoro della memoria, il quale vincola il me attuale al me del passato nonostante i cambiamenti (quand’anche radicali) che in un certo arco temporale/esperienziale si sono realizzati. Vorrei allora ricordare le parole con cui il testo si conclude: «La psicoanalisi e la filosofia ermeneutica, nel loro appello condiviso alla coscienza e al Sé – che le distanzia dalle concezioni relativiste e nihiliste e le induce a non rimanere irretite nella sfera dell’irrazionale, che pure debbono inevitabilmente attraversare – sono così chiamate a collaborare a un processo di costruzione dell’identità di cui pure riconoscono il carattere transitorio, volatile, inafferrabile. Alcuni potrebbero aggiungere: effimero; noi preferiamo: senza fine» (p.326). Ma anche la nostra ricerca non termina qui…
Vinicio Busacchi, Giuseppe Martini
L’identità in questione
Saggio di psicoanalisi ed ermeneutica
Jaca Book, 2020