di Maria Bologna
Di là dai respiratori
vedo solo i loro occhi,
terribili e bellissimi
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Può accadere che il terribile esca dai romanzi e dagli incubi della notte e si materializzi nelle nostre piccole vite inconsapevoli. E’ accaduto periodicamente nella storia delle collettività, come per le guerre, i genocidi, le grandi epidemie del passato. Anche il tempo della modernità è stato attraversato da eventi trasformati in fantasmi ancor più terrificanti ed incalzanti per l’effetto amplificante dei mezzi di informazione. E’ un fenomeno di questi tempi che tutto diventi qui-ora-sempre, concernente ogni attimo della vita di ciascuno, come un riflesso distorto che si ripete all’infinito nel gioco di specchi della identificazione con l’altro. Dall’Aids a Chernobyl e Fukushima, dalla crisi economica al terrorismo e agli esodi migratori.
La notizia dell’attacco alle torri gemelle, le immagini diffuse in tempo reale in modo incalzante hanno generato stati acuti di disagio emotivo attraverso il mondo. Tra il personale viaggiante di diverse compagnie aeree, in volo in quel momento su rotte molto lontane, alcuni hanno mostrato esiti psicologici a distanza, non sono mai più tornati al lavoro di prima.
Così la vita di tutti i giorni è attraversata da queste materializzazioni del terribile, senza considerare quanto già accade dietro l’angolo delle nostre case o, peggio, dentro esse. Un sottile disagio si infliltra nelle nostre vite, una sensazione mal definita di incertezza e paura, legata alla necessaria ridefinizione delle sicurezze, dei confini, delle identità, alla perdita della percezione di poter decidere, controllare, prevedere.
Mentre avanza subdolamente la consapevolezza nascente di un mondo a tempo determinato, della fine della propria stessa esistenza, del rischio o piuttosto della certezza che esperienze catastrofiche, in natura episodiche con un inizio ed una fine, possano diventare una condizione permanente.
Come smettere di essere dei, potrebbe dire qualcuno, finalmente.
Poi sono arrivati il piccolo virus pandemico, il tempo dell’isolamento forzato e le misure di distanziamento, i parossismi della paura spinti fino a toccare le punte dell’angoscia senza nome con il rischio di un arretramento difensivo nel funzionamento personale e relazionale. La percezione di minaccia e la paura possono innescare un circuito più antico e distante dalle risposte proprie della logica frontale; circuito che in nome della sopravvivenza ci avvicina a chi ci precede sulla scala evolutiva.
Lo spazio del confinamento può diventare una sorta di locus terribilis, sensorialmente troppo vivido, capace di generare mostri, di incutere un timore dalle radici antiche ed insondabili, di richiedere preoccupato rispetto. Terribilis est locus iste, ammonisce l’Antico Testamento.
Per convenzione e per protezione è bene che non possa essere esattamente localizzato; questo lo trasforma in una regione dell’immaginario, in cui poter esprimere senza infingimenti le angosce e le istanze più distruttive.
Ma l’esperienza del terribile può anche essere un segno da interpretare; non a caso, l’etimologia latina di monstrum, una delle figure del terribile, significa indicare, segnalare. Il terribile è dunque traccia di una discontinuità nell’ordine delle cose, dice di noi e parla a ciascuno di noi, ci addestra al senso del confine e del limite, può indicare una svolta nella traiettoria vitale.
Il locus diventa dunque un limen che può condurre oltre, come nella allegoria cristiana della chiesa come porta del Cielo. In una prospettiva antropologica potrebbe dirsi che abbia a che vedere con il collegamento tra umano e divino, con le manifestazioni del sacro e della grazia.
Dando corpo alle inquietudini della modernità, mette in tensione i limiti di ogni scienza cosiddetta esatta e si fa occasione della necessità di un ritorno ad un sapere antropologicamente fondato. L’interruzione del dialogo tra umano e divino lascia l’uomo solo al centro della scena, davanti ai fantasmi della sua responsabilità. Il terribile allora si fa specchio, ne riflette all’infinito l’immagine spalancando gli abissi della distruttività e della follia.
Il locus terribilis può assumere diverse forme.
E’ la prigione che segrega senza una ragione esplicita il protagonista de Il Custode, da cui emerge solo la voce narrante[1]. Nell’universo parossisticamente speculativo in cui egli è sprofondato tutte le ipotesi si equivalgono, prigioniere di algoritmi imperfetti. Eppure in questo isolamento dalla tonalità persecutoria la presenza dell’altro appena intuita o intravista inizia a costruire un dialogo silenzioso, un’intesa tra i corpi, che si alimenta di riflessi e di rimbalzi di voce. La paura, emozione primaria, è segnale che avverte e salva. Dice del pericolo ma anche di come sfuggirlo, addestra l’attesa ed il coraggio. Può fare dell’altro un nemico, ma anche un alleato.
E’ la stanza dell’isolamento di ciascuno di noi durante il lockdown da pandemia, da cui trapelano voci lontane e volti pallidi in una difficile messa a fuoco, che rischiano di essere riprodotti all’infinito sui circuiti digitali anche quando l’emittente originario non esiste più.
Quelle qui riportate sono le richieste d’aiuto e le testimonianze raccolte nella primavera del 2020 attraverso una help-line telefonica, attivata in una delle regioni più colpite del Nord Italia.
Tutte queste voci sono animate dalla paura e dall’angoscia. E’ la percezione del tempo e dello spazio a modificarsi per prima, mentre la riemersione di vissuti antichi incalza uno stato di coscienza a tratti alterato, non sempre capace di distinguere tra veglia, sogno, fantasia, allucinazione, tra ora ed un tempo.
Nello spazio coartato la minaccia si fa prossima, concernente; nell’azzeramento dei gradienti temporali si fa immanente in un assedio claustrofobico.
Le metafore sono le più estreme, hanno a che vedere con l’incarcerazione, il seppellimento, la passività impotente; tutte rimandano, in ogni caso, al corpo-ostaggio, al corpo espropriato ed in pericolo.
Nelle esperienze di isolamento sensoriale l’alterazione dei processi percettivi interessa tutte le convenzioni attraverso le quali la mente logica funziona: alto/basso, vicino/lontano, fermo/in movimento, grande/piccolo, lento/veloce, retto/sinuoso, prima/dopo, allora/adesso, positivo/negativo, benevolo/malevolo, familiare/estraneo.
Questa rischiosa destrutturazione dell’esperienza dell’Io può aprire a nuovi stati di coscienza, che si manifestano attraverso segnali sottili, un avvertimento o un chiarore improvvisi possono bastare. I confini di queste dicotomie radicali si fanno fluidi ed imprecisi, si permeabilizzano, sincronicamente una cosa è l’uno e l’altro.
Quando ciò che è vissuto come estraneo sollecita una percezione di insondata ed inspiegabile familiarità, in quell’attimo si annida l’esperienza che il grande clinico viennese d’inizio Novecento ha definito perturbante. Sinonimo di confusione, incertezza logica, spaesamento ed angoscia di fronte a ciò che si ripete continuamente, automaticamente senza riuscire a comprenderne le ragioni oppure per ciò che ci colpisce per la sua natura ibrida o per le cose inanimate dotate di movimento. Contrario di tranquillo, confortevole, fidato, domestico. Eppure entrambi i significati.
La ricerca avanzata sui robot ci rivela un aspetto interessante: la sensazione di familiarità cresce all’aumentare della somiglianza con la figura umana, ma si interrompe per lasciare il posto all’inquietudine quando si raggiunge un estremo realismo rappresentativo. La capacità di riconoscere l’altro sta in uno spazio intermedio, non troppo lontano né troppo vicino.
Lo spaventoso ci appartiene più profondamente di quanto non pensiamo, si annida dentro di noi, prima ancora che nelle circostanze esterne, tanto radicalmente da coincidere con ciò che ci è così familiare ed intimo da diventare segreto. Mostra allora il suo duplice volto: la paura ed il desiderio.
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Sono costretto in uno spazio di cui ignoro anche le più immediate adiacenze e dove ogni rapporto con il mondo esterno mi è rigidamente vietato, ogni via d’uscita preclusa… Libero, in apparenza, nei movimenti –giacché non ho bende sugli occhi né catene ai piedi o alle mani- devo adattare il mio corpo a privazioni continue e a leggi sconosciute, che opprimono i miei sensi in modo diverso, ma con uguale persistenza e ferocia. Rammento appena il colore di certe piante, l’odore della terra bagnata. I miei occhi devono abituarsi a un campo visuale così ridotto che temo abbiano perduto per sempre la nozione esatta del grande e del piccolo, dell’alto e del basso. I miei gesti –i passi, i salti, l’impiego delle due mani- sono limitati e discordi, gravati dalla minaccia di una lenta, inesorabile prostrazione.
Ho paura di essere intubata, di non poter respirare e di rimanere senza ossigeno, soffro di claustrofobia. Se dovessero mai venirmi a prendere in ambulanza, potrebbero non tenere in considerazione le mie paure. Le ho scritte su un foglietto per medici e infermieri. Ho una bimba di otto anni, non saprei a chi lasciarla.
Nel mio stato di completa ignoranza, ogni cosa può assumere l’aspetto di un chiarore improvviso, ogni supposto movimento a distanza, ogni leggero battito che credo di udire in una cerchia appena più ampia del mio solo corpo può sembrarmi una scossa decisiva, un avvertimento significativo e potente. Immobile come sono, mi trovo, paradossalmente, a disporre di percezioni che forse il movimento e l’ampiezza non potrebbero assicurarmi.
Mia figlia e le mie due nipotine vivono in un paesino non lontano, ma per adesso non possiamo vederci. Sono in terapia del dolore, ho avuto un tumore ed un infarto, sono molto spaventata. Mi sento molto sola e ho paura di non poter più vedere le mie nipotine. Non posso uscire di casa ed un’amica mi porta la spesa. Ho paura di morire per questo virus, che è come un avvelenamento. Per distrarmi guardo qualche telenovela, non i telegiornali, perché mi mettono angoscia. Non riesco a distrarmi più di tanto, perché la paura è tanta e la solitudine anche.
Il mio compito è reso più arduo, devo dirlo, anche dal cambiamento che ha subito dentro di me la nozione del tempo. Da quando mi trovo qui, abito un tempo privo di quelle scansioni mobili e rozzamente incisive che sono i fatti; un tempo coincidente, per di più, con uno spazio così ridotto (e così immutabile nelle sue dimensioni) che può sembrarmi senza alcuna incoerenza minimo quanto una frazione di secondo e infinito come un’eternità.
Una volta era il ritmo delle mie azioni, non il calendario, a creare il tempo. Qui, dove non succede mai niente né io posso compiere azioni di sorta, un tempo affollato unicamente di pensieri cammina sul filo del mio sguardo, corre coi miei silenzi, si serve del giorno e della notte come di semplici avvertimenti di chiarore e di buio, di riposo e di veglia. Mi dà, anche, l’illusione di poter vivere in un giorno e nel giorno avanti come se fosse uno solo; di essere ed essere stato per più giorni e più notti come in un solo istante del giorno e della notte in cui sto realmente vivendo; di muovermi, infine, mentre sto fermo. E’ un tempo ridotto alla severa immobilità di un punto, ma è anche sconfinato e fluttuante. Se da un lato è difficile, per me, imbrigliarlo nei suoi scomparti (cioè suddividerlo in giorni, ore e minuti come una volta), dall’altro è divenuto possibile navigarlo in lungo e in largo liberamente, come un grande mare aperto da cui non si avvista più neanche una piccola striscia di terra.
Mi sento molto sola, mio figlio non è ancora venuto a prendermi, perché è diabetico ed ha un po’ di incertezze sul da farsi. Sono molto giù di morale, forse non potrò più andare a casa sua e stare un po’ con lui. C’è stato un altro momento della mia vita, in cui non riuscivo a muovermi a causa di una crisi d’ansia, ho molta paura che riaccada. Mi ricordo quando mio marito era ancora in vita. Una volta finita la quarantena mi piacerebbe fare qualcosa per me, c’è del dolore che non ho mai affrontato veramente e che riaffiora proprio ora, in un momento già difficile di suo.
La sensazione che provo è come d’una grande energia menomata in un punto fondamentale. Ricordo particelle di vita separate fra loro, in tutto simili a percezioni ancora nitide e ferme, aderenti a ciò che per lunghi anni ho chiamato –o creduto che fosse- la realtà circostante; ma il grande quadro che le abbracciava in una sintesi più ampia (e ne faceva probabilmente, ai miei occhi, una storia umana) non riesco a ricostruirlo.
Mio marito, infermiere, ha lasciato casa dieci giorni fa per andare a vivere da un collega per proteggere me ed i bambini. Avvertono la mancanza, se sentono un motorino passare sotto casa si affacciano subito alla finestra per vedere se sia il papà. Non riesco a non piangere, se penso al momento in cui li accompagnava a letto. Mi dispiace di non farcela. Abbiamo spiegato tutto ai bambini, ma sono preoccupata di cosa possano realmente pensare quando li vedo molto pensierosi e chiusi in se stessi. Vorrei poter giocare con loro, ma non ne sono più capace.
Mi sveglio all’improvviso di notte. Uno stormo di ragazzi in corsa verso una meta nascosta, una faccia velata da un sorriso incerto, la sagoma tremante di un vecchio, una giovane donna, un cane mitemente accucciato appaiono in un angolo della stanza, simulando per qualche istante i tratti dei miei scolari, dei miei familiari e del mio cane. Mi vengono incontro alla rinfusa, divisi o sovrapposti: escono senza contorni precisi da una pallida poltiglia di ombre, e mi guardano, e io guardo loro, per attimi di struggente lucidità. Dovrei stringerli a me, corteggiarli, invece mi danno più turbamento che gioia. Non so se un particolare che mi sfugge o un insieme di circostanze dimenticate fa sì che lieviti in loro una sotterranea asprezza nei miei confronti; di più: un rimprovero concentrato e crudele, come se averli lasciati improvvisamente fosse una mia colpa invece che un destino che ho interamente subito. Così, i pochi barlumi ai quali ancora mi aggrappo (perché posso disegnarli con un po’ di chiarezza nella mia mente) non bastano né a darmi il sostegno di una vera rievocazione né ad assicurarmi un oblio intero e definitivo.
Ho abusato di un ansiolitico due sere fa, sono rimasta confusa per tutto il giorno successivo. Ne ho parlato con il mio psichiatra, avremo un appuntamento su Skype domani. Sa che ho fatto altri abusi di farmaci in passato. I miei sono di là, non sanno niente.
Le cose, qui dentro, hanno una strana mobilità nella loro miseria: cominciano ad agitarsi, e possono produrre altre cose, quando mi concentro su di esse per domare la solitudine. Che c’è di più ovvio ormai, nelle mie giornate, di quando irrompono intorno a me, come ho detto, librerie, lampadari e altra mobilia della mia casa di un tempo? Queste sagome immaginarie ostentano una presenza che è molto vicina alla concretezza: hanno contorni precisi, esalano aromi acri e forti di vecchi legni, leggeri scampanii di cristalli che svegliano nei miei sensi piccole voluttà di concentrazione, raccoglimento e calore. Forse, se lo volessi, non potrei accendere quel lampadario né aprire quell’armadio, ma la materia di cui sono fatti mi è così familiare che posso “sentirli”. La loro compattezza supera la mia ovvia incredulità: per negarli devo tirar via lo sguardo con maggior forza di quanta ce ne è voluta per constatare che erano là.
Sono preoccupata per mia figlia, che è rimasta in un’altra regione, ho paura di non vederla più, temo che questo stato di quarantena possa durare ancora per molto tempo. Quando finirà tutto questo? Quando potrò uscire nuovamente a fare delle passeggiate? Quando mia figlia potrà muoversi e tornare a casa? Vivo sola con un cane e due gatti, mi annoio molto e sto perdendo anche la voglia di mangiare. Sono angosciata per la durata di questa quarantena, devono dirmi il termine ultimo di tutto questo.
A volte le nuove immagini producono scarti violenti e intrattengono con il mio corpo rapporti complessi. Quando il vecchio berretto sta appeso per lungo tempo alla maniglia della finestra, ad un tratto può assumere l’apparenza gonfia, pennuta e triste di un grosso piccione. Tutto si svolge dinanzi a me nel giro di pochi istanti. Aguzzo lo sguardo da quella parte con un chiaro presentimento: a un certo punto il berretto scompare, l’animale si disegna distintamente nel vano della finestra e un breve fremito di ali mi preannuncia che il suo volo è imminente. Tuttavia non mi sento tranquillo sulla sua sorte; prevedo il varco che si aprirà nella materia che ci imprigiona, e sono in ansia per lui. Cerco di richiamarlo temendo che venga abbattuto appena fuori dal mio controllo. Ma succede il contrario: da un momento all’altro io stesso mi trovo al suo fianco, mi vedo letteralmente con lui, aggrappato, prima, alla maniglia della finestra, un attimo dopo al di là del varco, ansimante, ad annaspare e scalciare verticalmente con tutto il mio corpo, contro il muro di calce. “Per questo, -penso- sei uscito dal vecchio berretto! Per attirarmi fuori di qui col miraggio di essere libero e affrettare la mia rovina. E io che volevo salvarti!”. E cerco di afferrarne le zampe e le ali, raspando contro il muro, alla cieca, vendicativo ed impotente, finché posso vedermi sospeso nel vuoto e finché il mio corpo resiste, vacillando, all’imminenza della caduta.
Sono molto preoccupato, sto stretto in questa casa, faccio molta fatica tra queste mura. Non posso più andare a camminare nel parco per stare da solo e avere i miei momenti, era l’unica cosa che mi tranquillizzava. Temo che la mia ansia sfoci in nervosismi ingiustificati soprattutto nei confronti dei miei. E se questa quarantena si protrarrà fino a luglio, come farò a rimandare le passeggiate per così tanto tempo? E’ l’ennesima batosta della mia vita.
La cosa è tanto più singolare in quanto non solo ho la certezza di rimanere fermo e disteso sul letto, ma sento che proprio l’immobilità –la posizione supina e in certo modo disfatta in cui sono caduto dopo le fatiche del giorno- è la condizione stessa perché quel movimento, simultaneamente, si compia. Sono fermo, ma c’è una dislocazione istantanea che mi riguarda, un tratto di cammino, un viaggio, un’idea di esterno che improvvisamente mi avvolgono. Alla domanda che mi ripeto d’istinto ad ogni inizio di questa uscita: “Dove mi trovo?”, rispondo subito nel senso della novità inaspettata: “Sono in cammino, sono fuori di qui!”; ma so che non potrei dare una risposta così strabiliante se non vedessi nello stesso tempo il mio moto da una condizione di stasi, se non potessi contemplarmi lì fuori, per così dire, da dentro, e se non fossi costretto a ripetermi con altrettanta chiarezza: “Sono fermo, e sono chiuso dentro la stanza”.
Sono sola in casa, il mio compagno in questo momento è al lavoro. Ho la febbre da tre giorni con un po’ di tosse. Ho sentito il medico curante, dice che devo aspettare e vedere, che posso prendere un antipiretico. Sono molto spaventata.
Un ampio spazio si apre davanti a me, fasciato da una luce livida e densa. Mi muovo al suo interno come dentro una materia informe, e non vedo in lontananza né confini né cose. Tuttavia la mia marcia ha una direzione precisa: non un fine prestabilito (giacché la mia volontà non è in gioco, almeno all’inizio) ma certamente un punto d’arrivo. Quale con esattezza? E’ difficile dirlo. So solo che tendo a qualcosa che raggiungerò a patto di avanzare speditamente in quel senso, e che il mio passo è agile e deciso come quello di un viaggiatore che conosce bene il percorso. In realtà (e sarebbe assurdo il contrario) non conosco niente di quello spazio, non so perché mi muovo, e per molto tempo non avvisto nessuna meta davanti a me.
Vado a lavoro, nonostante tutto. Ho difficoltà ad addormentarmi la sera e frequenti risvegli notturni, spesso mi obbligano ad alzarmi dal letto e non riesco a riaddormentarmi. E’ strano, non mi era mai successo prima. Guardo molta TV alla sera e soprattutto le notizie sull’attuale situazione.
Ho, in compenso, vincoli molto stretti con la parte di me che è rimasta ferma. Direi che ci lega un rapporto di attenta reciprocità. Come posso vedermi dal chiuso delle pareti mentre cammino in quell’esterno insondabile, così, ad un certo punto del viaggio, mi sento in grado di percepire, da fuori, il mio corpo sfinito e riverso sul letto. Devo impiegare qualche secondo a mettere a fuoco l’immagine e a riconoscermi in essa; ma alla fine mi vedo; e riesco ad osservarmi anche a lungo, e persino in alcuni dettagli. Non ho bisogno di voltarmi indietro per farlo; mi basta guardare: come se il carcere che ho appena lasciato alle spalle muovendomi in linea retta mi stesse ancora davanti, e quel corpo immobile, pur separato da me, mi precedesse di poco.
Sono infermiera, mio marito è nella nostra casa di vacanza per precauzione, sono stata spostata dal mio reparto al Covid-19, così all’improvviso dalla sera alla mattina, senza sapere niente e senza saper fare niente. Sono distrutta dalla fatica, dal senso di impotenza e di inutilità, non riesco più a prendermi cura di me stessa.
A quel punto mi accorgo d’essere in certo modo guidato: da fermo, sto controllando il mio corpo che si espande e lievita fuori di me, che tenta, vorrei dire in mia vece, di compiere un’impresa esaltante e probabilmente impossibile. Non potrei definirlo un tentativo di fuga; direi che in questo viaggio c’è un senso di rappresaglia, qualcosa come una risposta indiretta al silenzio e all’intransigenza dei miei custodi. Inabile a ottenere da loro, fino a questo momento, un qualsiasi contatto, incapace materialmente di evadere, sto cercando di rivalermi con altri mezzi. Forse la traslazione di cui sono oggetto è una ricerca di zone improprie ed inaccessibili, dove collocare alternativamente il mio corpo; di un insediamento diverso, se non estremo, che sfugga al controllo dei loro sguardi. Non posso scavarmi una galleria sotterranea come un eroe d’altri tempi; posso, però, incamminarmi verso una dimora lontana, su cui abbia avuto la costanza e la disperata volontà di concentrare i miei sforzi.
Sono arrabbiata e preoccupata perché dove lavoro non ci sono dispositivi di protezione, non c’è una giusta comunicazione. Alcuni colleghi sono positivi al virus. Non riesco a dormire e a concentrarmi quando sono sul lavoro.
In effetti, lo spazio in cui mi muovo si delinea e s’infoltisce man mano che ne prendo coscienza da fermo. La prima sensazione è quella, elementare, della marcia in avanti, del fuori: una specie di infinita, inebriante possibilità di penetrazione e di ampiezza; la seconda è legata ad un’idea più stabile di paesaggio. Ad un tratto sento nascere in me la nozione di albero: subito dopo avverto dinanzi a me la materiale compattezza, la tessitura colorita e ondeggiante di un bosco. Mi inoltro con un filo di sofferenza; giacché ora contendo i miei passi a una natura ferace, torpida e parzialmente vischiosa. Umori di erbe soffici e lente, leggere traspirazioni di alberi secolari rallentano la mia marcia; il mio corpo è vellicato da blandi aromi, avvolto in un sopore benefico di malve, resine e muschio. Malgrado questo, procedo nel mio cammino. Da fermo, dalla branda su cui sono rimasto inchiodato, dispenso la capricciosa energia che mi fa avanzare: la pervicacia insensata che mi fa tendere, contro ogni aspettativa, a una radura deserta.
Cerco di tenere a bada mio marito che scappa da casa di notte in pigiama, inconsapevole e disorientato. Sono venti giorni ormai che non esco, ho iniziato a soffrire di coliche forse per il forte stress. Ci vorrebbe qualcuno che mi aiutasse, la notte non riesco a chiudere occhio, è il momento peggiore. L’altra notte mi ero appisolata e l’hanno riportato a casa i Carabinieri.
Il nuovo scenario è inospitale quanto l’altro era fertile e generoso di segni. Non si può dire che non abbia anche questo un suo carattere e una sua potente attrattiva, ma sento che richiederà più tempo e più sofferenza per rivelarsi. Subito, fin dai primi passi, sono investito da un sentore di rifugio imminente, come da una risonanza lontana di cavità del terreno, o di grotta; e mi sembra di resistere appena, mentre avanzo, a una forza che mi sta attirando verso qualcosa. La luce è parzialmente occultata, si direbbe riflessa da un altro spazio. Il suolo, arido e liscio, ostenta un’assoluta mancanza di forme e di fenomeni naturali, ma possiede l’efficacia di un nulla corposo, limpido, in un certo modo regolato ai miei passi. Ho la percezione esatta dell’arrivo e dell’insediamento del mio corpo in una dimensione ignota. Non sono fermo, ma neppure procedo; direi che è cambiata la qualità della mia traiettoria. Non avanzo: mi assesto con ampie volute, con movimenti calmi e composti, all’interno di qualcosa che non chiamerei veramente un luogo (benché mi ostini ad associarlo a un’idea di grotta), ma piuttosto una “sede” particolare, che è anche una condizione del corpo, e che sembra riflettere una precisa modalità di esistenza.
Mio figlio ha sette anni e mezzo, ha sempre avuto reazioni eccessive di rabbia anche per poco, ma da quando siamo chiusi in casa sono in escalation. La sua tolleranza ai “no” è zero, in un momento di rabbia ha preso un coltello ed ha detto di volersi suicidare. Non so cosa fare. “… Sono fatto così, è il mio carattere…”, dice.
Con tutte le mie energie, come se facessi un respiro profondo in vista di un’immersione, mi preparo a conoscere interamente il mio nuovo assetto. Ma a questo punto qualcosa si inceppa nei miei movimenti. Il filo che mi lega alla stanza in cui sono rimasto rinchiuso mi trasmette timori ed oscure volontà di controllo che agiscono su di me come una zavorra. La forza d’attrazione che mi ha portato fin qui s’interrompe. Nel giro di pochi istanti, il tempo del mio viaggio non coincide più con quello dei miei pensieri da fermo, né con la percezione che riuscivo ad averne, fino a un attimo prima, dalla mia branda: è diventato un ricordo.
Mio padre è morto un’ora fa, soffriva da tempo di problemi ai bronchi. E’ colpa mia, gli ho portato il virus a casa, lavoro in una struttura per anziani.
Non mi sfugge il paradosso di cui sono vittima. Io guido, controllo, e in certa misura gestisco l’intero viaggio dalla mia branda e dal chiuso, ma lo vivo materialmente solo lì fuori, mentre avanzo, e con una misteriosa passività. Ciò significa che è dotata di raziocinio e di forte incentivo all’azione la parte di me che è immobile e prigioniera, mentre è priva di volontà e di discernimento quell’altra, che agisce, esplora e può muoversi liberamente in un vasto spazio. Forse il nodo del problema è in questa divisione di ruoli. Il mio corpo avrebbe una vocazione ad immergersi nei luoghi direttamente, con la sola forza del proprio moto in avanti, ma non può farlo prima che la mia mente, dal basso e dalla posizione supina, ne definisca le specie e le probabili identità secondo il proprio linguaggio. Insomma, è come se avessi, delle cose in mezzo a cui mi avventuro, una memoria anzitutto linguistica, e le riscoprissi come ricordi di nomi prima che nelle loro forme visibili. Non posso dare un nome all’ultima tappa del viaggio: dunque non posso veramente abitarla.
Ma se io urlo, qualcuno potrà mai ascoltare il mio urlo? E’ l’angoscia più forte che io abbia mai sperimentato, mi dà l’idea del seppellimento e mi fa pensare di aver percorso una strada senza ritorno.
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La mia paura è la mia essenza
e probabilmente
la parte migliore di me stesso
Franz Kafka
[1] Carmelo Samonà Il Custode, Einaudi