di Elisa Puvia
Da sempre la bellezza è considerata un valore. Tutti i popoli e le culture hanno individuato specifiche modalità di cura, ornamento e abbellimento del corpo. Pressoché ovunque, queste prescrizioni culturali hanno riguardato prevalentemente le donne. Da un punto di vista evolutivo, la bellezza rappresenta un forte segnale relativo alla capacità riproduttiva di una donna, in particolare il rapporto vita-fianchi. Anche le caratteristiche facciali, quali ad esempio la qualità della pelle del volto, la luminosità, la definizione dei dettagli, sono indici vantaggiosi da un punto di vista evolutivo e quindi da sempre considerati di grande importanza nella valutazione di una donna quale potenziale compagna (Fink e Neave, 2005). Nessuna meraviglia, dunque, se anche la nostra società pone molta attenzione alla cura del corpo femminile.
Quando però il corpo delle donne viene considerato quale unica caratteristica in grado di rappresentarle e la bellezza quale unica qualità richiesta, allora non stiamo più parlando unicamente di un valore da preservare ma è necessario chiamare in causa altri fattori e cercare di chiarire l’oggetto della discussione. In un articolo apparso sul Financial Times nel Luglio 2007, Adrian Michaels, corrispondente a Milano del prestigioso quotidiano londinese, denunciava la presenza ossessiva e persistente di corpi femminili nella pubblicità e nella televisione italiani. L’articolo, dall’eloquente titolo “Naked Ambition”, parla di corpi femminili inutilmente scoperti, utilizzati per intrattenere un pubblico a casa, vendere prodotti commerciali, promuovere campagne pubblicitarie di ogni genere. Il corpo quale oggetto dunque, quale strumento per raggiungere un obiettivo di carattere finanziario oppure più semplicemente per esclusivo piacere personale.
Queste premesse e considerazioni sono alla base della “Teoria dell’Oggettivazione”, introdotta da Barbara Fredrickson e Tomi-Ann Roberts (1997). Le due studiose spiegano come si possa parlare di oggettivazione sessuale nei casi in cui il corpo di una donna, parti del suo corpo o funzioni sessuali siano separati dal resto della sua persona, ovvero trattati come se fossero in grado di rappresentarla. La parte per il tutto, in cui la parte, ovvero il corpo, è sostituito all’intera persona, privando in questo modo la donna della propria personalità e specificità di essere umano. L’esperienza comune è quella di poter essere potenzialmente e costantemente trattate in quanto corpi, valutate unicamente per l’uso ed il consumo da parti degli altri. Questa sessualizzazione dei corpi femminili può manifestarsi in diversi modi, da forme più blande di attenzione rivolta al corpo (come ad esempio fugaci occhiatine), a forme più estreme di violenza sessuale. La modalità più invasiva e quindi potenzialmente dannosa di sessualizzazione dei corpi femminili è quella che in letteratura viene definita sguardo oggettivante, ovvero l’ispezione del corpo femminile o di sue parti attraverso lo sguardo, spesso accompagnata da commenti orali di natura valutativa. Questo sguardo oggettivante è la forma più subdola e negabile di oggettivazione sessuale, è pervasiva, in quanto potenzialmente presente nelle normali interazioni quotidiane, inappropriata e spesso non gradita. Una prospettiva di questo tipo è utilizzata anche nei programmi televisivi e nella pubblicità: chi non ricorda, ad esempio, la pubblicità di una nota bevanda alcolica in cui a Charlize Theron restava aggrappato un lembo del vestito ad una sdraia e lo sguardo della telecamera seguiva da una prospettiva strettamente posteriore l’evolversi dell’inconveniente?
In uno studio condotto anni prima, Archer e colleghi (1983) hanno individuato un indice per quantificare il modo in cui i media si focalizzano sui corpi femminili, ovvero il rapporto tra la quantità di volto che viene mostrata rispetto al resto del corpo. Questi autori hanno evidenziato come gli uomini tendono ad essere raffigurati con una maggiore enfasi sul volto ed i suoi dettagli, mentre le donne tendono ad essere raffigurate con un’enfasi sul corpo e le parti sessualmente rilevanti. Sfogliando riviste di moda e bellezza, ma non solo, non è difficile incontrare corpi femminili ai quali è stata inspiegabilmente eliminata la testa, oppure talmente coperta e relegata sullo sfondo da non lasciar trasparire alcun dettaglio. Aspetto ancora più significativo, lo studio di Archer e collaboratori ha mostrato come non solo alle donne venga attribuito un indice di prominenza facciale minore rispetto agli uomini, ma a tale rappresentazione venga associata un’attribuzione di minor capacità intellettiva.
Tali effetti denigratori, tuttavia, si manifestano anche nel caso in cui le persone siano portate a focalizzarsi più genericamente sull’aspetto fisico di una donna piuttosto che sulla sua personalità. E’ ciò che hanno mostrato due studiosi dell’Università della Florida del Sud, Nathan Heflick e Jamie Goldenberg (2009), i quali hanno chiesto ad un gruppo di partecipanti di descrivere un personaggio famoso basandosi sulla persona oppure sull’aspetto fisico del personaggio in esame. I risultati hanno mostrato come in quest’ultima condizione, il personaggio veniva giudicato meno competente. Questi risultati sono ancora più rilevanti se si pensa che il personaggio in esame era Sarah Palin, candidata alla vice presidenza repubblicana alle elezioni americane. Il focus sull’aspetto fisico della candidata diminuiva inoltre nei partecipanti l’intenzione di voto per l’ala repubblicana alle imminenti elezioni presidenziali. Lo scalo di competenza sembra essere un effetto di cui soffrono in particolare le donne. Infatti, nel caso in cui i due personaggi noti messi a confronto erano un uomo ed una donna, solamente il personaggio femminile era giudicato meno competente, mentre il giudizio del personaggio maschile rimaneva competente. Utilizzando la stessa metodologia e procedura, lo studio è stato replicato ed ha ottenuto i medesimi risultati anche nel caso di personaggi non famosi, eliminando la possibile spiegazione che i precedenti risultati fossero determinati da pregiudizi esistenti nei confronti dei personaggi in esame. Ancora una volta, la richiesta di focalizzarsi sull’aspetto fisico piuttosto che sulla personalità diminuiva i giudizi di competenza e moralità attribuiti a personaggi femminili ma non maschili, indipendentemente dal genere dei partecipanti (Heflick, Goldenberg, Cooper e Puvia, 2011).
– Guardiamoci allo specchio…
Le società occidentali pongono molta importanza alla bellezza fisica e al suo ruolo quale mezzo per ottenere importanti risultati. L’aspetto fisico di una donna ed in particolare il modo in cui gli altri lo valutano, può determinare il successo o meno legato ad esperienze lavorative e interpersonali. Alcune ricerche hanno mostrato come vi sia un legame tra aspetto fisico e successo nell’arco di vita: giovani donne giudicate fisicamente attraenti hanno maggiori possibilità di ottenere lavori di alto status, di accedere ad alti gradi di istruzione, godono di maggiore popolarità, hanno maggiori opportunità di relazioni amorose. La bellezza fisica, dunque, può trasformarsi in potere per le donne e la società incoraggia questo legame.
Non sorprende allora che molte donne semplicemente siano portate ad anticipare l’esito di questi rapporti, ponendo grande attenzione e cura al proprio corpo, preoccupandosi a volte in maniera ossessiva del proprio aspetto fisico, di apparire cioè come la società richiede loro. Le donne imparano a valutare se stesse prima e meglio degli altri, adottando sul proprio sé fisico la prospettiva di un potenziale osservatore: si guardano e si giudicano come gli altri le guarderebbero e giudicherebbero. Nel documentario “Il corpo delle donne” (http://www.ilcorpodelledonne.net/) Lorella Zanardo descrive in maniera efficace questo passaggio, evidenziando come le donne abbiano creato i propri modelli di bellezza in base a schemi prettamente maschili, trovandosi nella posizione di non sapere più cosa piace realmente a se stesse. Nella pubblicità, continua Zanardo, si assiste al curioso costume per cui si usano riferimenti ed allusioni sessuali per attrarre un pubblico maschile, per vendere prodotti rivolti ad un pubblico femminile. Le donne diventano giudici di se stesse e lo fanno adottando la prospettiva di un potenziale osservatore. In questo caso, il processo di oggettivazione coinvolge una sola persona: vittima e agente sono la stessa persona. E’ ciò che nella letteratura scientifica viene definita auto oggettivazione (self objectification), ovvero il processo per cui le donne assumono sul proprio sé fisico la prospettiva di chi le osserva, guardando e giudicando se stesse come oggetti che devono essere apprezzati principalmente da altri.
La costante preoccupazione che molte donne rivelano per il proprio aspetto fisico può essere così meglio inquadrata come una strategia per gestire le pressioni ricevute dall’ambiente esterno, piuttosto che un sinonimo di semplice vanità quale tratto di personalità proprio del regno femminile. Tale strategia è stata sviluppata dalle donne per cercare di anticipare il modo in cui saranno giudicate e dunque trattate dagli altri; giudizi che, come abbiamo visto, hanno delle chiare ed importanti implicazioni per la qualità della loro vita.
– Uno sguardo sulla salute
Il grado in cui una donna monitora abitualmente il proprio corpo può avere diverse conseguenze negative per il suo benessere sia fisico che mentale (per un approfondimento su questi temi si rimanda a Moradi e Huang 2008). Ad esempio, esso può profondamente minare il flusso di coscienza di una donna. In altre parole, la costante preoccupazione di “apparire”, può usurpare le risorse attentive e cognitive necessarie per portare a termine diverse attività che non coinvolgono l’aspetto fisico, in cui cioè l’aspetto esteriore non ha nessuna importanza. E’ stato mostrato, ad esempio, che giovani donne ottenevano scarsi risultati in un compito di attenzione nel caso in cui veniva reso saliente il loro aspetto fisico, attraverso la richiesta di indossare un costume da bagno per una fittizia indagine di mercato (Quinn e collaboratori, 2006). In questo caso, l’attenzione era completamente e letteralmente rivolta ad un’altra cosa, ovvero al proprio corpo, sottraendo le risorse necessarie per svolgere con successo il compito richiesto. Questo modo di auto-percepirsi rappresenta inoltre un potenziale fattore di rischio per la salute mentale e fisica delle donne, in quanto favorisce ed incrementa esperienze di vergogna per il proprio corpo, ansia, scarsa consapevolezza del proprio vissuto corporeo con un conseguente rischio di depressione, disordini alimentari e disfunzioni sessuali.
La preoccupazione che molte donne esprimono per il proprio aspetto fisico spesso fa riferimento al peso percepito in eccesso e dunque ad una volontà di diventare o mantenersi magre. L’espressione “mantenersi in forma”, spesso è sinonimo di “mantenersi magre”. Ma dove viene questa preoccupazione? Sicuramente possiamo individuare nell’inevitabile e continua esposizione di corpi sessualizzati nei principali mezzi di comunicazione, un potente serbatoio di modelli a cui aspirare.
E’ stato mostrato come in pazienti con disordini alimentari, in particolare con donne che all’inizio del loro trattamento terapeutico mostravano un forte desiderio di mantenersi in uno stato di magrezza, proprio i media rappresentano una fonte primaria di auto-oggettivazione (Calogero e collaboratori, 2005). Questo significa che la visione di donne sessualmente oggettivate nei mezzi di informazione (nei programmi televisivi, nella pubblicità, in riviste e settimanali), può essere un fattore che contribuisce a formare una visone cronica di sè come un oggetto sessuale, in particolare nel caso in cui queste immagini diventino parte integrante del modo in cui una donna si auto-percepisce. Erano soprattutto le pazienti che avevano interiorizzato gli ideali di bellezza promossi dai media, ovvero percepiti come provenienti dal sè, che erano determinate e maggiormente motivate a mantenersi magre. Dal momento che le donne “imparano” a percepire i loro sforzi di monitorare e migliorare il proprio aspetto fisico come una scelta autonoma, o “naturale”, è probabile che siano scarsamente consapevoli e poco disposte ad ammettere che questo modo di relazionarsi al sé non esprime una scelta volontaria, ma è socialmente costruita, poco confortevole e potenzialmente dannosa.
– Siamo ancora esseri umani?
Se facciamo un piccolo passo indietro e torniamo alla definizione di oggettivazione femminile, in base alla quale il corpo di una donna, parti del suo corpo o funzioni sessuali sono sostituiti all’intera persona e trattati come se fossero in grado di rappresentarla, si noterà come due sono gli elementi centrali: il primo ha a che fare con il carattere di strumentalità della donna oggetto, per cui una donna rappresentata in questo modo viene valutata unicamente in base alla sua utilità ed è tanto più apprezzata quanto più si rivela funzionale al raggiungimento di obiettivi di natura sessuale o commerciale. L’altro elemento è strettamente legato al primo e fa riferimento alla natura de-umanizzante del fenomeno di oggettivazione, intendendo con questo termine che la persona viene letteralmente ridotta al proprio corpo, perdendo la propria individualità e personalità.
La filosofa Martha Nussbaum (1999), fa notare come in particolari circostanze, caratterizzate da uguaglianza, consenso e rispetto, l’oggettivazione possa non essere dannosa. Ad esempio, gli incontri di natura sessuale comprendono un certo grado di oggettivazione. Nella misura in cui lo scambio sessuale avviene all’interno di una relazione in cui i due partner si considerino anche altro rispetto a due corpi, ovvero due esseri pienamente umani, è difficile rintracciare segnali di problematicità. La strumentalità diventa moralmente problematica qualora si verifichi in contesti nei quali alla persona fatta strumento, vengano negate in particolare autonomia e soggettività, ovvero caratteristiche che ci definiscono in quanto esseri umani, implicando in questo modo un certo grado di de-umanizzazione.
In una serie di studi condotti presso l’Università di Padova, è stato indagato l’aspetto de-umanizzante dell’oggettivazione sessuale femminile (Vaes, Paladino, e Puvia, 2011). Un primo interesse è stato quello di mostrare come tale carattere de-umanizzante fosse esclusivamente rivolto ad un target femminile. Anche se nelle società occidentali immagini di uomini oggetto esistono e sono sempre più presenti, le diverse prospettive teoriche presenti in letteratura e la maggior parte degli esempi tratti dalla realtà evidenziano il carattere denigratorio in particolare dell’oggettivazione femminile.
Per rendere lo studio quanto più possibile vicino all’esperienza reale, si è scelto di utilizzare immagini pubblicitarie di donne e uomini selezionate da riviste e settimanali a larga diffusione. In questo modo, i partecipanti vedevano donne raffigurate in maniera oggettivata, quindi con maggior attenzione rivolta al corpo o parti di esso, in particolare le parti sessualmente rilevanti ed immagini di donne raffigurate con maggiori dettagli del volto, che sono state perciò definite “personalizzate”. Attraverso lo stesso procedimento sono state selezionate immagini di uomini raffigurati in maniera oggettivata e in maniera personalizzata. Ai partecipanti era richiesto di associare queste immagini ad attributi prettamente umani, cioè che possono essere rivolti unicamente agli esseri umani (per esempio, mano e tradizioni) ed attributi prevalentemente utilizzati per descrivere animali (per esempio, zampa e letargo). I risultati di questo studio hanno mostrato che unicamente le immagini di donne oggetto non erano associate di preferenza agli attributi umani. Detto altrimenti: solo la donna oggetto veniva de-umanizzata. In maniera sorprendente, da questo studio è emerso inoltre che anche le partecipanti di genere femminile non associavano di preferenza una rappresentazione di donna oggetto con attributi umani.
Per cercare di comprendere le possibili motivazioni che spingono le donne a mettere in atto tale processo di de-umanizzazione nei confronti di altre donne, sono stati condotti ulteriori studi.
Da un punto di vista femminile le donne oggetto, pur appartenendo al proprio gruppo di genere, rappresentano delle potenziali minacce, almeno per due ordini di motivi: il primo ha maggiormente a che fare con dinamiche di gruppo e fa riferimento al tipo di immagine che una donna oggetto rilancia dell’intera categoria femminile. In particolare, in un recente studio condotto presso l’Università di Padova (Puvia e Vaes, 2015) è stata mostrata l’importanza del significato sociale che partecipanti femminili attribuiscono alla categoria delle donne oggetto, viste come promotrici oppure come vittime della stessa cultura oggettivante rispetto alla quale le donne non sono d’accordo. Le partecipanti allo studio attribuivano un maggior grado di umanità a target femminili sessualmente oggettivate quanto più erano disposte a ri-categorizzare e quindi includere questi target nel loro stesso gruppo di appartenenza di genere specialmente quando percepivano queste donne come potenziali vittime di una cultura oggettivante, al pari di loro stesse.
Un’altra possibile spiegazione si posiziona ad un livello maggiormente personale ed ha a che fare con la volontà di proteggere la propria persona. In particolare, in uno studio condotto presso l’Università di Padova (Puvia e Vaes, 2013) è stato mostrato che variabili personali quali il grado di auto-oggettivazione, la motivazione di una donna (eterosessuale) ad apparire attraente per gli uomini e la tendenza ad interiorizzare gli standard socio-culturali di bellezza, erano positivamente correlati con la de-umanizzazione di target femminili sessualmente oggettivanti. Abbiamo ipotizzato che in entrambi i casi le donne possano vivere una particolare preoccupazione per il proprio aspetto fisico (auto-oggettivazione) nel tentativo di assomigliare agli ideali di bellezza incarnati da modelli femminili sessualmente oggettivati, per essere attraenti a favore della controparte maschile, oppure nel tentativo di rispettare le prescrizioni culturali che la società impone loro.
Ovunque siamo circondate da immagini di donne bellissime, molte delle quali ci suggeriscono come fare per avere un viso perfetto, eliminare le rughe ed eventuali altri difetti ed imperfezioni, perdere peso in eccesso, scegliere il trucco giusto per l’occasione e l’elenco potrebbe continuare ancora. Da questo punto di vista le donne vengono a trovarsi in una situazione straordinariamente paradossale: da una parte la società propone la cura del corpo come un’abilità, rilanciando ovunque suggerimenti per attenersi agli standard di bellezza richiesti. Allo stesso tempo, però, tutto questo ci suggerisce che siamo costantemente in difetto. Per definizione, ciò che deve essere raggiunto è qualcosa che ancora non si possiede. La de-umanizzazione delle donne oggetto, può essere allora un modo per svincolarsi da standard di bellezza pressoché irraggiungibili, preservando la propria autostima ed il proprio benessere.
– Un ultimo sguardo sull’oggettivazione
Dalla letteratura presentata ed i lavori scientifici ai quali si è fatto riferimento, è chiaro come l’oggettivazione femminile non possa essere relegata esclusivamente a fenomeno di costume; una pratica consolidata che ci appartiene in quanto patria della moda e della bellezza.
Abbiamo visto come in contesti oggettivanti, alla donna venga negata una completa caratterizzazione in quanto essere umano; la diversità e la specificità proprie di ognuno di noi, che ci definiscono e distinguono in quanto esseri umani, non sono più percepiti come interessanti ma l’attenzione viene posta unicamente su aspetti che nulla hanno a che fare con l’intelligenza, la capacità, la cultura, l’esperienza maturata, le inclinazioni personali. Si è cercato di mostrare il carattere pervasivo del fenomeno di oggettivazione, in grado di intaccare la rappresentazione che una donna ha di sé in quanto essere integro e unitario e sia portata a percepirsi unicamente in quanto corpo pensato e costruito per piacere agli altri e come questa modalità di auto percepirsi non sia frutto di una libera scelta ma di consolidate pratiche culturali e non possa dunque rappresentare un’abilità che ogni donna, in quanto tale deve saper sviluppare e coltivare. Nel caso in cui una donna interiorizzi tale prospettiva culturale e dunque sia portata a monitorare e valutare il proprio corpo solo in funzione dell’aspetto esteriore, i rischi per la salute possono essere diversi: dall’ansia e la vergogna legate al proprio corpo alla depressione e ai disturbi alimentari.
Percepire una donna alla stregua di un oggetto sessuale, può avere delle conseguenze gravi anche in casi di aggressione sessuale: in uno studio condotto presso l’Università del Kent, alcuni ricercatori (Loughnan, Pina, Vasquez, e Puvia, 2013) hanno mostrato come una vittima di violenza sessuale, se presentata in maniera oggettivata (maggior attenzione rivolta al corpo o parti di esso, in particolare le parti sessualmente rilevanti) in confronto alla stessa vittima presentata in maniera maggiormente personalizzata (immagini di donne raffigurate con maggiori dettagli del volto), veniva ritenuta responsabile della violenza subita, veniva attribuito un minor grado di sofferenza e considerata non degna di preoccupazione morale per quanto accaduto.
Abbiamo visto, inoltre, come maschi e femmine condividono uno stesso modo di rapportarsi alla donna oggetto, pur essendo spinti da motivazioni profondamente diverse. In particolare, le donne potrebbero essere animate dalla volontà di distanziarsi da esse, per motivi strettamente legati alla propria persona oppure all’immagine del proprio gruppo di appartenenza.
Qualche lettore o lettrice potrebbe a questo punto domandarsi in quale modo sia possibile sottrarsi a questo flusso di esperienze negative; sembra che non vi siano alternative e che ciascuna di noi debba mettersi “l’animo in pace”. A questo proposito, ancora un paio di riflessioni: certamente non tutte le donne fanno esperienza e reagiscono allo stesso modo al fenomeno di oggettivazione sessuale; l’insieme di caratteristiche personali quali la provenienza etnica, la classe socio-economica di appartenenza, l’età e altre caratteristiche personali, si combinano per creare un insieme unico e specifico tra le donne appartenenti a contesti socio-culturali diversi. Allo stesso tempo, una donna non diventa un oggetto sessuale di per sé, magari a causa del suo aspetto esteriore piacevole e curato. Diventa oggetto sessuale principalmente e primariamente all’interno di una relazione, quando permette ad un uomo e più in generale alla società di trattarla in modi denigranti che possono minare la sua integrità in quanto persona. Il problema però non sono unicamente le donne: sarebbe sbagliato sostenere che la chiave per risolvere i problemi legati all’oggettivazione sessuale è solamente nelle loro mani e che basterebbe che le donne cambiassero il rapporto e la visione che hanno di loro stesse e del proprio corpo. E’ doveroso sottolineare ancora una volta il ruolo che il contesto culturale gioca nella costruzione del corpo femminile e come tale rappresentazione rispecchi prevalentemente una prospettiva maschile. Appare chiaro, allora, che qualsiasi cambiamento che voglia coinvolgere le donne e la posizione occupata nella società, non possa non implicare in primo luogo un cambiamento di tale prospettiva.
Nota: Nel testo si è fatto più volte riferimento alla presenza del fenomeno di oggettivazione femminile nella cultura occidentale. Per un approfondimento sulla presenza del fenomeno e sue conseguenze in termini di umanità percepita anche in culture non occidentali si rimanda ai seguenti lavori:
Wollast, R., Puvia, E., Bernard, P., Tevichapong, P., & Klein, O. (in press). Sexual Objectification Generates Dehumanization in Western and Non-Western Cultures: A Comparison between Belgium and Thailand. Swiss Journal of Psychology;
Steve Loughnan, Silvia Fernandez, Jeroen Vaes, Gulnaz Anjum, Mudassar Aziz, Chika Harada, Elise Holland, Indramani Singh, Elisa Puvia, & Koji Tsuchiya (2015). Sexual Objectification is common in Western, but not non-Western nations: A seven nation study of sexual objectification. International Review of Social Psychology 28(1), 125-152.
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