di Andrea Ciucci
Quando ho cominciato a raccogliere le idee per la stesura di questo contributo, mi è tornata alla memoria un’immagine, anzi, proprio una sequenza direi: una caldissima notte d’estate in cui non era possibile prender sonno, la luce del televisore acceso e le immagini di un film in bianco e nero; un film che avrebbe segnato la mia vita, il film che, insieme ad A bout de souffle di Jean Luc Godard (anche quello incontrato una di quelle notti, tre l’altro) mi ha fatto “ammalare” di cinema, M il mostro di Dusseldorf di Fritz Lang.
In realtà si tratta di una pellicola abbastanza complessa e di non facile fruizione, dall’atmosfera cupa e morbosa, con il suo incedere lento, spesso eccessivamente didascalico e ridondante, decisamente poco raccomandabile ad un pubblico contemporaneo, a meno che non lo si voglia sottoporre ad un esperimento dettato da una qualche sadica curiosità.
M di fatto non è altro che il racconto della caccia e cattura dell’“orco” che adescò e uccise una decina di bambini nella capitale tedesca ad inizio secolo, Hans Becket, ispirato da reali fatti di cronaca avvenuti negli anni ’20 a Dusseldorf (il titolo italiano si riferisce a questo, ma il film è girato a Berlino e il titolo originale non cita la città – M – Eine Stadt sucht einen Mörder). Il regista Lang mantiene uno stile documentaristico che conferisce alla pellicola quel tono freddo e strisciante che ancora oggi io trovo, in una certa misura, disturbante; stile documentaristico che ispirerà, tre le altre cose – come l’espressionismo tedesco ad esempio e non a caso – il nascente genere noir, che una decina di anni dopo farà la fortuna delle produzioni indipendenti d’oltreoceano.
Dell’esposizione apparentemente oggettiva e distaccata dei fatti, il maestro tedesco si serve invece per mettere a fuoco diversi caratteri dell’umano, proponendo subito una netta distinzione tra l’”uno – il mostro”, e “i molti – la massa”, coi suoi sottoinsiemi – i cittadini, la polizia, i criminali organizzati – dichiarando fin da subito di non parteggiare tout court per la seconda categoria, anzi.
Il mostro dunque come unicità, avulso dalla massa fatta di tante unità neutre, conformi. Mostro come diverso, non conforme.
Ma mostro anche come oggetto di desiderio della massa stessa, sua vera e propria ossessione, motore del delirio generale, elemento perturbante che genera alleanze inedite. Come quella tra polizia e criminalità organizzata, unitesi per trovare e giudicare-eliminare l’assassino, il pervertito che scardina ogni regola, l’orco cattivo che mangia i bambini.
Il mostro, in questo film, serve da specchio ingranditore e deformante di tutte le peggiori condotte, essendo lui responsabile della nefandezza più inaccettabile: uccide gli innocenti, non ha possibilità di redenzione ne di perdono, deve essere trovato ed estirpato; tutto il resto è niente in confronto alla sua colpa e, con lui, la colpa viene estromessa dalla massa, che tutta d’un tratto torna vergine, innocente, per poter distruggere il male più grande, il peccato più grave, la colpa definitiva. In questo modo, anche la comunità criminale ha diritto di sentirsi legittimata e ripulita, il mostro prende con se le colpe di tutti, l’Agnello di Dio, il capro espiatorio, unico contro l’esercito dei sani-buoni.
Il mostro dunque ha un effetto benefico sulla massa, la redime in un certo senso, portando con se tutto il male del mondo, egli monda le coscienze del resto del popolo; il suo sacrificio sarà la salvezza di tutti.
Questa visione “cristologica” del mostro non è rara al cinema, anzi, direi che si ripropone esattamente con la stessa formula almeno in tutte le pellicole del periodo classico dell’horror, da Dracula, a Frankenstein, dal Fantasma dell’opera a La bella e la bestia.
Il cinematografo, arte esibizionista e del doppio per suo specifico, ha fin da subito stretto un legame direi naturale con il mostro ed il mostruoso, almeno per due motivi, uno per contrasto l’altro per coincidenza: oltre alla pulsione scopica e alla caratteristica dell’identificazione primaria (con la macchina da presa) e secondaria (con i protagonisti) che ha il mezzo, per cui l’altro da sé è necessario per definire il sé protagonista-eroe, il cinema stesso nasce nella coincidenza con il mostro e il mostruoso; il cinema delle origini esordisce come forma di intrattenimento popolare e si diffonde dapprima in quei luoghi dove fanno bella mostra di se gli scherzi della natura, quelli che gli americani chiamano “freak” e che erano conosciuti dalle nostre parti come “fenomeni da baraccone”. Ebbene il cinema fa la sua prima apparizione come una delle attrazioni dei Luna Park dell’epoca, in mezzo ai padiglioni dove si esibivano nani, donne barbute, menomati di tutti i generi e così via, mostro tra i mostri.
Ma il cinema è soprattutto arte dell’identificazione e, come ho detto sopra, ha forse avuto la necessità, proprio per questo motivo, di costruire i personaggi antagonisti ancor prima dei suoi eroi, proprio per garantire a questi ultimi la totale identificazione dello spettatore.
Ecco dunque gli indiani contro i cowboys, i villain dei primi gangster movie, i Barbablù dei melò, le bestie contro le belle in ogni storia raccontata dal grande schermo.
In questo contesto, la figura del mostro è centrale e la filmografia è sconfinata nella storia del cinema; se Godard affermava che ogni racconto al cinema è un racconto poliziesco, io dico che ogni antagonista al cinema ha le fattezze e le caratteristiche del mostro, che esso sia il personaggio anti-sociale, come nel caso dei crime-movie, oppure il deforme, come nel caso dei melodrammi (dal Fantasma dell’opera a Elephant man), il reietto frustrato e perverso dei drammi borghesi, l’arrogante usurpatore cinico e potente (e stupido) delle commedie classiche o moderne.
Ma, tornando al nostro M, che come ho dichiarato dall’inizio non è un film né facile né ordinario, qui il mostro “specchio ingranditore e deformante” può servire al cineasta per evidenziare nel resto della comunità difetti e condotte censurabili, che in realtà, se non magnificate da questo specchio, sarebbero assimilate alla normalità e accettate socialmente. Quando ci troviamo di fronte a certe letture del mostruoso, allora tutto cambia e tutto si rimette in gioco.
Nel film di Fritz Lang, come in tutte le altre pellicole dove il mostruoso è un escamotage per mettere in risalto le aberrazioni delle persone considerate “normali”, il mostro riflette le meschinità dei “normali e conformi” e le fa esplodere, lasciandoci con quella sensazione di sospensione del giudizio che le storie “classiche” rifuggono come la peste.
Alla fine del film di Fritz Lang usciamo con l’amaro in bocca, ma soprattutto non riusciamo a prendere parte netta, perché il mostro alla fine ci ha rivelato quanto di mostruoso può esserci in tutti noi e la distanza tra l’aberrante e il socialmente accettabile si riduce drammaticamente. Il mostro ci mette in discussione e ci restituisce un’immagine di noi stessi deformata ma al tempo stesso più profonda e sincera. Forse è proprio per questo motivo che il film ha subito sequestri e peripezie con la censura fino a non poco tempo fa, perché Fritz Lang ci obbliga a porci la domanda: chi è il mostro, ed è proprio vero che è lontano ed estraneo da me?
In calce a questa riflessione vorrei citare un esempio, secondo me eccellente, di rilettura del mostruoso nella favola contemporanea avvenuta da parte dell’ultima produzione Disney (rilettura che ha avuto tanti predecessori, ultima Dreamworks e il suo orco Shrek, ma che Disney se ne appropri mi sembra del tutto “rivoluzionario”). Con la realizzazione del primo episodio della serie Monsters & Co. la major americana (fino ad allora non certo famosa per la propria ideologia progressista!) ha decisamente rovesciato tutta una serie di topos del racconto classico e ha raccontato delle storie dove, non solo, i mostri non sono “altro da noi”, ma dove addirittura stringono patti di alleanza con i bambini che dovrebbero spaventare. Raffinatissima poi l’operazione portata a termine con il film Maleficent dove il punto di vista “classico” della favola è esattamente rovesciato e assistiamo a La bella addormentata nel bosco dal punto di vista della strega, con un finale che farà esplodere fragorosamente tutti gli stilemi classici, ridefinendo nientepopodimeno che il concetto stesso di amore.
Che il racconto contemporaneo ponga il suo fondamento nella riformulazione dell’assunto “il mostro lontano e altro da me” trasformandolo nel più complesso – e forse più realistico – “il mostro e me”? Staremo a vedere e, nel frattempo, buona visione!
Filmografia
The phantom of the opera (Il fantasma dell’opera), Rupert Julian 1929
M – Eine Stadt sucht einen Mörder (M, il mostro di Dusseldorf), Fritz Lang 1931
Dracula (Idem), Tod Browning 1931
Frankenstein (Idem), James Whale 1931
La belle et la bête (La bella e la bestia), Jean Cocteau 1945
Sleeping Beauty (La bella addormentata nel bosco), Clyde Geronimi, Eric Larson, Wolfgang Reitherman, Les Clark 1959
A bout de souffle (Fino all’ultimo respiro), Jean Luc Godard 1959
Beauty and the beast (La bella e la bestia), Edward L. Cahn 1960
Phantom of the Paradise (Il fantasma del palcoscenico), Brian De Palma 1974
The elephant man (Idem), David Lynch 1980
Shrek (Idem), Andrew Adamson, Vicky Jenson 2001
Monsters, Inc. (Monsters & Co.), Pete Docter 2001
Maleficent (Idem), Robert Stromberg 2014