EXAGERE RIVISTA - Luglio - Agosto - Settembre 2024, n. 7-8-9 anno IX - ISSN 2531-7334

Mentalizzazione e tensione relazionale nell’incontro terapeutico. Intervista a Antonello Colli

di Federica Biolzi

Il non essere capiti, il non sentirsi compreso in vari ambiti, non ultimo quello familiare o di coppia, forse è ciò che più di ogni altra cosa temiamo. Certo non è semplice, comprendere veramente l’altro è qualcosa che passa attraverso mediazioni di varia natura. Non ultima l’impossibilità di comunicare e rendere accessibile pienamente agli altri la nostra esperienza vissuta. Il libro di Antonello Colli, dal titolo Il desiderio di essere capiti (Cortina, 2024) ci aiuta a definire l’argomento a livello teorico ma, nello stesso tempo, ci fornisce anche una consistente parte dedicata ad aspetti di trattamento.

L’essere compresi, il desiderio di esperienze intersoggettive, appare certamente come una delle questioni complesse in campo analitico. Ma cosa fa riferimento, cosa s’ intende con il termine intersoggettività?

-Il termine intersoggettività negli ultimi 40 anni è stato utilizzato in modo differente a seconda dei contesti, pensiamo alla filosofia, all’Infant Research, alla psicologia clinica o alla psicoanalisi. Alcuni autori con “intersoggettivo” hanno posto  l’accento maggiormente sulla dimensione di mutua influenza tra paziente e terapeuta. Altri come Ogden per esempio hanno messo in luce come l’incontro tra soggettività porti alla creazione di una dimensione altra dell’esperienza, il Terzo Analitico Intersoggettivo, che non è riducibile alla somma delle parti. Jessica Benjamin, una psicanalista statunitense, invece rimanda all’idea di intersoggettività come la capacità di due soggetti di riconoscere se stessi e gli altri nella loro soggettività, senza negare quella altrui, senza tentare di assimilare in maniera forzata l’altro, riuscendo a mantenere una forma di tensione relazionale nell’incontro. Ma il termine richiama anche il concetto di motivazione intersoggettiva, una motivazione innata,  nel corso dello sviluppo sempre più complessa, che ha come meta l’incontro mentale con l’altro, la vicinanza e l’intimità psicologica. Da questo punto di vista quindi gli esseri umani sarebbero pre-programmati  non solo per cercare il conforto, l’accudimento (per intenderci la motivazione all’attaccamento) ma anche per cercare le altre menti.

Io penso che, il termine intersoggettività, non si debba impiegare solo in psicoanalisi ma lo si possa estendere in generale agli incontri terapeutici. Laddove c’è una relazione umana, siamo di fronte all’intersoggettività e se ciò vale nei rapporti tra esseri umani, vale anche per gli esseri umani in terapia, indipendentemente che siano in una terapia analitica, cognitiva, comportamentale o altro. Sicuramente però se pensiamo alla psicoanalisi relazionale, è quella che più ha prestato attenzione a questo aspetto, soprattutto inizialmente.

Uno delle dei punti sui quali s’incardina il suo volume, certamente affasciante per il lettore, anche meno esperto, è quello che riguarda la mentalizzazione.  Qualcosa di complesso ma di estremamente utile ed efficace sia in campo teorico che terapeutico. Quali sono le caratteristiche di questo processo?

-Il termine mentalizzazione ha conosciuto una diffusione sempre più ampia negli ultimi 20-30 anni, direi non solo una diffusione ma anche una confusione. In psicologia, più che in altre discipline, si utilizzano dei termini per poi allontanarsi dalla definizione del costrutto. La mentalizzazione è la capacità psicologica degli individui di interpretare il proprio ed altrui comportamento in termini di stati mentali intenzionali. Ossia noi esseri umani ci muoviamo nel mondo e diamo un significato alle relazioni, ed a noi nelle relazioni, attribuendo un significato che è legato agli stati mentali: i desideri, i bisogni, le emozioni. Quando facciamo così, stiamo all’interno del mondo degli esseri umani, quando ci allontaniamo e tendiamo più a spiegare il nostro comportamento e quello altrui in termini di caratteristiche invariabili (fede religiosa, fede politica, eccetera), ci distanziamo da questa qualità. La mentalizzazione è anche però curiosità per il proprio mondo interno che si traduce nella ricerca del possibile significato dei nostri e altrui comportamenti. Un’altra sua caratteristica è la capacità di tollerare e di muoversi in maniera fluida tra certezza e incertezza rispetto agli stati mentali: troppa incertezza ci porterebbe in uno stato di confusione, un’eccessiva certezza farebbe perderci la qualità ipotetica delle nostre inferenze. Una persona con una buona mentalizzazione è una persona che è capace di coltivare uno scetticismo realistico. Questa qualità appare particolarmente evidente nelle interazioni con le altre persone, interazioni che sono difficili da comprendere nel loro significato. La dimensione sociale dell’esperienza è causalmente complessa direbbe Gergely, la mente degli altri ci appare opaca: noi non sappiamo cosa c’è nella mente degli altri, abbiamo delle impressioni, dobbiamo saper tollerare e muoverci tra il certo e l’incerto. La mentalizzazione, dal mio punto di vista, è quella funzione psicologica che ci permette di fare esperienze intersoggettive, d’incontrare mentalmente l’altro.  

Ma, attenzione, fare esperienze intersoggettive ci permette anche di incrementare la mentalizzazione. Spesso si è parlato di mentalizzazione come caratteristica di tratto, ma si compone anche di una dimensione di stato: può fluttuare nel corso di un incontro, di un dialogo ed è influenzata da alcune caratteristiche  della relazione interpersonale che si attiva in quel momento (la mentalizzazione dell’altro, la capacità di validazione dell’esperienza soggettiva, l’attivazione del sistema dell’attaccamento etc.). La mentalizzazione di un individuo, è contesto-dipendente e se non fosse tale, sarebbe anche in parte immodificabile. Invece noi pensiamo che può essere influenzata dall’altro positivamente ma anche negativamente.  

Molto spesso in terapia, quelle persone che hanno più difficoltà a mentalizzare, si ritrovano a chiedere aiuto, in parte costruendo una dimensione interpersonale che non favorisce la mentalizzazione del terapeuta o perlomeno la mette duramente alla prova, andando così a creare delle interazioni non mentalizzanti che allontanano i partecipanti dalla possibilità di fare esperienze intersoggettive.

Lei ci dice che il processo terapeutico è fondato su una serie di processi di negoziazione intersoggettiva che consentono un incontro che deve mantenere in equilibrio le polarità dell’esperienza presenti nel processo stesso. Perché è così importante mantenere la giusta tensione in questo modello terapeutico?

-Quest’importanza, rimanda a due questioni, una che la  mentalizzazione è un costrutto ormai definito in termini multidimensionali: sé-altro, la dimensione cognitivo-affettiva, automatica e controllata. L’idea, che alcuni autori hanno proposto, è quella di vedere queste  dimensioni come delle polarità, diciamo in tensione: una buona mentalizzazione è capace di mantenere una tensione tra il sé e l’altro, tra la componente cognitiva e quella affettiva e tutto ciò, si riflette nel processo terapeutico. Il processo terapeutico viene così rappresentato come un processo di negoziazione tra paziente e terapeuta rispetto alle differenti polarità della mentalizzazione. È un modello dialettico, la cui caratteristica è che il fine non è la risoluzione di questa tensione e del paradosso implicito, ma è la capacità di starci. Riuscire a mantenere questa tensione, dal mio punto di vista, è uno degli aspetti centrali del processo terapeutico. Un connubio tra la teoria della mentalizzazione e le teorie relazionali, più vicine al concetto di negoziazione e di paradosso, ma anche ad alcuni aspetti del pensiero di Winncott. Penso anche che, avere in mente queste polarità, ti aiuti  poi strategicamente ad organizzare il colloquio, come una bussola molto semplice da seguire: le difficoltà nella mentalizzazione spesso si manifestano come sbilanciamenti su una dimensione a scapito dell’altra e il terapeuta ha il compito di contro bilanciare questi movimenti ponendosi sulla dimensione opposta.

Cosa accade quando quest’alleanza viene messa in crisi?  Quali sono i meccanismi che entrano in gioco in questa fase e che permettono di riuscire a mantenerla in equilibrio, di ricucirla?

-Freud ha in un certo senso proposto in maniera molto arguta, che laddove il paziente abbia delle difficoltà rispetto al trattamento, delle resistenze, allora è proprio li che ha inizio la terapia. E’ come se Freud avesse detto ai suoi pazienti: “ proprio quando non ti va di venire… è ora di lavorare, è lì che inizia l’analisi…” Se Freud ha sottolineato tra le altre cose la centralità della resistenza rispetto al processo terapeutico è anche vero però che per diversi anni la resistenza è stata vista come qualche cosa da sconfiggere, da oltrepassare, come del resto il termine stesso “resistenza” suggerisce evocando uno scenario militaresco. Negli ultimi vent’anni è molto cambiata l’idea della resistenza, delle rotture, dei momenti in cui il paziente non appare collaborativo. Oramai si pensa che, quando ci sono delle rotture o delle incomprensioni, queste non siano frutto di una cocciutaggine o testardaggine del paziente, così alcuni analisti negli anni 30 /40 si esprimevano a riguardo, ma  che siano espressione di una forma di vulnerabilità inerente l’esperienza del Sé del paziente. Inoltre le rotture non sono più attribuite al paziente ma sono viste come  un prodotto dell’interazione con il terapeuta.  A partire da queste considerazioni, esse non sono più qualcosa che va superato ed eliminato, ma piuttosto un’occasione.  Il problema però è che quando ci sono, normalmente c’è anche un clima interpersonale negativo, un crollo della fiducia epistemica, e una difficoltà da parte del paziente e del terapeuta, nel riuscire a mentalizzare quello che sta accadendo. Dal mio punto di vista quindi oggi sarebbe più opportuno pensare alle rotture dell’alleanza terapeutica come a momenti in cui il paziente sente la propria esperienza soggettiva minacciata, in cui la possibilità di fidarsi dal punto di vista epistemico è ridotta il tutto sostenuto dall’emergere di problematiche nella mentalizzazione.  Il punto centrale, per qualsiasi risoluzione, è che il terapeuta recuperi una sua capacità di mentalizzare: è proprio attraverso la capacità mentalizzante del terapeuta che quest’ultimo può dare dei segnali dal punto di vista comunicativo per riconoscere l’esperienza soggettiva del paziente e riaprire quello che potremmo chiamare un canale epistemico. Sta al terapeuta e dalla sua capacità di aiutare il paziente a vedere quello che sta accadendo, non come un fatto negativo, ma come un’occasione  di comprensione. Ciò avviene anche nelle discussioni di coppia, ma con una differenza importante, nella coppia non vi dovrebbe essere un’asimmetria, cosa che invece è presente nella relazione terapeutica, dove il terapeuta ha una responsabilità, che è quella della cura. Il paziente ha il diritto di “rompere” e di mettere in crisi il meccanismo terapeutico, il terapeuta dalla sua parte ha la responsabilità di assumere un atteggiamento di conoscenza e di curiosità per uscire da una situazione

E’ possibile migliorare la mentalizzazione nel terapeuta? E se è possibile, come e con quali strumenti?

-Uno dei problemi che abbiamo come comunità scientifica è come si possa aiutare un terapeuta a migliorare la sua mentalizzazione. Parlare della mentalizzazione del terapeuta sposta la riflessione in parte sui fattori terapeutici aspecifici, ma anche sul tema della formazione psicoterapeutica e del training.  Alcuni dati di ricerca suggeriscono, ormai da tempo, come la variabile del terapeuta giochi un ruolo non proprio irrilevante nello spiegare l’esito dei trattamenti, anche al di là dei modelli. Forse, l’efficacia del terapeuta, può in parte essere riconducibile alla sua capacità di mentalizzare. Se alcune ricerche, a dire il vero ancora poche è più orientate alla mentalizzazione di tratto più che di stato, suggeriscono l’importanza della mentalizzazione del clinico poco ancora sappiamo su come incrementare quest’ultima. Alcuni training su psicologi sono risultati inefficaci, altri hanno dato qualche risultato promettente. Uno strumento utile, per incrementare la mentalizzazione, potrebbe essere il role playing (soprattutto se si simula il proprio paziente e un altro terapeuta interagisce con noi). Questo format sembra ridurre l’ansia del clinico, incrementare  la capacità d’identificarsi con le problematiche dei pazienti e può essere utile per comprendere meglio il punto di vista dello stesso, rispettandone pertanto l’esperienza soggettiva. Soluzioni formative concrete possono essere le discussioni di casi clinici, supervisione, analisi personale, ma anche, in ambito dinamico, incrementare un apprendimento, sempre più, esperienziale. In generale però sul tema sarebbe bello aprire una discussione e una riflessione che non sia dogmatica ma maggiormente orientata effettivamente all’efficacia dei processi formativi.


Antonello Colli

Il desiderio di essere capiti

Rotture, mentalizzazione, intersoggettività

Raffaello Cortina, 2024

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