di Giulia Pratelli
–Nell’incipit al suo libro lei si propone di rileggere concettualmente le migrazioni, nuovi spazi di riflessione partendo dagli studi classici sul tema. Oggi, quello delle migrazioni di un argomento di forte attualità, non sempre affrontato con le competenze necessarie. Ma come nasce l’idea di scrivere su questo tema?
-L’idea nasce naturalmente, quasi per necessità, assecondando ricerche, letture e approfondimenti che ho portato avanti negli ultimi dieci anni sul rapporto tra storia, diritto e migrazioni. Tutto è partito nel 2012, quando ho avviato e coordinato un progetto di ricerca nazionale ambizioso, costruito tra gli Atenei di Lecce, Napoli, Pavia e Ferrara, e centrato proprio sul tema delle politiche migratorie. Un progetto che si proponeva di ricostruire il dibattito giuridico degli ultimi tre secoli in Europa sulla circolazione delle persone e dei modelli giuridici in area mediterranea. In quegli anni l’attenzione della dottrina su questi temi era ancora sfilacciata, ma i fatti che si stavano determinando stavano sollecitando con urgenza un’indagine interdisciplinare. E il nostro gruppo di ricerca era pronto a dare il suo contributo. Personalmente, da storica del diritto che si è sempre occupata di temi a proiezione internazionale, ho avvertito forte la curiosità di misurarmi con queste tematiche. Da lì l’accelerazione: sono venute fuori una serie di iniziative a livello nazionale e internazionale che mi hanno motivato sempre di più ad approfondire il discorso sullo ius migrandi, questo diritto bifronte, questo diritto a lasciare e ad essere accolti, con una storia antica alle spalle. Non ho potuto sottrarmi dal pormi alcune domande “strutturali” su questo diritto, in origine un diritto alla mobilità in senso lato, uno ius peregrinandi,e su alcune categorie giuridiche che da un certo momento della storia in poi vi hanno orbitato (e tutt’ora vi orbitano) intorno e che guardano con prudenza allo Stato, alla sovranità, ai confini, alla cittadinanza, all’appartenenza, alla proprietà, collettiva e privata, allo spazio globale. Poi è arrivata la Presidenza del Corso di Laurea Magistrale in Governance Euromediterranea delle Politiche Migratorie a Scienze Giuridiche (Università del Salento). Lo scambio, costante e necessario, con gli Studenti, i Colleghi di Corso e i Professionisti dell’accoglienza e dell’integrazione che operano quotidianamente sul territorio e che sono coinvolti in percorsi di ricerca e studio, progetti e attività affini, ha fatto il resto, moltiplicando le letture e gli spunti, motivandomi a fermare la riflessione in un libro e a condividerla.
-Perché migrare e abitare compaiono accanto nel titolo?
-Nel 2019 ero a Napoli per partecipare a un seminario. Di ritorno, mi fermai in libreria per scegliere un “compagno” di viaggio, lo faccio spesso. Rimasi colpita da un titolo: Stranieri residenti. Non conoscevo Donatella Di Cesare. Quella lettura fu fulminante. «I mortali devono imparare ad abitare, perché in quanto mortali transitano, arrivano e partono». Gli uomini non possono sottrarsi alla transitorietà. Abitare significa migrare, un migrare che richiama lo scorrere di un fiume, «la corrente che si incanala in un alveo, che lo scava, lo plasma e tuttavia lo segue, mentre disegna tracciati, apre vie, dischiude luoghi da cui prende luce lo spazio aperto […]. Corrente vuol dire che l’abitare non può essere concepito come un essere qui, ma va invece inteso come un essere lì e oltre, dove si dirige il fiume. Se la corrente del fiume è il luogo del soggiornare umano sulla terra, il suo unico domicilio, allora l’abitare non può trovare legittimazione nel sangue e nel suolo». Poche righe, un’immagine straordinariamente evocativa. L’ho fatta mia. Se abitare significa migrare, forse può valere anche il contrario. Migrare e abitare sono due azioni umane con una storia, anche e soprattutto giuridica, alle spalle, da conoscere e possedere per potersi svincolare da rigide architetture, da categorizzazioni facili, artificiose e artificiali, comunque limitanti, che condizionano il nostro sguardo sulle migrazioni, sugli uomini e sul loro (nostro) rapporto con la terra e con gli altri; sovrastrutture semantiche che ci costringono a leggere solo una storia e ci portano lontano da ciò che siamo: persone con una memoria e un progetto di vita, comunque in transito.
-Il sottotitolo ci suggerisce un itinerario. Siamo in Europa, tra Cinque e Ottocento…
-Sì. Il libro ripercorre, come suggerisce ancora il titolo, “una” storia del diritto internazionale in Europa, “una” come lo sono le storie, tutte possibili. Cambiano i protagonisti, le fonti, i tempi, le geografie, i punti e le prospettive di osservazione. Resta il rigore metodologico. La “mia” storia di Migrare come abitare parte dai “classici” del diritto internazionale: sfilano, in un dialogo attraverso il tempo e lo spazio, i testi e le voci di Francisco De Vitoria, padre domenicano della Scuola di Salamanca, di Huig de Groot (meglio noto come Ugo Grozio), e ancora di Samuel von Pufendorf, Christian Wolff, Jean-Jeacques Rousseau, Emer de Vattel, Immanuel Kant, e dei profili più audaci della dottrina giusinternazionalistica ottocentesca. Senza alcuna presunzione di esaustività, senza trarre conclusioni, ma con il forte sentimento di offrire, da storica del diritto, qualche spunto utile al dibattito sul diritto a migrare, ho provato a ricostruire l’itinerario di un diritto interrotto. In questo viaggio, sospeso tra morale e diritto, ho ritrovato sentimenti ora di straordinaria apertura, di auspici visionari, di spinte progressiste, ora di rottura e ripiegamento, capaci di assecondare logiche di contingenza, decadenti e di quasi “primitiva” prudenza. Ho ritrovato ragionamenti che hanno composto e scompaginato, dato, tolto e restituito, guardando all’uomo e alle sue variabili (sempre strumentali) di indigeno, cittadino, abitante, migrante, esiliante, bandito, fuggitivo, rifugiato, straniero. Eppure sempre uomo che abita, ospite e ospitato, migrante e proprietario, ancora oggi, nel primo ventennio del ventunesimo secolo, in piena globalizzazione, al centro di un nuovo ordine concettuale e di nuove cure (anche costituzionali). Nella scrittura non sono mai stata da sola. Ho trovato riparo e conforto nella storiografia giuridica più sensibile e robusta, e impagabili spunti narrativi nel dialogo interdisciplinare.
–Come non notare la copertina…
Sì, devo ammetterlo con una certa fierezza (e colgo l’occasione per ringraziare l’editore Giappichelli per avermi assecondato in quello che non è stato, neanche per un attimo, un capriccio ma un forte desiderio). In copertina compare Suroriente, un meraviglioso acquerello del Maestro Pedro Cano, artista mirabile e, come egli stesso si definisce, “dal carattere nomade”, eternamente in viaggio da nord a sud, da oriente a occidente, alla scoperta di memorie e tracce dello scorrere del tempo. Quel passaggio, solido e luminoso attraverso le geometrie del tempo e dello spazio, che guidano e riparano, non vede una meta, non la riconosce. Resta un viaggio nella luce, verso la luce. Come l’abitare, come il migrare.
Eliana Augusti
Migrare come abitare
Una storia del Diritto Internazionale in Europa
Tra XIV e XIX secolo
Giappichelli 2022