di Gianfranco Pecchinenda
Riflessioni a partire dal romanzo di Giuseppe Quaranta, La sindrome di Ræbenson, Edizioni Atlantide, 2023
Il compito non è tanto di vedere ciò che nessun altro ha ancora visto;
ma pensare ciò che nessun altro ha ancora pensato,
riguardo a quello che chiunque vede.
Erwin R. J. A. Schrödinger
Il disagio psichico non può essere raccontato da chiunque. Ci vuole uno specialista, innanzitutto, provvisto di una sua teoria e di un suo metodo. Quando uno psichiatra si trova di fronte a un paziente che manifesti comportamenti anomali, può ad esempio disporre di strumenti che lo aiutino ad individuare il tipo di disturbo, poi inserirlo in una categoria di malattie mentali ufficialmente predefinite, facilitarne la diagnosi e infine, eventualmente, proporre una cura. Tra i principali di questi strumenti, troviamo solitamente il DSM (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders) – un manuale che presenta una descrizione delle categorie diagnostiche esistenti per consentire di classificare e studiare i diversi disturbi mentali. Redatto per la prima volta intorno alla metà del secolo scorso, tale manuale viene aggiornato periodicamente inserendo nuove patologie, accorpandone alcune, eliminandone altre, al fine di ridurre le sovrapposizioni diagnostiche dovute a insufficiente chiarezza dei confini fra i disturbi e migliorarne l’efficacia.
Il rischio principale di un tale approccio, così genuinamente scientifico, può però essere quello di non riuscire a far “vedere” quei sintomi non individuati in precedenza, ovvero quelli che fuoriescono dai confini di un paradigma predeterminato.
L’arte degli interstizi
Quando però lo psichiatra, oltre ad essere uomo di scienza, è dotato anche di un qualche particolare talento artistico, la potenzialità degli strumenti di cui può disporre per vedere anche l’Altrove – ovvero quei misteriosi luoghi della mente dove maturano le patologie psichiatriche – si moltiplica in maniera esponenziale. I romanzi, la letteratura e l’arte più in generale sono infatti in grado di offrire espedienti insostituibili per poter identificare e attribuire un senso a taluni comportamenti umani, altrimenti incomprensibili, destinati talvolta a restare invisibili anche agli occhi degli scienziati più illuminati.
Questa fortunata convergenza tra arte e scienza sembra verificarsi nel caso di Giuseppe Quaranta, autore di un romanzo dal titolo La sindrome di Ræbenson, in cui questo psichiatra-scrittore riesce a proporci un efficace esempio di quanto la letteratura possa opportunamente contribuire a riflettere e spiegare comportamenti altrimenti inclassificabili per alcun manuale e inspiegabili per qualsivoglia disciplina scientifica.
La sindrome di Ræbenson da lui individuata, infatti, non è menzionata in nessuna delle tante edizioni del DSM, anche se sembrano esistere dei soggetti che manifestano una sintomatologia di chiaro interesse psichiatrico, non ancora diagnosticata nonostante la sua crescente diffusione, almeno fino a quando uno dei protagonisti del romanzo non riesce ad intercettarla e classificarla grazie al suo intuito e alla sua empatia.
Allora aggiungerei che per raccontare il disagio psichico, oltre al contributo dello specialista, è a volte necessario anche quello di un talento letterario.
Prima di proseguire, una domanda s’impone: stiamo parlando di una malattia “reale” o di pura finzione? L’autore del libro (colui il cui nome appare sulla copertina e che di professione fa “anche” lo psichiatra) ci sta narrando eventi che si sono verificati nel corso della sua quotidiana esperienza professionale, oppure si tratta soltanto di storie prodotte dalla sua fervida immaginazione? In altre parole, esiste “realmente” una sindrome di Ræbenson? Esistono “realmente” persone che manifestano i sintomi di tale sindrome descritti nel libro?
Credo che nessuno scrittore si sia mai potuto sottrarre, prima o poi, a questa noiosa e sostanzialmente inutile domanda. Men che meno potrà esimersi uno scrittore-psichiatra che narra le vicende di uno psichiatra che racconta la storia di un suo amico (anch’egli psichiatra) vittima di una sconosciuta malattia e dei suoi sforzi per individuarne la natura e spiegarne in qualche modo l’evoluzione: la sindrome di Ræbenson, appunto.
Pur non conoscendo Giuseppe Quaranta di persona, ho letto in modo sufficientemente approfondito il suo lavoro e ritengo di potermi assumere la responsabilità di rispondere al posto suo (restando ben consapevole, beninteso, che il libro che io ho letto potrebbe assumere dei significati per me ben diversi da quelli che intendeva attribuirgli l’autore quando lo ha progettato e poi redatto). Ma d’altra parte si sa: un libro, una volta pubblicato, appartiene anche a chi lo legge.
E la mia risposta è la seguente: la storia, pur non essendo “vera”, è certamente “verosimile”; i personaggi, pur non esistendo nella “realtà”, potrebbero essere esistiti, o potranno esserlo in futuro; la sindrome di Ræbenson, pur non essendo ancora stata diagnosticata e non comparendo (ancora) in alcun DSM, potrebbe essere esistita (e non diagnosticata), o potrebbe esserlo in futuro.
Quindi si tratta solo di finzione – potrebbe a questo punto concludere qualcuno. Ma la risposta, almeno secondo me, non può essere così frettolosa e scontata. Uno dei motivi per cui esiste la letteratura, e per cui si pubblicano libri come La sindrome di Ræbenson, è, infatti, proprio quello di mettere in evidenza come la “realtà” non debba mai essere scissa dicotomicamente dalla “finzione”, così come nella vita quotidiana non possiamo mai separare in modo limpido il vero dal falso, il sogno dalla realtà, la “normalità” dalla devianza, l’Io dall’Altro, la memoria dall’oblio e – soprattutto, nel caso in questione – il mondo dei morti da quello dei vivi.
L’arte serve – tra le altre cose – proprio per provare a renderci partecipi dell’importanza del mondo dell’immaginazione nell’elaborazione del senso della realtà in cui quotidianamente ci muoviamo; dell’imprescindibile funzione dell’oblio per la formazione della memoria; del valore dell’Altro per la costruzione del Sé; dell’onnipresenza dei morti e della morte nella “realtà” di coloro che restano vivi.
Il senso della realtà, insomma, si manifesta proprio negli interstizi. Basta assumere la prospettiva adatta per poterli osservare.
Eccoli, in estrema sintesi, i temi portanti di questo straordinario romanzo: l’identità, la memoria, la morte. E l’avvincente storia di un investigatore che cerca di risolvere il mistero della sindrome di Ræbenson, può a questo punto essere considerato solo un originale – e a mio parere particolarmente indovinato – pretesto per stimolare la riflessione del lettore intorno a tali imperiture questioni.
Il roditore e la sua tana
Ma proviamo a dirlo meglio, anche attraverso una sintesi della trama. Il romanzo è diviso in quattro parti e, come già accennato, narra le vicende di due psichiatri. Il primo è la voce narrante, il secondo – tale Antonio Deltito – è un amico e collega del primo. La storia è una sorta di cronologia di un’indagine trentennale, relativa all’emergere di uno strano disturbo neuropsichiatrico che colpisce Deltito.
Il romanzo comincia proprio con l’episodio del ricordo che il narratore ha dei primi sintomi che il suo amico accuserà durante una serata trascorsa con alcuni conoscenti e colleghi, riuniti su una terrazza dopo un convegno, tra un calice di vino e l’altro.
La narrazione, scandita di decennio in decennio, proseguirà evidenziando gli aspetti più caratteristici di questo strano e sempre più diffuso morbo, che agli inizi ha a che fare con amnesie e frastorni percettivi, per poi manifestarsi attraverso una sintomatologia che sempre più sembrerà riguardare l’angoscia per lo smarrimento della propria identità, il frantumarsi della memoria, il confondersi di sogni e spezzoni di immagini oniriche con fenomeni riguardanti l’esperienza quotidiana.
Con il procedere della narrazione cominciano, insomma, a far capolino questioni apparentemente sempre più assurde, come il desiderio di conoscere il possessore di alcuni ricordi perduti che assillano la mente del protagonista, sulla base di alcune ipotesi (pseudo) scientifiche, secondo cui esisterebbe una sorta di campo ræbensoniano, popolato da ræben (veri e propri frammenti di memoria che stazionerebbero non come tracce di memoria, ma di energia).
“Quando un ræben – uno di questi ricordi vaganti – giunge nella mente di qualcuno acquista una vita autonoma, si colora di nuove sfumature. Può succedere, infatti, che la persona a cui viene sottratto un ræben, qualora sia messo in contatto con il suo ricordo, ne rammenti il contenuto, ma, in fondo, lo senta estraneo. Nessuno ha mai potuto sapere in base a quali criteri i ræben scelgano la nuova mente a cui approdare”.
Le questioni che emergono – come già anticipato – sono quelle che da sempre assillano il pensiero occidentale, fino a lambire l’eterno mistero della coscienza e quello, ad esso inevitabilmente associato, della morte: l’orrore della metamorfosi legata all’invecchiamento organico, l’angoscia dell’oblio e della frantumazione dell’identità, e quindi del senso di unicità, unitarietà e autonomia del Sé.
Sì, perché i tormenti psichici possono talvolta assumere le sembianze di un roditore kafkiano che, annidato nell’organismo come in una tana, azzanna inesorabilmente il benessere del corpo e del pensiero, sconquassando l’equilibrio mentale del povero malcapitato.
C’è del metodo in questa follia
Eppure… eppure coloro che vengono colpiti dalla sindrome ræbensoniana sembrano mostrare anche qualcosa che va aldilà: essi vedono cose che gli “altri”, i “normali”, non sono in grado di vedere.
Può capitare, infatti, che a questo morso avido del sangue di chi viene colpito dal morbo, segua anche un accrescimento della sua percezione del mondo; si vedono più cose, si riconoscono i fantasmi, si può intuire la presenza di una porta in grado di condurre aldilà della routinaria vita di tutti i giorni. Si scorge, attraverso le fenditure della realtà provocate dalla percezione di imprevedibili interstizi, un altrove.
Ogni essere umano può essere in grado, prima o poi, di vedere l’invisibile. Anche questa capacità, tuttavia, deve essere accompagnata da un suo metodo. Insomma, ci deve comunque essere del “metodo” in questa follia.
I fenomenologi amano definire epoché proprio quel particolare atteggiamento di sospensione della certezza della realtà che generalmente diamo per scontata: un atteggiamento che ci conduce a mettere metodicamente in dubbio il fatto che le cose siano esattamente così come appaiono a tutti.
E così, l’autore di questo avvincente romanzo dai contorni esistenzialisti, sembrerebbe suggerire la possibilità che i protagonisti della sua storia possano essere afflitti proprio da questa specie di eccesso di “sensibilità fenomenologica”. Più che di una malattia psichiatrica, essi sembrerebbero piuttosto affetti dall’incapacità di percepire la realtà nel modo in cui tutti gli altri la concepiscono; patirebbero, in altre parole, di un’ingestibile necessità di liberarsi di ciò che gli impedisce di essere sé stessi, il che li trasformerebbe, da semplici portatori di un genuino senso della finitudine, in testimoni di un vero e proprio delirio d’immortalità.
Il Sistema mimetico
Coloro che soffrono della sindrome individuata dal narratore di questa storia (che, ovviamente, non necessariamente è identificabile con l’autore del libro che risponde al nome di Giuseppe Quaranta), sono in definitiva degli esseri particolarmente sensibili all’assurdo inteso in senso esistenzialista, così come insuperabilmente teorizzato a suo tempo da Albert Camus. Sono esseri che non riescono a percepire la realtà così come dettato dal Sistema Mimetico condiviso dalla società in cui vivono; un “sistema” che ogni società impone ai propri membri e il cui compito fondamentale è, in ultima analisi, quello di proteggerli dal senso dell’Assurdo: un serbatoio simbolico di senso e significato condiviso, da contrapporre alla paura dell’invecchiamento e all’angoscia della morte.
Svicolarsi da un tale “sistema” (in cui il concetto di “mimetico” andrebbe letto soprattutto in termini di “inganno” e di “finzione”) può essere, ovviamente, molto pericoloso: può ad esempio spalancare le porte al terrore e al conseguente delirio associato all’intollerabile idea che la morte (ogni morte, soprattutto quella nostra e dei nostri cari) possa essere definitiva e ineludibile.
Infrangere le barriere protettive di tale “sistema” può farci vedere cose che “normalmente” non dovremmo vedere; conoscere cose che non dovremmo conoscere; infrangere le ultime barriere che proteggono quel misterioso luogo in cui si cela l’irrealtà: il vuoto.
Così scrive l’autore, in riferimento al caso Deltito: “Robert Krulwich sottolinea l’importanza di concepire i vuoti. Siamo circondati di cose che ignoriamo; ovunque andiamo, scrive, noi non abbiamo idea di quello che non stiamo vedendo. Questo mondo, per naturale conseguenza, sarebbe composto per la quasi totalità da elementi che sfuggono ai nostri occhi. Alcune protesi, un microscopio o un telescopio, ad esempio, hanno colmato parzialmente questa sciagurata distanza tra noi e le cose. Gli scienziati, nei loro momenti di massimo delirio, sono ossessionati da ciò che manca alla realtà. Ci rimane il dubbio che, per buona parte, tutto questo non dipenda da noi. Che ci sia un artista come Rauschenberg che, gomma in mano, cancelli via via i progetti, i sogni, le storie, le leggi di cui si popola il nostro mondo. Non meno probabile, anzi auspicabile, è l’esistenza di un contro-artista che salvi il salvabile, che conservi l’immediatezza delle cose che erano sul punto di rivelarsi, che costruisca con ciò che noi non abbiamo veduto e abbiamo perso per sempre, il suo museo di fitte ombre”.
Il tormento dei Funes
L’importanza di riuscire a concepire tali vuoti può servire però anche a scorgere – proprio tra gli interstizi della nostra realtà condivisa – una prospettiva sulla nostra esistenza in grado di farci tollerare e accettare quelle ombre delineate dall’autore che così tanto ci intimoriscono.
In fondo Antonio Deltito – così come ci viene presentato nel romanzo – è soprattutto un individuo che sta vivendo un’esperienza di disintegrazione, un’esperienza che ha a che fare con il timore di perdere, insieme ai ricordi, il senso di quell’identità così faticosamente costruita nel corso degli anni. Di fatto sono i ricordi a consentirci di costruire quel complesso apparato mentale che ci garantisce la nostra continuità nel tempo. Ed è soprattutto per questo che l’oblio ci terrorizza!
La nostra società, che attraverso la digitalizzazione ha reso più che mai un “dovere” l’accumulo e la registrazione del passato, tende a convincerci in una misura mai vista in precedenza dell’importanza della preservazione della memoria, spingendoci a disimparare come l’oblio sia invece necessario per poter ricordare; che, nella profonda differenza tra mneme e anamnesis, l’oblio si erge come una funzione ineliminabile e indispensabile per la costituzione di ogni memoria genuinamente umana.
Il nostro Deltito, la cui patologia non lo rende più in grado di tenere legati i fili della memoria, è in realtà ossessionato dall’idea di aver dimenticato di ricordare: “ogni cosa – scrive l’autore – veniva con disciplina annotata e sottoposta al vaglio di Deltito. A lui stesso, c’è da dire, quella volontà di scrittura sembrava ridicola, insensata. Neppure una scrittura infinita sarebbe capace di dare una descrizione completa del ricordo, mi disse, citando la frase sconsolata di un pensatore. Ma non ne poteva fare a meno. Leggeva e rileggeva quegli appunti. Guardarli lo angosciava, come se in mezzo a essi si nascondesse l’arma che avrebbe lacerato il telo della sua presunta sanità mentale”.
È qui che io trovo che l’impoverimento patologico che caratterizza la sindrome di Ræbenson possa assumere con chiarezza la forma di una metafora applicabile più in generale alla società in cui viviamo, così particolarmente fissata sugli elementi individualizzanti di ogni identità, al punto da rischiare di trasformare in una vera e propria ossessione la necessità di accumulare sempre più dati e informazioni che ne confermino l’esistenza. Ignorando che, a volte, è necessario anche sottrarre, sottrarsi.
La vera sindrome può essere insomma considerata quella che investe chi ha la pretesa di voler vivere con una sola e unica identità, da difendere fino alla morte, rigidamente stabilita e rinchiusa in un’autoanalisi sempre più minuziosa e particolareggiata, attenta e valutata dalla misurazione dei ricordi oggettivati e accumulati di ciò che “ha fatto” e di ciò che “non è stata in grado di fare” – come se tutti noi fossimo diventati dei redivivi Ivan Il’ič tormentati da un’inedita sindrome di Funes.
Individui sempre più rigidamente isolati e drammaticamente ignari delle enormi opportunità che potrebbero invece derivare dall’aprirsi a un Umanesimo che stimoli la costruzione di modelli identitari disponibili ad accettare il mutamento, l’alterità e le inevitabili trasformazioni associate non solo ai cambiamenti socio-ambientali, ma anche a quelli – altrettanto inevitabili – che investono i nostri organismi e le nostre sempre fragili facoltà mentali.
Identità precarie, disposte semplicemente ad accettare di essere ciò che siamo: essere umani che interagiscono con altri esseri umani all’interno di società umane.
Deltito, come d’altronde tutti noi, sentiva di essere, alla fin fine, semplicemente unico.
Come sottolinea opportunamente il nostro autore, egli si diceva: io non so cosa ho. Nemmeno per un attimo aveva pensato che forse sarebbe stato meglio dire a sé stesso: io non so cosa sono.
Giuseppe Quaranta
La sindrome di Ræbenson
Edizioni Atlantide, 2023