di Antonio Puleggio, Sandra Sostegni
La solitudine di Narciso
Il mito di Narciso, così come viene raccontato da Ovidio, narra di un giovane di rara bellezza che respinse l’amore della ninfa Eco, la quale finì col morirne di crepacuore. La mitologia narra che Nemesi lo punì facendolo innamorare della propria immagine riflessa nella superficie del lago dove, in perduta ammirazione di sé, cadde e morì.
Eco non fu l’unica respinta da Narciso. E fu proprio un’altra fanciulla delusa che rivolgendosi agli Dei disse: “Che possa innamorarsi anche lui e non possedere chi ama!” Questa invocazione fu accolta da Nèmesi. Fu così che Narciso, trovandosi di fronte ad una limpida fonte, vide la sua immagine riflessa e iniziò a desiderare inconsapevolmente se stesso. Un desiderio fatto solo della contemplazione di sé che si imporrà su tutto, e che facendogli dimenticare fame e sete, lo condurrà alla morte.
Ma ciò che Narciso vede riflesso nelle acque non è se stesso, un prodotto percettivo dell’identità personale, ma l’immagine scissa dal Sé, qualcosa di “non appartenente”, non integrato, un “non-Sé” (Kohout, 1971). Qualcosa di altro che è Sé fisico ma non Sé psichico. Narciso dunque non era innamorato di sé stesso ma della sua immagine “altra”, dotata di una dimensione autonoma, che non aderisce ad alcun processo di identificazione, bensì ad un processo dissociativo di natura schizoide. Da notare che quando questa illusione, sostenuta dal meccanismo difensivo della scissione, cade, l’identità si trova di fronte ad una realtà inconciliabile ed insopportabile che cede il passo all’autodistruzione.
La leggenda greca di Narciso illustra metaforicamente come nel narcisista, questa specie di “amore di Sé” – e non ci facciamo fuorviare dalla parola amore – sia di fatto una calamità che nelle sue forme estreme produce autodistruzione. Fromm (1947) cerca di dimostrare che il vero amore di Sé non è diverso dall’amore per gli altri, mentre “l’amore per l’Io” nel senso dell’amore egoistico e narcisistico, lo si trova in coloro che non possono amare né gli altri né se stessi, e quindi è cosa ben lontana dall’amore, ma molto vicina alla condizione psicopatologica.[1]
Vogliamo mettere in evidenza il profondo isolamento “affettivo” e il distacco relazionale rispetto al mondo: il reificarsi di una “condizione autopoietica” (uno stato di “automantenimento” dell’Io), di matrice troppo ideale e troppo poco reale, tale da produrre una progressiva dissociazione ed uno stato disadattivo permanenti. Stato che sembra avere la funzione di involucro, garanzia di difesa e protezione dai tentativi esterni ed interni di modificazione: un involucro edificato sulla ancestrale paura di scoprire in sé un’assenza di significati e un vuoto affettivo insopportabili e angoscianti “quanto la morte”. Un individuo immerso in uno stato solipsistico che non può permettersi di cambiare e che non può avere relazioni significative profonde con altri al di fuori di sé, artefice e vittima di una sorta di “amore retroflesso” che lo relega in una dimensione autopoietica.
Solipsismo e qualità relazionale del Sé
Generalmente nel linguaggio comune utilizziamo espressioni come “te”, “me stesso”, “gli altri”, che rimandano ad una “finalità sociale” sempre presente nei fenomeni interattivi umani.
La qualità del comportamento nell’uomo- il “fare”, il “pensare di fare”, il “dire di fare”, il “desiderare di fare” – riflette una sua finalità che dovrebbe sempre essere relazionale, ed una condizione di “coscienza di sé” che è sempre sociale. [2] Questo perché ciò che crediamo di essere, ciò che vorremmo essere e ciò che immaginiamo di essere per gli altri, assumono sempre una dimensione collettiva. Dunque l’identità è anche un costrutto relazionale: “Io sono me stesso a condizione che gli altri mi riconoscano come tale”, scriveva Jerome Bruner (Bruner J., 1996).
La formazione dell’identità si avvale di competenze emozionali e relazionali. Lo scambio relazionale permette all’esperienza di interiorizzare l’altro e l’affettività contemplata in questo scambio, e di imprimere al riconoscimento di Sé un significato affettivo, sociale. Il narcisista non ha bisogno di essere posto in relazione ad altri (dove alter è ciò che è altro-diverso-da-sé), né di fare alcun investimento per porsi in relazione col mondo. Nel conservare la propria immagine si allontana progressivamente dalla realtà: ciò gli consente di proteggere la sua “carica narcisistica” ed essere più garantito e protetto da se stesso, da un’autopercezione realistica e dal pericolo che il suo ego narcisistico possa rivelarsi come il prodotto della sua vuota immaginazione. In queste dinamiche sussiste la presenza attiva di meccanismi psichici difensivi e autoconservativi, e in quest’ottica il narcisismo appare crudelmente solipsistico e disadattante. Al di là della qualità dell’oggetto, la sua rappresentazione deve essere tutelata e mantenuta incontaminata rispetto alle influenze dell’ambiente, ed ai suoi effetti interazionali.
Quando gli investimenti psichici si orientano verso il mondo interno, deprivati dello scambio sociale e della possibilità di una co-costruzione relazionale, esprimono le caratteristiche di una organizzazione di personalità patologica che potrebbe essere definita “autopoietica”, in quanto sganciata dalla possibilità di un feedback sociale, che si autodefinisce facendo a meno di criteri e referenti esterni.[3]
E’ su questa condizione solipsistica che sembra fondarsi un Sé distorto, ideale, irreale e immodificabile, da difendere, da sottrarre al giudizio ed allo scambio con gli altri e al resto del mondo. La perdita del significato di un confronto col mondo, che diviene “non riconoscimento dell’altro”, determina anche uno stato di “non-conoscenza-di-sé”, della propria natura intima e profonda spesso celata dietro un’idea di apparente funzionalità.
L’aspetto autopoietico sembra riassumere una qualità narcisistica che si esprime nell’auto-determinazione, nella auto-descrizione e nella auto-definizione di un Sé che può giungere a sviluppare una gamma di comportamenti, più o meno francamente sintomatici, per sfuggire alla “contaminazione” ed eludere lo scambio e l’apertura verso l’altro.
L’evitamento e la fuga dalla realtà caratterizzano queste organizzazioni di personalità evidenziandone la natura psicopatologica.
Interpretazioni del narcisismo
Queste prime considerazioni ci restituiscono intuitivamente l’idea di un dolore profondo, inespresso, e di un vuoto incolmabile che caratterizzano queste organizzazioni psichiche. Centrato sul senso di irrealtà, solipsismo e perdita del Sé, il narcisismo si colloca forse più su un versante psicotico che nevrotico, ed interessa un’ampia gamma di comportamenti sintomatici che in ordine di gravità già Lowen classificò in: carattere fallico-narcisistico, carattere narcisistico, personalità borderline, personalità psicopatica, sino ad arrivare a parlare di personalità paranoide[4]. Anche Freud (1914) accostò il narcisismo alla psicosi, in particolare ad una caratteristica della schizofrenia, nella quale la libido verrebbe disinvestita dal mondo esterno e rivolta verso sé. Ricordiamo infatti che Freud muove i primi passi mettendo in relazione fra loro quelle che lui definì “parafrenie”, cioè la schizofrenia o dementia praecox, dove rileva due elementi caratteristici fondamentali: il delirio di grandezza ed il distacco dal mondo esterno. Secondo questa primitiva concezione, nella nevrosi la libido verrebbe investita sugli oggetti, mentre nelle psicosi schizofreniche, da Freud chiamate appunto nevrosi narcisistiche, la libido verrebbe investita sul soggetto, depauperando così gli oggetti dell’investimento libidico, come accade nell’autismo.
Queste considerazioni, evidenziando la natura psicotica del narcisismo, contemplano il distacco affettivo dalla realtà in un’assenza di significato, espressione a sua volta di un vuoto psichico interiore dominante.
Ancora Lowen (1983) afferma che “dissociando l’Io dal corpo e dal Sé, i narcisisti dividono la coscienza dalla sua base viva. Invece di operare come un tutto integrato, la personalità è spaccata in due parti: una attiva, l’Io che osserva, con cui l’individuo si identifica, e una passiva, l’oggetto osservato, cioè il corpo”.[5]
Secondo Fromm (1964) nella valutazione della patologia narcisistica si distinguono una forma benigna ed un’altra maligna. Nella prima l’oggetto è il risultato di uno sforzo personale ed è legata al fare. La dinamica di questa tipologia è auto-depressiva, nel senso che l’energia che alimenta il fare è di natura narcisistica, ma proprio per il fatto che l’operato rende necessario che ci si riferisca alla realtà, piega e mantiene, entro limiti contenuti, la sua qualità patologica: questo secondo Fromm, spiega il fatto che molte di queste personalità siano anche spiccatamente creative. La soddisfazione derivata dall’operare narcisistico, necessita di riconoscimenti e di condivisioni, quindi diviene in qualche modo espressione sociale (talvolta può essere addirittura l’elemento costitutivo che fa da collante in un gruppo, con una forte definizione di identità). Per quanto riguarda invece le cosiddette “forme maligne”, è ancora Fromm che, chiarendo il concetto di egotismo, afferma che quest’ultime si associano a scarso interesse, amore o simpatia per gli altri al limite della misantropia, con l’assoluta cecità dinanzi alla realtà, ma non necessariamente con la sopravvalutazione dei propri processi soggettivi. Infatti l’idea di narcisismo qui non viene associata ad un significato positivo o negativo della persona. Quest’idea è più vicina ad una “assenza di significato” del Sé, e non contempla che la personalità narcisistica si esprima preferenzialmente attraverso una auto-percezione positiva e gratificante. Può al contrario fissarsi su percezioni globali o parziali, negative o dispregiative della propria persona, o focalizzarsi su parti corporee ritenute (e quindi percepite) come deboli, insufficienti o malate.
Ma sarà soprattutto un altro grande psicoanalista contemporaneo, Heinz Kohut (1971-1984) che valuterà in termini positivi la grande importanza delle istanze narcisistiche nell’equilibrio psicologico dell’uomo che agisce la genitalità: l’Autore, parlando di “valenza sociale del narcisismo”, sostiene che per avere una buona vita relazionale con l’esterno bisogna possedere una buona dose di amore verso se stessi.[6]
Rapprersentazione corporea nel narcisista
La letteratura concorda sul fatto che generalmente, nel soggetto narcisista, il corpo sia il prodotto di immagini mentali generate da proiezioni di desiderio non completamehte integrate in un Sé reale: da ciò discende che la rappresentazione corporea nel narcisista difficilmente sia l’espressione integrata del Sé.
Assimilando il Sé ai sentimenti e alle funzioni di percezione corporea si comprende il rapporto tra narcisismo e assenza del senso-di-Sé. Si pensa al narcisismo in termini di immagine e non di sentimento. L’opposizione o la non integrazione tra le organizzazioni mentali (Io) e l’entità percettivo corporea (Sé), può essere inscritta nell’ambito del disturbo di sviluppo dell’Io e comunque denota uno spostamento di identità dal Sé all’immagine (Puleggio, 2002).
Ma la rappresentazione del mondo non è disgiunta da quella corporea. Il corpo può essere considerato la più elementare espressione dell’identità, e tutti i processi rappresentativi, un’espansione, una dilatazione del corpo. Gli schemi mentali, i modelli interiorizzati, le immagini acquisite sono espressioni di una corporeità che si organizza dinamicamente, evolutivamente, divenendo la realtà che conosciamo. In un soggetto ben adattato (condizione egosintonica), si struttura nel corso dello sviluppo una duplice coscienza che riguarda il “sentire il proprio corpo” e “averne un’immagine”. Diciamo che coesistono un canale diretto e uno indiretto. In questi casi la rappresentazione del corpo e la sua esperienza percettiva non confliggono, ma anzi coincidono.
Nelle personalità narcisistiche l’aspetto percettivo, che possiamo tradurre in “sento-il-mio-corpo”, non coincide con le funzioni di pensiero che riguardano l’avere un’immagine di questo corpo: il feedback tra corpo (Sé) e mente (Io), tra il corpo e la sua rappresentazione è spesso inefficace: l’Io proietta un’immagine ideale del corpo ma non esiste alcun fenomeno di retroazione tra l’Io stesso e il corpo reale (come abbiamo già sottolineato, questa condizione, considerata un elemento dissociativo, è presente anche in altri fenomeni patologici come quelli dismorfofobici, associati a bulimoanoressie e disturbi del comportamento alimentare).
Regolazione affettiva e modelli di attaccamento
Alcuni Autori, tra cui Peter Fonagy (1997), sostengono che queste organizzazioni patologiche di personalità possono essere ricondotte ad un’eziopatogenesi che attiene alla disorganizzazione del sistema motivazionale di attaccamento[7]. Il termine attaccamento, che fa riferimento alla condizione nella quale un individuo è legato emotivamente a un’altra persona, generalmente percepita come più forte e quindi rassicurante, si focalizza nel rapporto madre-bambino nel quale sono presenti chi cerca e chi offre le cure. Questa esperienza relazionale primigenia è stata descritta come sistema comportamentale di attaccamento, in relazione alla teoria dell’attaccamento elaborata da John Bowlby (1907-1990). In essa la disorganizzazione dell’attaccamento comporterebbe, secondo le linee interpretative, tanto tipologie di rappresentazioni opposte e non integrate di sé-con-l’altro (rappresentazioni Sé-oggetto scisse), quanto deficit nelle funzioni metacognitive e di auto-regolazione delle emozioni. Il concetto di “disorganizzazione dell’attaccamento” permette di considerare unitariamente, tanto i temi cari alle teorie del conflitto sostenute da Kernberg (1975), con la mancata integrazione di rappresentazioni opposte di sé-con-l’altro, quanto i temi centrali alle teorie del deficit sostenute da Kohut, con gli ostacoli all’auto-regolazione degli impulsi e delle emozioni.[8]
Considerazioni cliniche
L’autostima del narcisista sembra forte e inattaccabile ma è quasi sempre invariabilmente molto fragile. Questo spesso si trasforma nella necessità di una costante attenzione, riconoscimento e ammirazione, che cerca di ottenere con strategie seduttive e strumentali. Questi soggetti sentono di poter pretendere il miglior trattamento o il più alto riconoscimento, e sembra esservi un diritto acquisito alla soddisfazione o all’accoglienza entusiasta, il cui mancato assolvimento può generare stati d’animo furiosi e sconcertati. Questo senso del diritto, generalmente si associa alla mancanza di sensibilità per i desideri e le necessità degli altri, e può sfociare nello sfruttamento o nella prevaricazione, cosciente o involontaria. Mentre sono propensi a discutere le proprie preoccupazioni con sovrabbondanza di dettagli, sono altrettanto incapaci di riconoscere che anche gli altri hanno sentimenti e necessità, e sovente manifestano impazienza e distacco nei confronti di problemi e stati d’animo altrui. Spesso le relazioni sono funzionali alla celebrazione della loro persona, ed è possibile formare un’amicizia o un’intesa sentimentale solo se il partner rientra negli schemi funzionali del riconoscimento, adorazione, ammirazione etc. Generalmente mancano di empatia, e possono essere incuranti del disagio che possono infliggere con i loro atteggiamenti diretti e indelicati o con le loro osservazioni.
Secondo una descrizione convenzionale proposta dal DSM IV, le caratteristiche essenziali del disturbo narcisistico di personalità vengono identificate in un quadro pervasivo di grandiosità, necessità di ammirazione e mancanza di empatia, che si instaura entro la prima età adulta e può manifestarsi in una eterogenea varietà di contesti.[9]
Gli individui con queste caratteristiche manifesterebbero un senso grandioso di autostima, e generalmente sovrastimerebbero le proprie reali capacità, i propri talenti, apparendo spesso vanagloriosi e presuntuosi, presumendo che gli altri attribuiscano lo stesso valore che loro attribuiscono ai loro sforzi, e sorprendendosi quando non giungono le lodi che si aspettano e che sentono di meritare. Spesso nel giudizio esagerato del proprio operato sarebbe implicita una visione svalutativa dei comportamenti altrui. Fantasie di successo, potere, bellezza e ammirazione sembrano pervadere gran parte del pensiero di questi soggetti che sentono di potersi paragonare esclusivamente a personaggi noti o famosi. Il narcisista percepisce se stesso su un piano di superiorità, di specialità, di unicità, e si aspetta che il mondo gli riconosca queste qualità inusuali. Sovente ha la convinzione di poter essere apprezzato e compreso da individui altrettanto speciali, per condizioni intellettuali o di status sociale particolarmente elevato, e si attribuisce la facoltà di discriminare tra le persone, quelle degne di frequentazione per attributi di unicità, perfezione e dotazione. La sua autostima si rispecchia nel valore idealizzato che attribuisce a coloro che frequenta, ma può sempre svalutarne meriti ed attributi qualora, come abbiamo detto, le aspettative vengano disattese.
L’osservazione clinica permette di circoscrivere un’ampia area dove possono essere collocati alcune dei molti fattori eterogenei della personalità narcisistica: il dominio della razionalità, la predominanza del pensiero e dell’azione, l’assenza di affettività, la carenza del mondo simbolico interiore, i modelli conflittuali irrisolti a livello familiare-genitoriale, un orientamento psicoenergetico endogeno, la presenza di un’organizzazione efficiente e funzionale di ruoli e comportamenti, la necessità del consenso, la negazione come filtro delle risposte esterne che contraddicono i riferimenti interni, la relativa immodificabilità degli schemi di rappresentazione interna, l’egemonia funzionale dell’Io rispetto al Sé e la sua mancata integrazione sul piano di realtà, l’espressione globale di facciata dominata dall’immagine e sorretta da un investimento a carico dell’Io (a discapito del Sé corporeo), una globale incapacità di scambio affettivo, la difficoltà nell’instaurare relazioni stabili e significative nel tempo. Questo ci ricorda quanto sia difficile instaurare (e mantenere nel tempo) una buona relazione terapeutica con un paziente affetto da Disturbo Narcisistico di Personalità.
In ambito sistemico-relazionale l’osservazione clinica si amplia dal soggetto portatore del sintomo alla rete primaria in cui il paziente vive, alle sue regole di contesto, alle organizzazioni disfunzionali che esistono nella storia della sua famiglia.
Gli elementi transgenerazionali della mente narcisistica, spesso sono caratterizzati da aspetti di inconsapevolezza tramandati, tra i quali l’orgoglio, l’avidità e la volontà di potenza. Come terapeuti sistemici non pensiamo al narcisismo soltanto come ad un tratto di personalità, ad una caratteristica che attiene al singolo individuo, ma ad un processo che emerge dalle relazioni familiari, dai modelli e miti tramandati.
Umberta Telfner (2014), terapeuta sistemica che si è occupata per anni di narcisismo, considera questa condizione come un “paradosso della relazione”, la distorsione di un modello transgenerazionale familiare. Usando la metafora secondo cui i narcisi sono nati “dagli specchi delle loro famiglie”, si può affermare che l’immagine riflessa di Narciso contenga la storia dei “reciproci rispecchiamenti familiari”. Sembra che il narcisista abbia dunque imparato a specchiarsi nell’immagine che la sua famiglia e i suoi genitori hanno proiettato su di lui, rispecchiando in lui, loro stessi… Secondo questa interpretazione il narcisista vedrebbe riflesso nello specchio psichico i suoi pattern familiari e uno stile solipsistico di “guardare” il mondo che racchiude in sè l’incapacità di porsi in relazione con gli altri. Questa idea di chiusura mitica, secondo la Telfner, la possiamo ritrovare nella parola mythos e nel verbo myo che significa appunto “essere racchiuso”, “stare chiuso in se stesso”: questo ci porta a considerare la possibilità che l’identità narcisistica si costituisca in un mito familiare che “racchiudere in sè” una verità tramandata. (Umberta Telfener, Ho sposato un narciso, Castelvecchi Editore, Roma, 2014).
L’influenza mitica familiare emerge anche dalla narrazione classica originale dove si narra che Narciso, figlio di Cefiso e della ninfa Liriope, crebbe all’ombra della sua scontrosa e solitaria natura, tenendosi lontano dalla gente, e che questo comportamento fu incoraggiato dai genitori, influenzati dal responso del vaticinio dell’indovino di Tiresia, emesso alla nascita, relativo ad una longa senectus del figlio. Il responso del vate Tiresia fu: “Narciso può sì aspirare ad una durevole senilità, ma solo se non conoscerà se stesso”.[10]
Considerazioni terapeutiche
Molti orientamenti terapeutici concordano nel ritenere che la sintomatologia espressa dal paziente narcisista non vada respinta o corretta ma accolta come un’espressione attuale del disturbo strutturale, con la consapevolezza che il sintomo non potrà essere risolto se non cambierà l’organizzazione mentale che lo sostiene.
Ma come dare un nome o una collocazione di senso a ciò che non si è mai affacciato al mondo simbolico della coscienza, a ciò che è anomico e che non è mai stato identificato o integrato nel “noi sociale”, ma che vive da sempre nella dimensione profonda dell’implicito?
Sul piano clinico alcune espressioni sintomatiche, suggeriscono come il senso dell’apparire possa diventare estremo e allontanare l’individuo dal rapporto con gli altri e con il mondo, chiudendolo in un isolamento che può assumere caratteristiche francamente patologiche. Il narcisista e un soggetto che generalmente ha un’integrazione disfunzionale con la realtà del proprio essere, con il proprio corpo e i suoi sentimenti, e quindi col mondo: in lui il senso di irrealtà non possiede una matrice nevrotica ma tende ad una dimensione di qualità psicotica.
Anche quando sembra esservi la capacità di stabilire una relazione col mondo, il narcisista agisce l’inganno, simulando un contatto che tuttavia di fatto non permette alcuna comunione (in tal senso la sorgente dinamica pare situarsi in superficie). La presenza di un Sé vuoto, deprivato del principio vitale, può attivare il tentativo da parte del terapeuta di incrinare il “guscio autistico” del narcisista per indurre un riconoscimento dell’alterità; ma questo può attivare reazioni di odio come risposta difensiva, e un disperato aggrapparsi ad un’ingannevole illusione di un Sé irreale.
Questi pazienti che solitamente negano la presenza di situazioni problematiche e faticano a mantenere un canale aperto con le loro emozioni, nei confronti del terapeuta e di un eventuale potenziale cambiamento, tendono ad erigere in modo difensivo una barriera ipercritica; così diventa difficile mantenere quel livello di alleanza terapeutica auspicabile. Come reazione il terapeuta, sentendosi attaccato o provocato dal paziente, può reagire anche ponendosi in posizione simmetrica.
La psicoterapia cerca di liberare il paziente dalla sofferenza che lo opprime (paura, odio, vergogna, rabbia), e per questo usa strumenti di rinforzo dell’Io e di ridefinizioni di contenuti che il paziente al momento non può affrontare né elaborare autonomamente. Ma il narcisista lotta per il controllo, e forse un modo per vincere questa sfida è non giocarla, eluderla; ecco perché questo tipo di paziente assume spesso in terapia (ammesso che ci arrivi) un posizione provocatoria, simmetrica e distruttiva. Si riconosce che un fondamentale passaggio terapeutico attiene a l’aiutare il paziente a identificare il suo sentimento di vuoto e solitudine: ma il paziente narcisista non riconosce le proprie emozioni e nega di avere un problema. Dunque un rischio è che “si dimentichi” del perché sia lì con il terapeuta, o percepisca un insostenibile sentimento di frustrazione e abbandoni la terapia.
Questi peculiari aspetti impongono la necessità di creare una relazione terapeutica accettante, calorosa, non distaccata, autentica. Il terapeuta deve essere capace di mostrare empatia e comprensione verso il paziente, deve cioè sentire sinceramente con lui il suo stato e condividerlo. Il terapeuta diviene in questo modo il mezzo per stabilire un contatto possibile col mondo.
Ricordiamo in tal senso lo stile terapeutico consenziente proposto da Bogliolo, risultato particolarmente efficace per costruire e mantenere nel tempo una relazione terapeutica stabile con sistemi altamente patologici.
Bogliolo ci ricorda che il terapeuta consenziente innanzi tutto “rispetta” il paziente che ha di fronte e lo stile che esprime; si fa carico di un “cum-sentire” terapeutico che qui assume anche il significato di “tollerare”, di permettere al sistema di manifestarsi per come é stsrutturato al momento, senza pretenderne “rapidi e intollerabili mutamenti”. (Bogliolo, 1996)
L’approccio consenziente potrebbe risultare particolarmente appropriato nel trattamento del paziente narcisista, la cui struttura dell’identità (a buon diritto classificabile come psicotica) esprime, nella sua rigidità, una chiusura al mondo e una tendenza all’immutabilità nel tempo.
Ogni tentativo da parte del terapeuta di forzare e indurre cambiamento con modalità terapeutiche di tipo direttivo e/o provocatorio, mirate ad indurre turbolenze o crisi nel sistema, risulterebbero inefficaci e controproducenti.
Il terapeuta dovrà essere continuamente impegnato a creare una condizione di “vicinanza”all’interno del sistema terapeutico, sistema che nell’accezione relazionale tenderà continuamente a metterlo in scacco o ad espellerlo nel momento stesso in cui ne chiede l’aiuto.
Per far questo il terapeuta deve essere capace di far “sopportare” al paziente una sua delicatissima intrusione nel suo sistema autopoietico.
Questo approccio permette al paziente di continuare ad esprimere la sua disfunzionalità in attesa che emergano le condizioni per una spinta al cambiamento.
E’ evidente che l’elemento fondamentale di questo processo risieda nel “creare le condizioni perché il paziente divenga disponibile ad accettare lo strumento terapeutico.
Tutto questo non avviene attraverso strategie predeterminate, ma per mezzo di un’alleanza terapeutica, di un incontro terapeuta-paziente, basato soprattutto sulla condivisione di un percorso che rende superfuo l’erigersi di barriere difensive.
Bibliografia
- American Psychiatric Association (1994), DSM-IV, Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, 4a edizione, tr. it. Masson, Milano, 1995.
- Bernardini Marzolla P. (a cura di), Publio Ovidio Nasone, Metamorfosi, tr. it. Einaudi, Torino, 1994.
- Bogliolo C., Manuale di psicoterapia relazionaledella famiglia. Tradizioni ed evoluzioni della realzione terapeutica, Franco Angeli, Milano, 2008.
- Bowlby J. (1988), Una base sicura, tr. it. Raffaello Cortina, Milano, 1989.
- Bruner J. (1996), La cultura dell’educazione, tr. it. Feltrinelli, Milano, 1997.
- Fonagy P., Target M. (2001), Attaccamento e funzione riflessiva, tr. it. Raffaello Cortina, Milano.
- Freud S. (1914), Introduzione al narcisismo, Freud Opere, tr. it. Boringhieri, Torino, 1975, 7, pp. 441-472.
- Fromm E. (1964), Psicoanalisi dell’amore, tr.it. Newton Compton, Roma, 1971.
- Kernberg O.F. (1975), Sindromi marginali e narcisismo patologico, tr. it. Boringhieri, Torino, 1978.
- Kohut H. (1971), Narcisismo e analisi del Sé, tr. it. Boringhieri, Torino, 1976.
- Lowen A., Il linguaggio del corpo, Feltrinelli, Milano 1978.
- Lowen A., Il tradimento del corpo, Edizioni Mediterranee, Roma, 1982.
- Lowen A., Il narcisismo. L’identità rinnegata, Feltrinelli, Milano, 1985.
- Maturana H.R., Varela F.J. (1980), Autopoiesi e cognizione. La realizzazione del vivente, tr. it. Marsilio, Venezia, 1985.
- Puleggio A., Identità di sabbia. Disturbi evolutivi nell’epoca del narcisismo, Franco Angeli, Milano, 2002.
- Telfener U., Ho sposato un narciso, Castelvecchi, Roma, 2014.
[1] Fromm E., (1947), Man for himself, An inquiry into the psychology of ethics; tr. it. Dalla parte dell’uomo, Astrolabio-Ubaldini, Roma, 1971.
[2] “Contro l’idea di un sé privato, solipsistico, che si accende alla coscienza in solitudine, depone il dialogo interiore secondo Vygotskij (1925). L’idea di coscienza come stato privato (…) è criticata da Dennett (1991) e da molti altri che hanno considerato l’esperienza del sé autocosciente come il prodotto della storia sociale e della relazione con altri interiorizzati”. “Questa concezione dell’origine sociale della coscienza in psicologia tende oggi a far riferimento a Vygotskij come al suo più autorevole precursore, si ritrova in G.Mead (1934) ed è stata adottata più recentemente da D.Stern (1985), che ha esaminato l’emergere dell’esperienza di sé entro i primi rapporti interpersonali.” (in: Calamari E. (a cura di), Dimensioni del sé: memoria, coscienza, affetti, ETS, Pisa, 2002, pp. 8-9).
[3] Il termine autopoiesi deriva dal greco auto (sé) e poiesis (creazione) ed è stato utilizzato da Maturana e Varela per indicare quella che per loro è la caratteristica fondamentale dei sistemi viventi, e cioè il fatto di possedere una struttura organizzata capace di mantenere e rigenerare nel tempo la propria unità e la propria autonomia rispetto alle continue variazioni dell’ambiente circostante, tramite la creazione delle proprie parti costituenti, che a loro volta contribuiscono alla generazione dell’intero sistema. I sistemi viventi, quindi, mantengono se stessi grazie alla produzione dei propri “sottosistemi” che generano, a loro volta, l’organizzazione strutturale globale necessaria per mantenerli e produrli. I sistemi viventi sono visti come strutture autonome, dotate di chiusura operazionale: il sistema si trova, cioè, in una situazione di completo autoriferimento, in cui pensa solo al proprio mantenimento e tutte le azioni che sembra compiere verso l’esterno sono, in realtà, atte a mantenere la propria integrità rispetto alle perturbazioni ambientali.
Per gli Autori questo concetto è riferibile a tutti i sistemi, intesi appunto come sistemi autopoietici, cioè autoproduttori che generano e definiscono da sé i propri confini: si tratta di sistemi dinamici la cui chiusura è condizione necessaria alla loro autonomia. Trattandosi di sistemi “informazionalmente chiusi”, solo attraverso l’adattamento reciproco delle parti interagenti nella relazione si potranno verificare quelle modificazioni strutturali che permetteranno al sistema di organizzarsi secondo modalità più funzionali (Maturana H.R., Varela F.J. (1984), L’Albero della conoscenza, tr. it. Garzanti, Milano, 1987).
[4] Quest’ultima rappresenta, per Lowen, un punto quasi antitetico rispetto ai concetti di equilibrio e salute psichica: caratterizzato da una marcata megalomania, il soggetto paranoide, si pone al centro di una profonda alienazione che non gli permette di distinguere la realtà dalla fantasia. Per l’Autore, la condizione paranoidea, possiede a tutti gli effetti una franca struttura psicotica. (Lowen A., Il Narcisismo. L’Identità rinnegata, Feltrinelli, Milano, 1985, p. 23).
[5] Alexander Lowen (1983), Il Narcisismo. L’Identità rinnegata, Feltrinelli, Milano, 1985, p. 35.
[6] Heinz Kohut viene considerato l’Autore che ha espresso, tra i contemporanei, i più significativi contribuiti relativamente al disturbo di personalità narcisista. Kohut ha ispirato un importante movimento all’interno della psicoanalisi che secondo alcuni rappresenta la più potente corrente di dissidenza della psicoanalisi contemporanea. Tale corrente denominata “Psicologia del Sé”, si pose in aperto contrasto con quella psicoanalitica tradizionale nota come “Psicologia dell’Io”, e pose al centro delle sue teorizzazioni l’aspetto più esperienziale, di matrice fenomenica: quello del Self. Il concetto di Sé viene contrapposto a quello di Io, considerato dal movimento, più impersonale ed astratto.
[7] Fonagy P., Attachment, the development of the self, and its pathology in personality disorders, in: Maffei C., Derksen J., Groen H. (a cura di), Treatment of Personality Disorders, New York, Plenum Press, 1997.
[8] Come abbiamo già notato sia Kohut che Kernberg, hanno contribuito significativamente all’interpretazione della psicodinamica dei disturbi narcisistici, anche se da posizioni diverse e discordanti.
[9] Col DSM-III del 1980, la personalità narcisista entra a far parte ufficialmente della diagnostica psichiatrica, e ancora oggi molti Autori fanno riferimento ai termini descrittivi qui presenti. Ricordiamo che il DSM-IV propone nove criteri diagnostici, dei quali almeno cinque devono essere presenti per formulare una diagnosi di personalità narcisistica: 1) reazione alle critiche con rabbia, vergogna o umiliazione; 2) tendenza a sfruttare gli altri per i propri interessi; 3) grandiosità, cioè sensazione di essere importanti, anche in modo immeritato; 4) sentirsi unici o speciali, e compresi solo da certe persone; 5) fantasie di illimitato successo, potere, amore, bellezza, ecc.; 6) sentirsi in diritto di meritare privilegi più degli altri; 7) eccessive richieste di attenzione o ammirazione; 8) mancanza di empatia verso i problemi delle altre persone; 9) persistente invidia (questo criterio diagnostico non era ancora stato formulato nella prima versione del DSM-III del 1980).
[10] Bernardini Marzolla P. (a cura di), Publio Ovidio Nasone, Metamorfosi, tr. it. Einaudi, Torino, 1994.