di Primavera Fisogni
Abstract
Perché occorrono episodi estremi per provare il dolore dell’altro, per sentirsi compartecipi e compassionevoli? Di fronte a immagini come quella del piccolo profugo Alan Kurdi che giace sulla spiaggia turca di Bodrum nel 2015[1] o dei bambini chiusi in gabbia nei centri di detenzione americani ai confini con il Messico[2] oppure di fronte a relazioni nate nell’amore e sfociate nella violenza (Panzeri, 2019)[3], proviamo immediato sconcerto e reagiamo con sdegno.
Ma allora, se il sentire empatico tende ad accendersi quando ci si imbatte nella sofferenza altrui, per quale ragione si avverte una sempre minore capacità di vivere questa esperienza originaria davanti al dramma dei migranti raccolti in mare, come prova il diffuso sostegno popolare a politiche di chiusura verso “l’altro”, anziché di inclusione?
Il grande problema affrontato oggi dalla società civile e dalla politica italiana/europea stimola la riflessione filosofica, a fronte di un dibattito intellettuale insoddisfacente e di un impegno politico ancora lontano dall’intercettare le priorità antropologiche. In questo articolo mi propongo di esplorare i fattori on/off dell’empatia per la sofferenza altrui, cioè intendo capire come si attivi e perché si spenga questa straordinaria capacità di sentire l’altro, bene prezioso per il fiorire della nostra umanità. Misurerò brevemente il concetto forgiato da Edith Stein (1917) in chiave fenomenologica con le più recenti risultanze delle neuroscienze (Rizzolatti e Sinigaglia, 2019) e con la teoria generale sistemica (Urbani Ulivi, ed. 2019), per concludere che l’empatia, in quanto proprietà sistemica di secondo tipo, ovvero qualità trascendente e insieme accomunante l’Io e l’altro, dipende da delicati equilibri e fluttuazioni, entrando in relazione con l’ambiente.
Il dolore degli altri e l’empatia a intermittenza
Sempre più spesso si invoca il contagio dell’empatia, per superare l’egoismo che limita la fioritura della vita buona in questi anni tanto difficili. Si parla e si scrive molto del bisogno di “sentire l’altro” (Boella e Buttarelli, 2000; Boella, 2005), ma si affronta ancora troppo poco la questione del perché lo slancio empatico verso chi è nel bisogno assuma un aspetto volatile: dopo le grandi emergenze o episodi limite di sofferenza, è più facile trovarsi in sintonia con “l’altro” in difficoltà; tuttavia basta poco per dimenticarsene. Il fenomeno che sta verificandosi in Italia – pur non isolato rispetto al resto d’Europa – merita una maggiore attenzione, perché si presenta come una chiave d’accesso privilegiata al cuore umano e, sul piano filosofico, alle molteplici aporie del sentire empatico.
Il tema è quello dei naufragi nel Mediterraneo, da parte di quei migranti che – lasciate le coste del Nord Africa – si imbarcano in rischiosissimi viaggi della speranza verso l’Europa. Se nell’ottobre 2013, la morte di 368 persone (20 i dispersi) seguita all’inabissamento, nelle acque di Lampedusa, di un peschereccio proveniente dalla Libia, suscitò un’immediata partecipazione sociale e politica, con l’avvio della Missione Mare Nostrum[4], sei anni dopo il clima generale è decisamente cambiato. A parte scelte politiche improntate a decisioni al limite della crudeltà – ad esempio: impedire l’attracco di navi con persone stremate[5] o lasciare per ore, sotto il sole, i naufraghi giunti in porto – colpiscono due fattori.
Da un lato i sondaggi effettuati nelle ore più difficili di questi eventi hanno rivelato lo spostamento dell’empatia dal dolore dei profughi alle politiche della “linea dura”; dall’altro le telecamere hanno registrato insulti a chi portava aiuto o ai medesimi naufraghi da parte di astanti, di persone che seguivano lo svolgersi dei fatti. Se leggiamo tutte queste manifestazioni con il distacco richiesto dall’analisi, non possiamo non rilevare come il solo fatto che “l’altro” stia soffrendo, sotto gli occhi di tutti (continue riprese, contatti social, streaming) non sia fattore sufficiente a suscitare empatia.
D’altro canto, è immaginabile che una parte dell’opinione pubblica indifferente o addirittura dis-empatica verso i migranti/naufraghi abbia avvertito, in passato, una compartecipazione alla sofferenza di quelle persone. O che, pur percependone il dolore, non lo viva in alcun modo come uno stato emotivo capace di far incontrare l’altro. Cos’è davvero l’empatia e perché, soprattutto, essa si presenta come un’emozione on/off, avvertibile ora e magari non più domani?
L’altro colto come “un altro io” dalla fenomenologia
L’empatia, tema che Edith Stein affronta nella prima grande prova della sua vita di filosofa, la tesi di laurea, è materia cruciale per la filosofia, in quanto si rivela essere il tassello indispensabile ad agganciare il senso dell’esperienza interpersonale. Lo aveva ben compreso Edmund Husserl, il padre della fenomenologia moderna, l’approccio teorico del Novecento che, mettendo tra parentesi i pregiudizi, intende dar conto di quanto di irriducibile vi sia nei fenomeni. Il pensatore tedesco aveva affrontato la questione dell’empatia in una forma non sistematica, accennandone nelle Ricerche logiche[6], come del resto molta parte delle sue ricerche, sottoposte a una chiarificazione continua.
Al tema si appassionò la giovane studentessa Edith Stein, a cui si deve lo sforzo critico di esplorare, in maniera originale, le intuizioni del maestro Husserl in un saggio (1917) che resta la pietra miliare di ogni successiva esplorazione sul fenomeno interpersonale[7]. Dalla sua autobiografia, Storia di una famiglia ebrea[8], sappiamo quanto filo da torcere le abbia dato questa indagine, facendola sentire profondamente frustrata, per la complessità teorica di una materia fortemente implicata al mondo delle emozioni. Solo grazie alla fiducia e al supporto del giovane professore e assistente di Husserl, Adolf Reinach[9] le permisero di trovare il bandolo della matassa.
Il termine tedesco Einfühlung, parola a cui fa riferimento Stein, è composto da due parole, la prima indicante “uno” (Ein) e la seconda derivante dal verbo “sentire” (fühlen), con particolare focus sulle «impressioni dell’animo»[10]. Tradizionalmente questa espressione viene tradotta dagli studiosi di Stein con “incorporazione” o “immedesimazione”; entrambi i termini si rivelano però incapaci di dar conto della specificità dell’esperienza e, specialmente il secondo, risulta essere addirittura improprio. Va forse preferita una traduzione quale unum sentire, un sentire insieme, un sentire unico. Il titolo dello studio di Stein suggerisce dunque una conoscenza, di tipo non teoretico e una relazione di identità. Rispetto a Theodor Lipps[11], il primo a impiegare, solo pochi anni prima, il termine Einfühlung, che considerava l’empatia una sintonia con l’oggetto, per lo più estetico, la Stein si sofferma piuttosto sul carattere euristico di questo approccio al mondo. In breve, l’affinità con l’altro ci consente di percepire noi stessi e il mondo, riducendo in qualche modo l’impenetrabilità del Tu scoperto/intuito dall’Io.
«Come nei propri atti spirituali originari si costituisce la propria persona, negli atti vissuti empaticamente si costituisce la persona altrui»[12].
Colto da Husserl, il potenziale dell’empatia viene così portato a tema dalla pensatrice tedesca quale strumento per fondare l’esistenza dell’altro. L’esperienza di Einfühlung prescinde dal giudizio intellettuale sulla persona, in quanto frutto di un’apprensione emozionale, sensitiva oltre che intellettuale. In qualche modo l’empatia consente, nella prospettiva di Stein, di sentire unitamente con l’altro, oltre che di sentire se stessi nel mondo della vita. Se questa è, potremmo dire, un’esperienza originaria della soggettività, l’empatia lo è a pieno titolo della intersoggettività. Ribadisce la fenomenologa De Monticelli:
«L’empatia è atto che coglie un altro come un altro io (…) noi vediamo gli altri come nostri simili».[13]
Ciò non significa che io “conosca” fino in fondo questo altro: solo le mie emozioni, i miei sogni, i miei sentimenti sono da me realmente conosciuti, mentre ciò che pensa chi sta davanti a me in questo momento mi è ignoto, nonostante io riesca a intuire qualcosa di lui, magari proprio il fatto che di lui io ignoro quasi tutto, a differenza di quanto conosco di me. Paradossale, questa apprensione dell’alterità, è da intendersi – come riconosce la filosofa Manuela Moretti, alla luce delle riflessioni di Laura Boella e Annarosa Buttarelli[14] – in un allargamento dell’esperienza personale, rispettando la distanza tra l’Io e il Tu, tra me che provo empatia e l’altro. In pratica, l’empatia è la condizione trascendentale del «provare insieme gioia e dolore».[15] Tali riflessioni finiscono per portarci oltre la lettura più tradizionale di questa singolare esperienza che, rileva Moretti «non è immedesimazione» e ci permettono di cogliere la novità, ancora vibrante, della ricerca della Stein: nella sua indagine la pensatrice tedesca scoprì come fondare il mondo intersoggettivo – obiettivo non portato a termine da Husserl – ma non relativamente agli “oggetti”, bensì agli esseri viventi e personali.
«Nella mia esperienza vissuta non-originaria, io mi sento accompagnato da un’esperienza vissuta originaria, la quale non è stata vissuta da me, eppure si annunzia in me, manifestandosi nella mia esperienza vissuta non originaria (…) qualcosa che non siamo noi, ma non è una cosa, è la realtà vissuta di un altro essere umano».[16]
Spiega Michele Nicoletti a proposito del libro della Stein:
«L’empatia diviene così la strada attraverso cui sperimentiamo l’esistenza di soggetti diversi da noi anch’essi al centro di un loro mondo circostante e oltrepassiamo la visione del nostro mondo per giungere a quella del mondo oggettivo. Superando la concezione unilaterale di una realtà “assoluta” così come quella di un soggetto “assoluto” e ponendo come struttura fondamentale dell’essere la relazione originaria tra il mondo e la coscienza nella sua intersoggettività, la prospettiva husserliana cercava di individuare una frattura teoretica non riconciliata tra soggetto e realtà che il pensiero dell’800 sembrava aver celebrato nei suoi esiti finali. È in questa atmosfera che si colloca la ricerca di Edith Stein: il tema dell’empatia è la piccola porta attraverso la quale si gioca una sfida più grande, prendere coscienza dell’alterità incancellabile che vi è tra soggetto e natura e tra soggetti diversi ma al tempo stesso individuare le condizioni di possibilità di rapporto e comunicazione tra questi due poli»[17].
Quale tipo di conoscenza si ottiene perciò con il sentire empatico? Non certo «intellettuale» in senso proprio, come nota Moretti, invitandoci all’ascolto delle parole autentiche della Stein: lo specifico dell’empatia, per la filosofa tedesca risiede nel «“rendersi conto” dell’essere in relazione, ossia una comprensione che è viversi come non autosufficienti, come limitati e aperti a qualcosa d’altro»[18]. In questa apprensione dell’altro entra anzitutto l’esperienza della corporeità altrui (Körper), che si rivela intrecciata alla dimensione vitale (Leib) e a quella spirituale dell’anima (Seele). Come si nota, anche da queste poche righe, l’approccio fenomenologico scopre i fattori base della comprensione altrui, restando tuttavia alle porte dell’altro, ovvero in uno spazio comune, nel quale è possibile interagire grazie al ruolo dell’intenzionalità. Tale dinamica, nella prospettiva della Stein e della fenomenologia, consiste nello slancio all’oggetto d’esperienza con successivo ritorno all’Io, così che intenzionale è il contenuto presente alla coscienza. Il processo è alla base dell’esperienza empatica, in quanto, conduce all’Io qualcosa di realmente dell’altro, appartenente originariamente al Tu[19].
L’altro compreso “dall’interno” dalle neuroscienze
Con la scoperta del ruolo e del potenziale dei neuroni mirror o specchio, le neuroscienze hanno consentito una più estesa conoscenza delle relazioni intersoggettive sul piano comportamentale. Si deve a Giacomo Rizzolatti dell’Università di Bologna e al suo staff di ricerca, negli anni Novanta del secolo scorso, la formulazione di una tesi dalle potenti ricadute interdisciplinari, riassumibile in questi termini:
«che le risposte mirror abbiano un ruolo distintivo nella comprensione delle azioni, delle emozioni e delle forme vitali altrui»[20].
Presenti in varie aree del cervello umano e animale, nelle aree parietali o frontali legate alla rappresentazione delle azioni – i primi studi vennero compiuti sui primati – queste cellule del sistema nervoso rivestono straordinaria importanza per varie ragioni. In primo luogo sottendono ai comportamenti (azioni); in secondo luogo, si attivano quando si osserva il comportamento altrui; in terzo luogo, essendo presenti anche «aree e centri corticali coinvolti nella rappresentazione di reazioni o comportamenti dotati di valenza emotiva o affettiva»[21] possono aiutarci a dar conto di quei fenomeni della intersoggettività quali l’empatia. In breve: osservare l’altro che prende un oggetto sollecita i neuroni specchio a emulare/ripetere il comportamento; questa interazione vale anche quando leggiamo un’espressione di dolore o di gioia. La afferriamo, in qualche misura, portando l’esperienza altrui nella nostra stessa esperienza:
Sappiamo (…) che le risposte mirror durante l’osservazione di espressioni emotive di un certo tipo (disgusto, paura …) comportano la trasformazione delle rappresentazioni sensoriali concernenti le espressioni osservate nelle rappresentazioni visceromotorie corrispondenti. (…) tali rappresentazioni sono in gradi di innescare in chi osserva, una serie di reazioni vegetative e motorie simili a quelle che caratterizzanti quelle reazioni emotive (disgusto, paura o ilarità), contribuendo a plasmare l’esperienza che se ne fa quando esse sono vissute in prima persona».[22]
La “comprensione basilare” del comportamento altrui (identificazione degli scopi), rilevano Rizzolatti e Sinigaglia, è soltanto un punto di partenza alla “piena comprensione” dell’agire (oltre all’identificazione degli scopi, prevede anche l’afferramento degli stati mentali ad essi collegati)[23], che resta un campo ancora tutto da esplorare per le neuroscienze e per questo tipo di indagini.
A questo punto, dopo aver preso in esame le due principali riflessioni teoriche sull’empatia, possiamo arrivare a un’idea di massima di cosa sia questa particolare esperienza.
1) Siamo in presenza di un vissuto intersoggettivo, come evidenziano sia la fenomenologia, sia l’approccio delle neuroscienze.
2) Entrano in gioco, come minimo, due soggetti.
3) Sono protagoniste dell’empatia emozioni primarie e originarie, negative (dolore, odio) o positive (amore, gioia).
4) Uno dei due soggetti vive l’emozione in via prioritaria; l’altro la fa propria in modo indiretto, avvertendola anzitutto nell’altro, condividendola, replicandola.
5) L’empatia non è data soltanto dalla conoscenza dello stato emotivo altrui, ma dallo slancio ad agire: si è portati ad avvicinarsi all’altro, anche soltanto sul piano del pensiero, del coinvolgimento emozionale.
L’empatia: una proprietà “sistemica”
Sia l’approccio fenomenologico, sia le neuroscienze afferrano qualcosa di essenziale dell’esperienza emotiva dell’altra persona: comprendono che si tratta di un’esperienza in grado insieme di trascendere e di collegare due soggetti umani; però l’Io vive una sorta di divario che impedisce di immedesimarsi/incorporarsi con il Tu (Stein) o di averne una “comprensione piena” di quell’azione (teoria dei neuroni mirror).
Eppure sappiamo che in certe situazioni, e sono numerose, questa possibilità diventa concreta: in momenti di disperazione o difficoltà di persone a noi vicine, ne avvertiamo a tal punto la pena che un abbraccio sincero ha forza terapeutica; davvero serve per lenire un’anima sofferente. O quando ci innamoriamo, siamo così in profonda sintonia che non abbiamo bisogno di parole per manifestare il nostro sentimento, perché “afferriamo” l’altra persona proprio con quello “sguardo dal di dentro” o “view from the inside” che è l’obiettivo teorico degli studi sui neuroni specchio. Sono esempi semplici, ma così comuni e sperimentabili da possedere una valenza universale. Ed è questo, a giudizio di chi scrive, a far riflettere sul fatto che né la fenomenologia, né le neuroscienze siano percorsi capaci di dare una spiegazione appropriata ad esperienze emotive/cognitive interpersonali quali l’empatia. In entrambi gli approcci – per quanto finemente si siano avvicinati al nocciolo del problema – resta uno scarto tra l’Io e il Tu, tra il soggetto e l’altro; uno spazio vuoto che non riesce a dar ragione dell’evidenza di una immedesimazione reale, profonda, autentica che la vita ci porta a sperimentare. Vuol dire, allora, che vanno cercate altre spiegazioni, in grado di integrare quelle appena enunciate.
Ma dove cercare? L’esperienza dell’empatia, attraverso il gesto dell’abbraccio o dello sguardo degli innamorati, che non necessita di parole, o la partecipazione al lutto o a un dolore acuto offre già un’utile indicazione per arrivare a una risposta. Siamo di fronte a una dinamica interattiva, interagente, tra “enti” che non si riducono alle loro parti perché possiedono il carattere di “sistemi”. Io, l’altro: il nostro essere si qualifica attraverso processi, scambi continui, aggiustamenti di relazioni, perturbazioni di stati, ritrovamento dell’equilibrio. Se questo è un fatto, allora, esperienze intersoggettive e dinamiche quali l’empatia possono essere spiegate – in primo luogo – in una prospettiva sistemica[24]. E, precisamente, come proprietà sui generis, non riconducibili né al primo, né al secondo sistema, né a me né a te. Sono al di sopra degli enti dalla cui interazione si originano, dai quali tuttavia dipendono. Che vantaggio dà pensare l’empatia in questo modo? Beh, anzitutto leva dall’impaccio di essere-con-l’altro senza poterlo davvero incontrare; solleva dal paradosso portato a tema dalla fenomenologa Edith Stein, che nell’empatia aveva colto prioritariamente uno “spazio” intersoggettivo di allargamento del sentire, da me ad un altro. Una proprietà sistemica dà un senso anche alla “piena comprensione” enunciata dai neuroscienziati, un livello di apprensione delle emozioni altrui al di là del “semplice” (anche se straordinario) avvertire le emozioni dell’altro fino al punto da farle proprie, mediante i neuroni mirror.
L’approccio sistemico consente anche una spiegazione più efficace del perché spesso l’empatia funzioni ad intermittenza, perché dall’innamoramento si passi a situazioni di raffreddamento di una relazione o alla rottura, perché ci sentiamo vicinissimi a qualcuno che soffre in un determinato momento e poi non siamo più capaci di quello stesso abbraccio comprensivo, in senso reale o metaforico. Eccoci giunti al caso del naufragio empatico, della immedesimazione e della compartecipazione a “intermittenza”.
Perturbazioni sistemiche del co-determinarsi empatico
Alla luce del pensiero sistemico, ossiamo ulteriormente chiarire il profilo identitario dell’empatia, attraverso una sola espressione nella quale si riassumono tutti i tratti portati a tema in precedenza.
Precisamente, possiamo affermare che i due soggetti protagonisti dell’interazione si co-determinano, ovvero si influenzano a vicenda, imprimendo l’uno – nell’altro – qualcosa di sé. In pratica colui che è fatto oggetto di osservazione subisce l’influenza di chi osserva, mettendo in atto risposte comportamentali, cognitive, persino cambi di stato, come la fisica quantistica prova sul piano sperimentale. La possibilità concreta che l’osservatore influenzi l’osservato introduce, perciò, quell’idea di causalità per così dire allargata, multidirezionale, implicata a doppio filo con il contesto ambientale, di cui il pensiero sistemico si avvale per leggere la realtà.
Un fenomeno delle relazioni interpersonali qual è l’empatia – che nella prospettiva delle neuroscienze è inteso come l’esito di una connessione tra mente, corpo, contesto[25] – si dà a vedere, in prospettiva sistemica, come proprietà di secondo livello esito anche della co-determinazione di osservatore e osservato, principali attori nella diegesi del processo emotivo. Contesti in cui i processi di cambiamento sono accelerati e per molti versi imprevedibili e impredittibili.
Provare empatia, dunque, in una prospettiva sistemica (dove l’esperienza emotiva/cognitiva è una proprietà derivante dall’interazione tra menti, corpi dei soggetti in relazione e dell’ambiente) non è immedesimarsi nell’altro, né incorporarsi entro la sua identità, ma neppure soltanto abitare uno spazio comune. Empatia sta piuttosto a indicare una sintonia emotiva e operativa. Penso che l’abbraccio sia un atto ancora tutto da esplorare, alla luce del sentire empatico: quando vediamo qualcuno soffrire o gioire siamo portati ad avvicinarci superando i nostri confini, per portare l’altro con noi e noi all’altro. Questo è possibile in quanto – anche noi avvertiamo il suo dolore e/o la sua gioia – e tuttavia, non nella modalità originaria esperita da quello. Non abbiamo bisogno di vivere il lutto per sentirci vicino a qualcuno che sta affrontando, nel dolore, quell’esperienza.
Questo co-determinarsi non è affatto un’esperienza limitata all’empatia, se pensiamo a quante circostanze ci fanno avvicinare ad altri. È un fatto, in altri termini, che l’osservatore interagisca con l’osservato. A teatro si verifica uno scambio continuo tra attore/esecutore e pubblico in platea. In certo senso lo spettatore è co-agente della performance. Pensiamo a quanto conti il fattore “tifoseria” in una partita, al punto che un’ottima squadra possa venire battuta dall’avversario, magari con profilo atletico minore, ma sostenuto dalla vibrante partecipazione dei suoi supporter.
Nella scoperta dei neuroni specchio è stato proprio l’aver notato che il primate dell’esperimento replicava dei comportamenti del ricercatore ad aver suggerito di valutare quali parti del cervello si attivassero in quella precisa circostanza. Perché vi sia co-determinazione è però necessario un fatto: i due soggetti debbono vedersi, sentirsi, avvertire la presenza e l’interazione con l’ambiente. Vale la pena ricordare, a questo proposito, un fatto – meno noto – collegato alla liberazione dei prigionieri di Auschwitz e dei campi di sterminio. I vertici militari americani imposero alla popolazione civile di quelle zone di visitare i lager, con le migliaia di morti ammassati e con i crematori ancora fumanti, perché avessero coscienza di quanto era avvenuto, nella più completa indifferenza, a poca distanza dalle loro case.
Si poteva semplicemente documentare con filmati e fotografie, come per altro si fece. Certo, ma non sarebbe stata la stessa cosa: la visione dell’altro – la vittima – consegnata in tutta la sua abusata fragilità, nell’ambiente in cui era avvenuta tale riduzione a oggetto, non serviva prioritariamente a enunciare una verità di fatto, ma a fare posto, per sempre, a quelle vittime nei cuori di chi, potendo, non aveva saputo o voluto liberarle dai campi di sterminio.
L’empatia è dunque fenomeno potente e insieme fragilissimo nel dominio delle relazioni interpersonali, perché conduce all’altro nel modo del co-determinarsi, doloroso o gioioso. E, tuttavia, richiede che l’altro si dia a vedere, perché possa attivarsi. Torniamo all’intermittenza empatica in rapporto ai migranti vittime di naufragi. Quando all’emergenza umanitaria si frappongono schemi ideologici, in un pur legittimo confronto politico, è evidente che l’altro, con il suo corpo, la sua mente, l’ambiente nel quale si trova, evapori. Si vengono così a creare due diversi fronti empatici: quello dei soccorritori, la cui visione prioritaria è rivolta alle vittime e quello degli astanti, degli spettatori del dibattito politico/propagandistico, polarizzati in via prioritaria da rivendicazioni il cui effetto è di annullare l’immagine di chi patisce. Siamo dunque davvero distanti da quell’ottobre 2013 quando la vista e l’udito (i lamenti dei naufraghi, le loro storie evocate in prima persona) degli osservatori potevano interagire in modo diretto con le vittime, senza i paraocchi ideologici. Naturalmente non c’è mai nulla di neutro nel modo in cui viene proposta un’immagine o si fa una ripresa televisiva, ma quanto meno il focus in quella circostanza era diretto alle vittime.
Etty Hillesum, l’intellettuale olandese morta ad Auschwitz nel 1943, dopo aver trascorso un anno e mezzo nel campo di smistamento di Westerbork, come internata volontaria, per darsi completamente al servizio dei deportati, ha lasciato una risposta molto interessante su “come” si perda di vista l’altro. Nel suo Diario[26] ha indicato nel “sistema” la modalità prioritaria di questo scollamento: in pratica tutti gli schermi che si frappongono tra soggetti umani hanno il potere di congelare l’empatia. In pratica l’altro si può anche vedere in senso reale, ma non lo si coglie per quello che è, vale a dire, un essere umano. In pratica, ciò si esprime nel mettere delle etichette o far uso di stereotipi. Hillesum lo notava potentemente riguardo agli ebrei, da parte dei nazisti; tuttavia, nella sua onestà intellettuale, non poteva non preoccuparsi anche dell’opposto, ovvero del fatto che si odiassero i tedeschi in quanto espressione di un popolo subordinato al regime nazional socialista[27]. La stessa tendenza a nascondere l’altro dietro la maschera dei pregiudizi, stavolta collegati a visioni religiose non sovrapponibili alla propria, si rinviene nelle dinamiche relazionali operanti nello Stato Islamico quale entità pseudo statale (2014-2017), tristemente nota per le crudeltà perpetrate ai danni di civili e di tanti innocenti[28].
Nella tortura, nelle esecuzioni, nelle stragi terroristiche l’individuo fatto bersaglio dell’azione malvagia non è più sentito tale, perché al posto dell’essere umano è collocato uno schema, una sorta di schermo o elemento distanziante. Questo fattore ci fa capire come non sia possibile avvertire né la sofferenza dei feriti, delle loro famiglie, della società colpita dalle stragi, né si avverta il grido di dolore della persona torturata. Al suo posto il torturatore, il terrorista in azione, la ragazzina convertitasi al jihadismo mettono in atto una logica, cioè un atteggiamento mentale che rinforza la freddezza verso le vittime incasellate in uno schema, rendendo perfettamente la deriva del male.
Se, come sostiene Laura Boella, si incontra il dolore «direttamente nel luogo in cui è al suo posto», vale a dire «presso l’altro», quando questa sensibilità viene meno, non soltanto si è esaurita la capacità di empatia («acquisizione emotiva del sentire altrui») ma viene erosa l’identità del soggetto arido («si rende così evidente che esiste altro e si rende evidente a me stessa che anch’io sono altro»).[29] Come rileva Boella – «l’incapacità di sentire l’altro è sempre alla ribalta dell’epoca contemporanea».[30]
Tra le ricerche relative alle risposte comportamentali dei gruppi, nel fenomeno della disumanizzazione, Gail B. Murrow e Richard Murrow hanno ipotizzato un calo di empatia positiva del gruppo A nei confronti del gruppo B, sulla base di ragioni largamente non consapevoli[31]. Questo è dovuto a vari fattori, tra i quali i discorsi improntati all’odio (hate-speech), tipici dei fenomeni di genocidio su base etnica o religiosa, veicolati dalla propaganda, cioè da un sapere che “pensa” per coloro a cui viene trasmesso, in forma martellante, attraverso un sistematico annebbiamento e/o rovesciamento dello stato di fatto.
Se a questo punto ritorniamo alla situazione dei naufragi nel Mediterraneo, non possiamo non leggere il calo dell’empatia registrata dalle cronache come l’esito di una comunicazione propagandistica volta a frapporre, tra i disperati in fuga da situazioni limite di sopravvivenza (guerre, carestie, miseria), lo schema del “nemico” impegnato in un’ “invasione” intenzionale. Sul piano sistemico questa perturbazione assesta un colpo importante al fenomeno empatico, attraverso l’ambiente entro cui mente e corpo dei soggetti possono interagire. Cosa insegna tutto questo, così succintamente enunciato? Conferma la precarietà, e insieme la grandezza dell’empatia, chiamando in causa tutti noi, senza distinzioni, ad atti di responsabilità nell’alveo dell’impegno civile. Che si esprimono, anzitutto, nel restituire al dolore dell’altro piena visibilità, smascherando ogni tentativo di semplificazione schematica. La dimensione on/off dell’empatia dimostra anche il fatto che non è un’esperienza primaria: il dolore è sempre il nostro dolore; il dolore altrui è “nostro” soltanto nella misura in cui l’altra persona abiti in qualche modo lo spazio vitale che ci appartiene. Sul piano civile, queste considerazioni molto limitate dovrebbero indurci a riflettere riguardo al fatto che – nonostante le molte lezioni della Storia – le relazioni intersoggettive non possono mai considerarsi scontate.
[1] Bambino di circa 3 anni, vittima del capovolgimento di un barcone che, partito da Bodrum, in Turchia, cercava di raggiungere l’isola di Kos, in Grecia, il 2 settembre 2015.
[2] Iniziativa assunta dal presidente americano Donald Trump per contrastare l’immigrazione clandestina. Il caso è scoppiato nel giugno 2018 quando venne postato su Youtube un video, dell’organizzazione no profit ProPublica, in cui si udivano i piani dei minori, separati dai genitori, alla frontiera tra Usa e Mexico.
[3] La perdita dell’empatia, in un’originale prospettiva di genere, è analizzata dalla dottoressa Chiara Panzeri in “La violenza di genere subita dagli uomini: analisi critica della letteratura sugli aspetti psicodinamici e psicologici”, laurea triennale della Facoltà di Psicologia, Università eCampus di Novedrate, 2019. Proprio il recupero del sentire interpersonale è l’obiettivo dei trattamenti per il recupero sociale dello/della stalker in alcune esperienze europee. «L’empatia con la vittima – rileva Panzeri – è l’obiettivo finale di questa laboriosa, ma indispensabile, autoanalisi con il supporto di specialisti».
[4] Dal 18 ottobre 2013 al 31 ottobre 2014, a cura della Marina e dell’Aeronautica militare italiana.
[5] Mi riferisco a due casi clamorosi: quello della nave Diciotti della Marina Militare italiana rimasta per giorni in attesa di entrare in porto (agosto 2018) e a quello della Sea Watch, che dopo 2 settimane di navigazione (giugno 2019) senza possibilità di attracco è entrata nel porto di Lampedusa per decisione della capitana, in seguito alla situazione emergenziale vissuta dai 42 naufraghi a bordo.
[6] E. Husserl, Ricerche logiche, Milano, Guerini e Associati, 1988.
[7] Edith Stein, L’empatia, Milano, Franco Angeli, 1992 e E. Stein, Il problema dell’empatia, Roma, Studium, 2012.
[8] E. Stein, Storia di una famiglia ebrea, Roma, Città Nuova, 1999.
[9] Adolf Reinach (1883-1917) morì durante la Grande Guerra. L’incontro con la giovane vedova del docente, la sua serenità nonostante il peso del lutto, furono esperienze decisive per vivere la conversione alla fede cattolica.
[10] “Il problema dell’empatia. Il contributo della fenomenologa Edith Stein”, in www.edithstein.name
[11] Filosofo e padre della psicologia tedesca (1851-1914), autore di “Zur Einfühlung”, in Psychologische Untersuchungen, Leipzig, Engelmann, 1913.
[12] Ibidem, pag. 191.
[13] R. De Monticelli, La conoscenza personale, op. cit. pag. 160.
[14] L. Boella, A. Buttarelli, Per amore di altro. L’empatia a partire da Edith Stein, Milano, Raffaello Cortina, 2000.
[15] M. Moretti, Orientamento vocazionale, tesi del Master biennale di II livello in Consulenza Filosofica di Trasformazione (2014-2016), Università degli Studi di Verona.
[16] E. Stein, Il problema dell’empatia, op. cit., pag. 70.
[17] Ibidem, pag. 33.
[18] Ibidem, pag. 71.
[19]«L’esperienza vissuta del contenuto “gioia” – scrive la filosofa – è condizionata quindi da due lati: da parte dell’oggetto e da parte dell’Io, L’oggetto, in questo caso il contenuto della notizia, non appartiene, come parte, alla gioia in quanto contenuto di esperienza vissuta, ma vi appartiene il dirigersi verso tale oggetto (l’intenzione, nel linguaggio fenomenologico); la proprietà di essere gioia per questo oggetto, appartiene alla sua consistenza e, in senso intenzionale, ossia come qualcosa che è da essa (gioia) ‘inteso’, le appartiene anche l’oggetto». (Edith Stein, Essere finito e Essere eterno. Per una elevazione al senso dell’essere, Roma, Città Nuova, 1999, pag. 83-84).
[20] G. Rizzolatti, C. Sinigaglia, Specchi nel cervello. Come comprendiamo gli altri dall’interno, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2019, pag. xiv.
[21] Ibidem, pag, 23 e xvi.
[22] Ibidem, pag. 223.
[23] Un esempio: la comprensione basilare di una persona che, a tavola, afferra un pezzo di pane può esprimersi nella risposta: «Lo prende per mangiarlo». La piena comprensione: «Ha fame perché è da ore che non mangia».
[24] Per la storia recente della ricerca sistemica in Italia, rinviamo a L. Urbani Ulivi, Lavori sistemici. Risultati e prospettive”, in Rivista di Filosofia Neo-Scolastica, 2 (2017), pp. 297-309. Le maggiori risultanze degli studi condotti nel nostro Paese sono offerti da L. Urbani Ulivi (ed.) The Systemic Turn in Human and Natural Sciences. A Rock in The Pond, Springer, New York-Switzerland, 2019.
[25] E. Thompson, F. J. Varela, “Radical Embodiment: Neural Dynamics and Consciousness”, in Trends in Cognitive Science, Vol. 5, No. 10, October 2001, pp. 418-425.
[26] E. Hillesum, Diario 1941-1943, Milano, Adelphi, 1985, 13 marzo 1942.
[27] Mi permetto di rinviare il lettore al mio saggio, in cui affronto ampiamente questo tema, qui soltanto accennato: P. Fisogni, La profondità del bene. La metafisica della vita buona nei tempi bui, Città di LuoghInteriori, 2019.
[28] Anche per queste riflessioni, rimando alla mia ricerca Cartoline dall’inferno. Fenomenologia del male nello Stato Islamico, Lucca, Tralerighe Libri, 2017.
[29] L. Boella, Sentire l’altro. Conoscere e praticare l’empatia, Milano, Raffaello Cortina, 2006, pag. 21.
[30] Ibidem, pag. XXI.
[31] G. B. Murrow e R. Murrow, “A Hypothetical Neurological Association Between Dehumanization and Human Rights Abuses”, Journal of Law and the Biosciences, 2 (2), Jul., 2015, pag. 336-364.
Bibliografia
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Fisogni, La profondità del bene. La metafisica della vita buona nei tempi bui, Città di LuoghInteriori, 2019.
– Cartoline dall’inferno. Fenomenologia del male nello Stato Islamico, Lucca, Tralerighe Libri, 2017.
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– Storia di una famiglia ebrea, Roma, Città Nuova, 1999.
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