di Francesca Rifiuti
L’America è un luogo lontano dalla nostra quotidianità, affascina e incuriosisce, a volte spaventa perché ci mette di fronte a realtà altre, a qualcosa che appare troppo grande per essere conosciuto fino in fondo. Da secoli ormai, nel tentativo di ridurre le distanze, riempiamo l’Oceano che ci separa con miti, idee, desideri, luoghi comuni. Forse gli Stati Uniti, ma anche l’America in generale, sono il luogo su cui si è costruito il nostro immaginario più potente. Così simili e così diversi da noi, gli americani sono un popolo la cui complessità va ben oltre le credenze e le rappresentazioni.
– Cosa significa per lei, oggi, essere americani?
– Gli americani sono un popolo particolare. Per noi sono gli Altri ma, a guardar bene, gli Stati Uniti sono una nazione composta solo da Altri. 5-6 secoli fa, prima che arrivassero gli europei, c’era una civiltà che è stata sterminata dai conquistatori, ai nativi di America è stata tolta anche la dignità di un nome vero. Da questi eventi è nata una nuova civiltà, una società fondata, nei suoi principi e nelle sue leggi, sull’accoglienza. Chiunque voleva essere americano poteva diventarlo, a patto che si riconoscesse in certi valori.
Oggi, a parte i nativi, gli americani hanno una cosa in comune: sono tutti eredi di immigrati, di persone che sono arrivate dalla Spagna, dall’Italia, dall’Olanda, dalla Germania, dalla tratta degli schiavi d’Africa. Tutte persone che hanno nelle loro generazioni precedenti, spesso non così lontano nel tempo essendo un paese molto giovane, qualcuno che veniva da fuori.
Chi sono gli americani? Sono prima di tutto persone o eredi di persone che vengono da altre parti, sono un popolo che si fonda sull’eterogeneità, è molto difficile incasellare l’America in certe definizioni.
Su questo pesa anche il criterio geografico: gli Stati Uniti sono 33 volte più grandi dell’Italia, più grandi anche della Cina in termini di superficie. Sono tante cose diverse, tutte insieme. New York ha più abitanti di 40 dei 50 stati americani. La California soltanto ha 40 milioni di abitanti. L’America è la California, è New York, è il profondo sud con le zone dei cow-boy…Tutto è America e su questo si è fondata la sua ricchezza e la sua identità. Negli ultimi 20-30 anni se ne è forse smarrito il valore e hanno iniziato a prendere forma fenomeni nativisti e identitari in senso esclusivo.
– Quali sono le differenze principali tra la nostra America, come noi ce la rappresentiamo, e quella reale? Cosa dovremmo sapere che non sappiamo?
– Ci sono alcuni attributi che associamo agli americani ma che valgono solo per alcuni di loro. Per esempio, pensiamo al loro rapporto con le armi: un terzo della popolazione possiede armi, sicuramente non è poco ma è una minoranza. La maggior parte degli americani non ha un’arma in casa. Anche sul piano del razzismo bisogna riflettere sui luoghi comuni: sappiamo che il razzismo è una realtà quotidiana per tantissime persone, siamo abituati a pensare agli Stati Uniti come a un paese più razzista del nostro. In realtà il razzismo è onnipresente nella società americana a causa della sua eterogeneità sul piano etnico: non si può fare a meno di toccare continuamente questo tipo di discussioni, che in Italia facciamo poco, non perché non siamo razzisti ma perché siamo in maggioranza bianchi e viviamo quella piccolissima contaminazione proveniente dal Nordafrica addirittura come un’invasione. Anche se tendiamo a vedere gli americani come più arretrati sulla questione del razzismo, la realtà è che la discussione pubblica sul tema è molto più avanzata rispetto alla nostra.
C’è inoltre da fare una riflessione su certe etichette che noi attribuiamo agli americani: immaginiamo che ci sia un’economia dinamica, meritocratica, dove è facile realizzare le proprie idee, il famoso “sogno americano”. Ci sfuggono però le ricadute concrete di queste attribuzioni, prima di tutto in termini dell’effettiva possibilità di realizzare i propri sogni. Inoltre poco si conosce di quanto sia spietato e feroce il sistema con chi non ce la fa, con chi inciampa. Per esempio negli Stati Uniti è molto facile perdere la casa e trovarsi in grosse difficoltà socio-economiche: è una società che spesso non ha reti di protezione.
– Negli ultimi anni il modello di democrazia statunitense ha incontrato alcune difficoltà. Il clima politico è stato caotico, nel 2016 dopo il primo presidente nero abbiamo assistito all’elezione di Donald Trump. A livello socio-politico, come siamo arrivati al trumpismo, culminato forse a Gennaio con l’attacco al Campidoglio?
– Credo che Trump e il trumpismo non siano una causa degli eventi accaduti in America, ma una conseguenza. Forse non parlerei neanche di trumpismo. Negli ultimi 20-30 anni gli americani si sono radicalizzati moltissimo, le loro idee si sono fatte via via sempre più estreme per ragioni che sono anche in larga parte indipendenti dalla politica e riguardano più la sfera economica, il modo in cui si sono distribuite geograficamente le opportunità economiche e la prosperità. Questa radicalizzazione ha a che fare anche con la sfera demografica: gli Stati Uniti sono un paese che ogni giorno diventa sempre meno bianco; i bianchi perdono ogni giorno quel potere, quel privilegio, quella rilevanza incontrastata che hanno detenuto per secoli. Questa perdita di potere comporta tensioni e conflitti, risentimento, reazioni anche dure e violente con lo scopo di rivendicare qualcosa di posseduto in passato (il motto di Trump non a caso era “Make America great again”). Ci sono ragioni che hanno a che fare con la cultura, con il ruolo dei media, con la vasta penetrazione dei social media e con il loro modo di premiare l’aggressività, di dar voce a chi urla più forte, a chi la fa più semplice. Tutte insieme queste cose hanno radicalizzato gli americani, soprattutto la destra, che aveva già iniziato questa trasformazione durante l’amministrazione Obama.
Trump è stato semplicemente quello che meglio degli altri ha saputo scuotere l’albero e raccogliere i frutti. Ma gli avversari di Trump alle Primarie repubblicane del 2016 erano estremisti come lui e oggi che Trump è fuori dalla scena, il partito repubblicano è rimasto un partito di estrema destra.
Si è arrivati al trumpismo perché questo è un paese in cui a un certo punto sono emersi dei problemi e la politica non è stata in grado di risolverli, certe trasformazioni epocali in corso non sono state gestite in alcun modo. La regione del Midwest, che è stata per secoli una delle più ricche del paese, oggi è una delle più povere. Il sud, che prima viveva in povertà, oggi è una delle regioni più prospere del paese. Queste trasformazioni comportano disuguaglianze e conflitti che non sono stati gestiti e hanno generato rabbia, portando all’ascesa di Trump. Tutto questo avrà sicuramente anche altre conseguenze nel futuro.
– Veniamo all’attacco al Campidoglio del 6 gennaio 2021, quali ricadute e quali riflessioni ha generato?
– Si sono riprodotte le divisioni tribali precedenti. Nei giorni immediatamente successivi al 6 gennaio c’è stata una apparente presa di coscienza di come questa radicalizzazione, questo utilizzo di temi sempre più forti, l’estremizzazione che ha portato a mentire, addirittura a provare a ribaltare il risultato di un’elezione, fossero arrivati a un punto di non ritorno. Quel momento ha mostrato, in modo traumatico, quanto può essere pericoloso usare una retorica verbale violenta e bellicosa.
Nel giro di qualche settimana però le cose sono rapidamente tornate come prima. Anche chi aveva espresso dal partito repubblicano parole di condanna verso ciò che era accaduto, ha poi votato contro l’impeachment di Trump. Da poco hanno votato contro l’apertura di una commissione di indagine sui fatti del 6 gennaio. Insomma, tutti sono tornati rapidamente al “business as usual”.
Ma cose come l’attacco al Campidoglio non accadono dal nulla, se avvengono è perché c’è un contesto che le rende possibili. Il contesto è ancora tutto lì, non c’è stato alcun esame di coscienza da parte di chi ha innescato la violenza.
– A maggio 2020, in piena pandemia, veniva pubblicato il video della barbara uccisione di George Floyd. È stata quella la scintilla della protesta che, con il movimento Black Lives Matter, ha portato in strada un dramma che ha radici storiche antiche e profonde. Qual è la forza di questo movimento?
– La questione è interessante perché ovviamente Floyd non è stato il primo afro-americano ucciso dalla polizia, né il primo di cui abbiamo le immagini. Abbiamo visto altri video e non avevano innescato questa reazione. Si è trattato di una tempesta perfetta. Il video era innanzitutto potentissimo, non lasciava spazio a equivoci. Molti altri video mostrano situazioni ambigue, il video di George Floyd mostra chiaramente una persona uccisa a sangue freddo. In quel momento, causa pandemia, eravamo tutti chiusi in casa, dipendenti dallo smartphone, nostra unica finestra sul mondo, frustrati, spaventati, arrabbiati, preoccupati per quanto stavamo vivendo. C’era un presidente considerato un suprematista bianco, che all’inizio delle proteste non ha cercato di calmare le acque, bensì ha incitato all’uso della violenza sui manifestanti. Tutto questo, con le elezioni alle porte, ha generato un incendio che non riguardava solo George Floyd ma tutte le discriminazioni sistematiche a danno degli afro-americani, l’insoddisfazione nei confronti di Trump, la rabbia e la paura causate dalla pandemia. Questa tempesta perfetta ha permesso al movimento BLM, che esisteva già da qualche anno, di mobilitare una gran quantità di persone, andando molto oltre i suoi stessi confini e le sue caratteristiche di movimento anti-capitalista. In strada sono scesi tanti bianchi come mai si era visto in altre lotte per i diritti civili; si sono mobilitati anche molti elettori del partito repubblicano. È un movimento che ha travalicato le categorie e questa è stata la sua forza fondamentale.
– Secondo lei, qual è, oggi, l’identikit del razzista americano?
– È difficile descrivere il razzista tipico americano, vengono in mente subito i fanatici, gli appartenenti alle milizie o al Ku Klux Klan. Ma il razzista tipo americano è di solito, sul piano demografico, un uomo bianco con livello di istruzione non elevato, che vive negli stati più bianchi d’America. I più razzisti sono quelli che paradossalmente, ma forse non è un caso, hanno meno persone non bianche intorno.
Vivendo in un posto dove le persone non bianche fanno parte della quotidianità è infatti più difficile essere razzisti, proprio perché si parla dei propri vicini, dei propri familiari, dei propri amici. Se si vive in una società quasi completamente bianca, forse è più facile credere a un’immagine caricaturale dei neri e dei non bianchi in genere. Chi vive negli stati del nord, e che sta affrontando una situazione problematica dal punto di vista socio-economico, tende inoltre a vedere nei non bianchi la causa della sofferenza e dei problemi.
Il fatto è che in molte contee che nel 2016 hanno contribuito alla vittoria di Trump, alle elezioni precedenti aveva vinto Obama. Molti maschi bianchi non laureati avevano votato per Obama. Questo non fa di loro degli antirazzisti ovviamente, ma è difficile votare Obama per due mandati se si è guidati da un autentico razzismo. Con questo cosa voglio dire? Per esempio che il movimento antirazzista, nelle sue frange più radicali, sta portando alla difesa estrema del politicamente corretto, all’introduzione quotidiana di sempre nuove regole di comportamento, di nuove cose che si devono e non si devono dire se si vuole essere antirazzisti e con le quali si fa anche fatica a stare al passo.
Ogni giorno aumenta l’intolleranza verso coloro che non rispettano queste stesse regole e un gran numero di persone si trovano a finire accusati di razzismo e discriminazione per motivi futili: magari perché non vogliono utilizzare la schwa (il simbolo ə utilizzata nelle desinenze delle parole al posto del maschile per definire un gruppo misto di persone, ndr) nella lingua scritta, oppure perché non vogliono dire “Latinx”, termine praticamente inutilizzato con cui il politicamente corretto ci chiederebbe di chiamare le persone latino-americane.
-Tra le tante tematiche emergenti negli Stati Uniti di oggi, non meno importante appare la questione della politica estera, tema dibattuto anche in seguito al G7. In questo campo quali sono le somiglianze e le differenze tra l’amministrazione di Trump e quella di Biden, soprattutto riguardo ai rapporti con la Cina?
– Ci sono delle differenze rispetto alla Cina ma non sono tantissime. Sarà questo un secolo segnato da una fortissima rivalità con la Cina. Non è questione di guerra fredda, non si rischiano conflitti armati, però gli Stati Uniti erano l’unica superpotenza al mondo e oggi non lo sono più. La Cina sta togliendo pezzi di mercato, di influenza e di rilevanza agli Stati Uniti sul piano internazionale e la risposta non può essere che una spinta a competere. Sull’individuazione della Cina come rivale da combattere non ci sono grandi differenze.
La differenza sta sicuramente nell’approccio alla questione: l’amministrazione Biden crede che per far questo servano grossi investimenti interni nell’innovazione e nello sviluppo tecnologico per tenere il passo. Crede inoltre nell’importanza di avere degli alleati, che Trump aveva invece maltrattato, a cominciare dall’Europa passando ai paesi dell’indo-pacifico che servono se l’obiettivo è quello di arginare la Cina, come l’India, la Thailandia, l’Australia, il Giappone, la Corea del Sud…tutti paesi con cui Trump ha complicato i rapporti, mentre Biden conosce la loro importanza strategica. L’altra differenza è nei toni: nella politica estera e nella diplomazia i toni vanno oltre le parole e influenzano molto i rapporti tra i paesi. Non sentiremo mai Biden riferirsi al Covid-19 chiamandolo “china-virus” o “kung-flu”. Sono parole offensive, lo scopo dell’America è quello di rivaleggiare con la Cina con pratiche commerciali anche molto assertive, ma non insultare la nazione e i suoi abitanti. Questa modalità non ha risolto problemi, semmai ne ha creati. Vedremo quindi un’America dai toni più civili, alla ricerca di alleati, con l’obiettivo di unirsi per togliere spazio alla Cina.
– Forse, per fare un parallelo con la pandemia, gli americani hanno bisogno di ritrovare nelle istituzioni gli anticorpi, a tutta una seria di problematiche più o meno emergenti, intesi come le potenzialità per affrontare i nemici interni, esterni, visibili e invisibili. Di che cosa c’è bisogno per ristabilire una fiducia verso le istituzioni?
– È importante che la politica negli Stati Uniti cominci a sciogliere dei nodi che sono già presenti e irrisolti da tempo: sto parlando del problema dei salari e delle disuguaglianze economiche, del sistema fiscale sbilanciato, della sanità e di quanto sia facile perdere la copertura sanitaria, ma anche del forte bisogno di riformare un sistema di immigrazione che ormai non funziona più da anni.
Poi c’è un’altra questione importante. I meccanismi della politica americana, quelli che dopo l’elezione traducono i voti in seggi e che guidano l’approvazione o meno di una legge, sono immutati da 240 anni. Il paese però è molto cambiato e, il sistema elettorale, oggi produce degli esiti davvero distorti, capita sempre più spesso che vinca le elezioni il candidato che ha ottenuto meno voti. Oggi in senato circa il 70% dei membri rappresenta il 30% degli americani e viceversa.
È un sistema che non produce più rappresentanza, uno dei motivi per cui non si riesce più a risolvere i problemi è questo . Il punto è che si va a votare e il risultato elettorale rispecchia poco la volontà delle persone, qualsiasi essa sia. Il sistema premia i partiti, li incentiva a restare immobili, a radicalizzarsi e a non fare compromessi su niente. Nessuna legge e nessuna riforma solitamente riesce a passare, perché siamo in una situazione di blocco. Servirebbe una vera riforma istituzionale, ma non ci sono i consensi e i voti per farlo, perché l’attuale classe politica si trova lì proprio grazie a questo sistema e non accetta l’idea che possa esserci un ricambio.
La politica deve essere messa in grado di funzionare e, oggi con questi meccanismi, quella americana non funziona più.