di Annibale Fanali
Cornici – Contesto
Quando il paziente (individuo o famiglia) si sente in gabbia e il testo è chiuso, la parola bloccata, la ripetizione incessante e il tempo è fermo, bisogna pensare ai confini ed alle cornici ed a come renderli permeabili per oltrepassarli.
La definizione di Simmel delle cornici è tuttora esaustiva. Possiamo estenderla ai confini, la cui funzione è analoga. In un passo della Soziologie dedicato alla delimitazione spaziale delle formazioni sociali, Georg Simmel ricorre alla seguente metafora:
“La cornice, il confine in sé concluso di una formazione, ha per il gruppo sociale un’importanza molto simile a quella che ha per un’opera d’arte. In questo caso essa esercita le due funzioni…di delimitare l’opera d’arte rispetto al mondo circostante e di chiuderla in sé stessa; la cornice proclama che al suo interno si trova un mondo soggetto soltanto a norme proprie…simboleggiando l’unità autosufficiente dell’opera d’arte, essa rafforza al tempo stesso la sua realtà e la sua impressione”[1]
La cornice racchiude un mondo. Costruisce e definisce pertanto un altro mondo, soggetto soltanto a norme proprie (De Biasi, 1995). Le norme sono la cultura di quel mondo, le sue regole, la forma della sua tradizione, la sua storia. Bateson parla per la prima volta di frame, cioè di cornice o inquadramento, quando in La pianificazione sociale e il concetto di deutero-apprendimento (Bateson, 1972) usa l’espressione “contextual frame of behaviour”[2]. Mentre in Una teoria del gioco e della fantasia le chiama semplicemente frames, cornici:
“La cornice attorno a un quadro, se la si considera come un messaggio inteso ad ordinare o organizzare la percezione dell’osservatore, dice “bada a ciò che all’interno e non badare a ciò che è all’esterno”. Figura e sfondo, così come questi termini sono usati dagli psicologi della Gestalt, non sono tra loro in relazione simmetrica come l’insieme e il suo complemento nella teoria degli insiemi: la percezione dello sfondo dev’essere positivamente inibita e la percezione della figura (in questo caso, del quadro) dev’essere positivamente esaltata… La cornice di un quadro dice all’osservatore che nell’interpretare il quadro egli non deve impiegare lo stesso tipo di ragionamento che potrebbe impiegare per interpretare la carta da parati esterni alla cornice”. (Bateson, 1972)
Rileva Zoletto che la cornice nasce fin dall’inizio collegata alla nozione di contesto, ai processi di contestualizzazione, ai problemi e ai paradossi della meta e transcontestualità (Zoletto, 2003). Come è ben noto il termine “contesto” è al centro della epistemologia batesoniana:
“f ’ è del tutto privo di senso se non come parte, diciamo, della parola ‘forse’; ma la parola ‘forse’ è affatto priva di senso se non come parte di una frase, per esempio: ‘forse è una saponetta’. E a sua volta la frase ‘forse è una saponetta’ è del tutto priva di senso…” (Bateson, 1991)
A Bateson però non basta la contestualizzazione, né il riferimento al livello metacontestuale, con la metacontestualità che assurge a un criterio di verità. Anche il contesto, se chiuso e senza aperture comunicative, assume le caratteristiche di una gabbia. Bateson aveva infatti l’orrore delle strutture stabili, che considerava come manifestazioni della reificazione, il processo nel quale la creatura si spegne e assume un carattere pleromatico[3]. E la forma può a sua volta acquisire, se cristallizzata e nella sua chiusa stabilità, il carattere del principio dormitivo.
Forma-Processo
Nella dialettica “forma-processo” (Bateson, 1979), una scala a zig zag che ben evidenzia l’approccio ricorsivo all’epistemologia, il processo è una descrizione che rinvia ai dati sensoriali, mentre la forma è l’analogo della tautologia, quindi la definizione di una descrizione, o meglio la formulazione di una categoria che deriva, in quanto classificazione, dai nostri sistemi simbolici. Fermarsi alla fase “forma”, uscendo dalla dialettica e dalla complementarietà ricorsiva, significa interrompere il flusso a zig zag dei processi, creando le premesse per la loro reificazione. In questa pausa evolutiva, la forma acquista una speciale compattezza, alla quale contribuiscono modelli scientifici, paradigmatici o con aspirazioni paradigmatiche. Chi agisce in quest’ottica ricorre, mediante lo strumento metaforico del bisturi epistemologico[4], alla demarcazione e alla bonifica del campo operativo, per depurarlo da influenze contaminanti. Sul piano estetico l’attenzione è sui bordi per renderli levigati e ben definiti. L’ideale della conoscenza, per il suo carattere stabile, per il suo equilibrio e la sua solidità, è, in questo ambito, il cristallo, chiaro, distinto, rigoroso. (Sérres, 1980)
Nella dialettica ordine-disordine è l’ordine a predominare. Anche in questo caso, l’interruzione del processo a zig zag ordine-disordine-organizzazione, vanifica l’opportunità di procedere verso una maggiore complessità del sistema riducendo le possibilità del cambiamento. Escludendo il fluttuante e il composito la forma si consolida, e il suo margine si allontana e si ispessisce. Ecco allora che il confine, non più luogo di scambio, diventa una barriera[5].
È lo stesso destino della parola, quando non incontrandosi con altre parole va incontro ad una deriva monologica: “Studiare la parola in sé stessa – dice Bachtin (1975) – trascurando il suo tendere fuori di sé, è insensato quanto studiare l’esperienza psichica interiore al di fuori della realtà verso la quale essa tende e dalla quale è determinata”. Rinunciando alla sua intrinseca e naturale dialogicità, la parola, nel recinto monologico, si attua come indubitabile, incontrovertibile, ed onnicomprensiva. Siamo in questo caso anche di fronte ad una parola senza anima, ad una parola saturata, ad una parola chiusa. Non dico inutile, dico chiusa.
Nella nostra visione[6] la parola ha una funzione determinante: una parola che suggerisce, insinua, non si cala dall’alto e con distacco. Non ha la pretesa razionalistica di una indubitabile, impersonale e apodittica evidenza, mira piuttosto all’incontro, alla condivisione che, in terapia, si produce al confine o nel confine, nella soglia mobile, attraversabile nei due sensi, sia in una direzione che nell’altra. Una parola che, in questo movimento, ha quindi la possibilità di evolvere, trasformarsi, non rinunciare alla novità, come invece avviene nel clichè dove è bloccata nello schema che ne prestabilisce la funzione. Così ne parla Bateson nel metalogo Dei giochi e della serietà (Bateson, 1972):
“è una parola francese, credo che in origine fosse un termine tipografico: Quando si stampa una frase, si devono prendere le lettere separatamente e metterle una per una in una specie di sbarra scanalata per comporre la frase. Ma per parole e frasi che la gente usa spesso, il tipografo tiene piccole sbarre di lettere già bell’e pronte. E queste frasi già fatte si chiamano cliché … Tutti noi abbiamo un bel po’ di frasi e di idee bell’e pronte, tutte ben sistemate in frasi: Ma se il tipografo vuole stampare qualcosa di nuovo, per esempio una cosa in lingua straniera, dovrà disfare tutte quelle vecchie disposizioni di lettere”.
Le idee belle e pronte, se ripetute incessantemente, spengono gli sviluppi narrativi, ritornano su sé stesse in una circolarità sterile che, come l’uroboro, il serpente che si mangia la coda, non riesce a trovare sbocchi. Sono isole di ordine, senza le complicazioni del disordine. Per questa semplice ragione, per riscrivere e dare un senso nuovo alle nostre storie bisogna rinunciare ai clichè, provando ad inventare. Rinnovando in questo modo gli script, i copioni, le premesse, ai quali siamo legati: “perché gli script siano sempre ugualmente utili… occorre trovare modi per rinnovarli quando è necessario” (Byng-Hall, 1995). Ma come rinnovare? Come evitare un “intra” bloccato, rigido e immobile?
Bateson vede nel processo, inteso come una rete mobile, sempre costruita e ricostruita delle varie storie, dei vari contesti e mai data del tutto e sempre a posteriori, l’espressione dei modelli di interazione che generano le differenze[7]. Ma sono proprio queste differenze che, a loro volta denominate o classificate, o comunque poste all’interno di una cornice metacomunicativa, creano il movimento ricorsivo a zig zag dello sviluppo evolutivo. Ne deriva che il processo per Bateson non ha senso senza la forma, e lo stesso accade per la forma rispetto al processo. Alternandosi in una successione gerarchica, sono, nella loro reciprocità, entrambi necessari, per una comprensione estetica della realtà. L’allargamento progressivo è a macchia d’olio e si manifesta con l’immagine dei cerchi concentrici quando si getta un sasso nello stagno.
Se questo è vero allora il problema non è quello di negare le cornici[8], ma è come rendere possibili gli incorniciamenti della nostra esperienza, senza lasciare che essi si blocchino in forme immutabili e definitive e in griglie impermeabili a ogni cambiamento[9].
“E’ del tutto ragionevole cercare di stabilire che cosa hanno in comune molti casi diversi… e poi cercarne altri che abbiano lo stesso fattore comune. Quello che non è molto intelligente è reificare quel tratto comune che hai tirato fuori dai dati” – dice Gregory alla figlia nel metalogo – La segretezza (Bateson G., Bateson M.C. 1987).
Chiudendo le cornici trasformiamo cose, persone e conversazioni in oggetti banali e prevedibili, riconducendo l’ignoto, cioè quello che non sappiamo vedere, al noto, alle categorie cioè proprie del paradigma in uso nella comunità scientifica in un determinato momento storico. Per questa ragione demarcazione e bonifica sono due parole chiave e conseguenti procedure dell’osservatore che opera secondo i criteri delle scienze cosiddette hard, ma non sono molto adatte a giocare un ruolo decisivo nei percorsi psicoterapeutici.
Oltre la forma
Quando si opera terapeuticamente è necessario riattivare una dialettica spenta e irrealizzata, perché la coerenza sia recuperata ad un livello di ricorsività superiore (Madonna 2015). Solo così si può dare luogo a un movimento trasformativo. Se il problema è rappresentato dal cristallizzarsi della forma attraverso categorie chiuse, non si può ad esse rispondere con altre categorie. Non si può cioè rimanere sullo stesso livello logico. È necessario introdurre nel sistema bloccato input-eventi che ci ricordino che con la nostra immaginazione creativa possiamo effettuare altre descrizioni ed alimentare nuove distinzioni delle stesse sequenze di eventi e nuove attribuzioni di significato.
C’è comunque sempre da superare il problema dell’adattamento passivo e l’attestazione della coerenza ad un più basso livello di complessità. Il mondo chiuso della “malattia”, come il mondo chiuso dell’istituzione, può infatti acquistare paradossalmente un senso positivo per il suo abitatore. Siamo nel campo dei processi di naturalizzazione[10]. La gabbia, come la tana per molti animali, diventa un rifugio protettivo e rassicurante contro le insidie del mondo, quando c’è la minaccia dello smarrimento, parola ambigua, ambivalente di cui tendiamo a ricordare solo ciò che di negativo porta con sé: il perdersi, che sempre si accompagna allo spavento e non di rado alla patologia ed è, proprio per questo, associato a bisogno di sicurezza, di equilibrio, di stabilità.
Quando questo avviene, quando il sentimento della minaccia incombente è pervasivo, il soggetto vive nell’’inquietudine e nell’incertezza, sente di non avere punti saldi e di stare su un terreno di confine oltre il quale c’è solo l’abisso. Ma anche la stabilità, come è noto, nasconde delle insidie e non è detto che rappresenti un valore assoluto. Quando è eccessiva, quando è caratterizzata dalla rigidità, quando appare come una “cornice immutabile”, può essa stessa diventare il problema e rappresentare un ostacolo. In questo caso è auspicabile che la stabilità si attenui, per aggirare la ripetizione (“la ricerca del sempre uguale”), l’immobilità e la stasi.
White (1992) parla di descrizione saturata dal problema, una storia dominante con le caratteristiche della totalità chiusa, che nega allo sguardo la possibilità di andare oltre i confini: nella totalità non c’è infinito (Lévinas, 1977). White non trasforma tout court le storie: egli opera identificando aspetti ritenuti negativi o comunque trascurati dell’esperienza, e li trasferisce in una nuova storia, in un nuovo racconto, che consente così una modalità alternativa di raccontare la stessa storia. White chiama “situazioni uniche”, questi utili dispositivi di resilienza, che non inventa ma recupera nella storia narrata dal paziente. Per essere efficaci hanno bisogno di uscire dalla “notte” della coscienza, quando il linguaggio è incagliato in significati solo negativi, per restituire al soggetto energia e slancio. In psicoterapia queste forme di “attraversamento” richiedono una elaborazione a partire dal significato polisemico delle parole e dalla loro ambivalenza.
Keeney (1991), sulla base del concetto di frame, propone una suggestiva metafora della terapia come qualcosa di simile all’esperienza che si ha nel visitare una mostra in un museo, dove “i quadri rappresentano griglie interpretative e le gallerie un ordine di quadri accomunabili e ascrivibili allo stesso dominio di senso. Spesso le terapie che rimangono ancorate a definizioni del problema troppo anguste non riescono mai ad entrare in un’autentica galleria terapeutica. Scopo di un buon intervento è quello di favorire la comparsa di aperture, di aprire delle porte che possono facilitare la transizione in gallerie capaci di ospitare processi di apprendimento” (citato in Tramonti e Fanali, 2013).
Sul piano filosofico, seguendo la complessità del pensiero di Jacques Derrida, liberare le parole di un testo dalla gabbia di un unico e cristallizzato significato, diventa una necessità psicoterapeutica, che si può attuare decostruendo attraverso il linguaggio. La decostruzione infatti agisce sulle parole generando morceaux, frammenti di testo, parole chiave, la cui ricombinazione si apre verso percorsi di senso alternativi. I morceaux, per esprimere la loro potenzialità semiotica, devono essere ritagliati e liberati dal contesto, cioè dalla gabbia, in cui sono stati imprigionati. In questo modo il testo, non più chiuso, viaggia verso nuove strade, acquistando un’apertura che libera il paziente da stringenti ed obbligate interpretazioni. Nella relazione, che secondo i criteri della cooperazione interpretativa vede il paziente partecipante attivo, si costruisce un testo che ha i caratteri di una storia meglio costruita, cioè meno dolorosa e più accettabile. Il riferimento è al concetto di “iterabilità” che consiste nella infinità possibilità di ri-citare e ri-contestualizzare. Prelevando un sintagma, ritagliandolo, dalla catena alla quale è legato, si crea, con la pericope, l’occasione per la sua trasformazione che a cascata si ripercuote nel nuovo contesto nel quale verrà a trovarsi (Derrida, 1972).
Un’altra utile indicazione (in questo caso è lo stesso Bateson a porgerla) è quello della “doppia descrizione”[11], che consiste nel combinare informazioni di genere diverso o provenienti da molteplici sorgenti. Il sovrappiù di informazione che si ottiene nel proporre descrizioni ulteriori è in termini di sguardo e di pensiero sistemico. In questi casi possiamo assistere ad uno sviluppo narrativo, co-costruito, che consente al paziente di uscire da una situazione di penosa impasse.
Si va così oltre i criteri di demarcazione e di bonifica della scienza hard, oltre il “feticismo epistemologico” (Iacono, 2016), quando il bisogno di mettere a fuoco, in modo nettamente distinto e chiaro l’oggetto, ci fa perdere il sapere che si alimenta ai bordi del campo di indagine, dove i confini sfumano e dove invece si possono aprire nuove opportunità, nuove aperture (strappi? crepe?) verso nuovi orizzonti di senso. L’invito è quindi quello di operare sul bordo, stare dentro e fuori dei confini, creare interferenze, operare attraversamenti: c’è in questi casi il prodursi di un sapere critico e trasformativo che si forma ai confini e che in psicoterapia può aprire spazi inconsueti ed imprevedibili.
In sostanza Bateson, come Derrida, “vuole evitare che, bloccando le cornici, trasformiamo cose, persone e conversazioni in oggetti prevedibili, cioè vuole evitare di pensare in modo metafisico” (Zoletto, 2003). O, ancora, riconoscendo l’importanza della segretezza come valore, cioè come espressione e garanzia dell’autonomia di ciascuno, vuole evitare l’eccesso di trasparenza, la perdita dell’opacità.
C’è infatti sempre un pensiero “positivo” da ricordare: il contesto non è mai assolutamente chiuso in sé stesso, non è mai del tutto centripeto. In esso, sostiene Derrida non diversamente da Bateson, “c’è gioco, differenza, apertura” e sul bordo della cornice si confondono “pericolosamente i limiti tra il dentro ed il fuori, in una parola, l’inquadratura del contesto” (Zoletto, 2003).
Transcontestualità
Per questa ragione il contesto è insaturabile, come insaturabile è la parola. E il linguaggio non serve solo per descrivere, ha anche una funzione performativa. Occorre allora imparare a stare sul terreno “scivoloso” del confine e cercare di abitare la distanza tra il nostro mondo e quello dell’altro, avvicinandosi ad esso il più possibile, in una forma di relazione che consenta comunque sempre un andirivieni.
Perché la cornice lavori senza bloccarsi è necessario creare interferenze, vibrazioni, punti di contatto, sovrapposizioni, risonanze e anche dissonanze, stando dentro e fuori dei confini, come prima abbiamo detto, cioè sul “terreno” delle interfacce, sull’orlatura parergonale (per usare l’espressione di Derrida), o sull’orlo del caos, oscillando tra un “dentro” della sicurezza e della stabilità ed un “fuori” dell’abissalità e della vertigine, alimentati dalla spinta che c’è sempre qualcosa che manca, un’insufficienza, un senso di incompletezza e, allo stesso tempo, un richiamo verso l’avventura.
Il mondo è così, ma potrebbe anche essere diverso. Solo nel mondo pleromatico, nel quale la relazione è soltanto descritta e spiegata per mezzo di proposizioni causali, “il processo cui dà luogo è necessariamente determinato e non sono pertanto concepibili alternative al suo decorso temporale… non avrebbe potuto essere altrimenti” (Giorgi, 2018).
Nel mondo della creatura, dove esiste la possibilità della scelta e dove è possibile inoltrarsi lungo percorsi, non già tracciati, della stringente e vincolante causalità lineare, diventa fondamentale la curiosità, sia per allontanarsi, per quanto è possibile dal mondo dei “principi dormitivi”, sia per esplorare ed inoltrarsi verso le aree chiaroscurali della transizione, nella penombra dove il sì e il no non sono più nettamente separati, dove il senso emerge nel “chiarore del bosco”, manifestandosi cioè nell’intrico del suo ricrearsi.[12] Ma questo è, bisogna ribadirlo, un movimento oscillatorio, che attraverso un andirivieni, consente di salvaguardare e nello stesso tempo mettere in tensione sia le ragioni del dentro sia le ragioni del fuori che, interagendo, alimentano proficue interferenze (Rovatti, 1998). Creando un’alternanza che in taluni momenti può apparire come un intreccio, una combinazione tra uno stringere ed un allentare, tra un concentrare ed un espandere. Fino al raggiungimento di soglie che possono portare il sistema verso un reale cambiamento di stato, lontano dall’equilibrio e vicino o a contatto della sua morfogenesi. In questo caso si produce quella “discontinuità transcontestuale”, che liberando il contesto dalla catena dell’adattamento passivo consente ai suoi abitatori di non più adagiarsi su ciò che c’è, ma di muoversi verso ciò che ancora non c’è. Cosa che può sembrare impossibile in alcune situazioni. Ma è proprio l’impossibile o la sua idea che può rendere possibile il possibile. Non a caso in Mente e natura nel suo andare di contesto in contesto Bateson parla di “piani di frattura” di “crepe” di “strappi” di quella “struttura permanente”, della gabbia cioè, nella quale siamo immersi e di cui non siamo mai del tutto consapevoli, attraverso i quali si produce, come esito finale, l’evento che, come momento culminante di un processo, è in fondo l’espressione di un susseguirsi di fluttuazioni che, rimanendo sotto soglia, non si stagliano all’orizzonte, fino al raggiungimento del punto critico.
Non si tratta di un processo dolce e semplice; non è detto però che debba manifestarsi in modo dirompente: può anche accadere, come ci ricorda Jullien (2010), che appaia all’orizzonte dopo una fase preparatoria, più o meno lunga, inapparente e silenziosa. Insomma, per il “pensare per storie” non basta l’occasionale ed episodica fuoriuscita dalla gabbia dell’indifferenziato, ma nella visione aperta e coevolutiva di Bateson è una pratica di pensiero, un continuo lasciar aperte le porte all’evento, facendo sempre in modo che l’illimitato, l’incondizionato e l’imprevedibile, qualcosa di simile al “rumore” o al disordine, a ciò che non è regolato, accadano e diano i loro effetti senza essere tematizzati preventivamente. Se lo fossero infatti, non sarebbero tali.
Ricapitolando potremmo dire che le dinamiche di confine e i doppi legami che ne derivano, nella loro paradossale ambivalenza, potrebbero aprire la “gabbia” dell’ontologia (entità) metafisica sempre incombente. Lo possono fare secondo un doppio livello espressivo: da un lato nei loro esiti più angosciosi, creando dolore, il blocco evolutivo e la chiusura; dall’altro aprendo, invece, gli spazi dell’ironia, dell’umorismo, della creatività: insomma, del cambiamento. A questo punto una domanda nasce spontanea: ma è sempre vera una distinzione così netta? È davvero possibile essere creativi senza che si crei un turbamento, un’increspatura? E la vita stessa non è la storia di queste pieghe, di come spiegarle, comprenderle, aggirarle? È possibile quindi pensare alla presenza di due istanze contraddittorie, quella della discontinuità, dello scarto e quella della contaminazione, della coimplicazione?
Bisogna, ritornando al concetto di cornice, pensare alla sua doppia funzione, di delimitare il quadro e di recingerlo con nettezza perché sia chiara la distinzione tra mondo e opera e tra opera e cornice; ma anche di pensarla come una parte del quadro che con la sua presenza, non potendo non comunicare, ci dice che c’è un “oltre” il quadro, oltre la “forma” del quadro, verso il “processo” cioè verso la “vita”. In questo movimento si possono creare nelle “parentesi” quei “pasticci” che, se rendono più difficile cogliere i confini, permettono, grazie agli attraversamenti, il crearsi di quelle situazioni di transcontestualità, che a loro volta smantellano e creano nuove cornici in un gioco paradossale tendenzialmente infinito. C’è da domandarsi se questo avviene in un territorio monoplanare o su più livelli, su piani molteplici. La multiplanarità spiega quel fenomeno, ben descritto nelle opere di Escher, del camminare dentro percorsi di un mondo, che nei punti di contatto con altri mondi, registrano un salto di livello, una linea di fuga, uno scivolamento, un attraversamento, una delocalizzazione. Quando questo avviene ti accorgi con sorpresa che ti stai allontanando dal tuo mondo e stai andando verso altri mondi che non coincidono più con il primo.
A questo punto è necessaria una ulteriore riflessione, forse anche una precisazione, intrisa di alcuni interrogativi, già presenti nelle pieghe della narrazione fin qui tracciata: il movimento verso il “fuori” della gabbia è solo centrifugo? È sempre un continuo, inquieto ed inarrestabile vagare? Se è così non c’è il rischio di un’erranza rizomatica infinita?[13] E cosa fare per evitare una deriva, sempre immanente di una reificazione che incombe pericolosamente? Non c’è bisogno di pause, di momenti di sosta per dare consistenza e sostanza a esigenze (indispensabili) di formalizzazione? Non c’è insomma bisogno di tener fermo il mondo, senza incorrere tuttavia nella sua reificazione? La risposta è nel credere alla virtù dell’ambivalenza, accettare i doppi legami e abitare i paradossi. Se l’erranza vive nell’esperienza policentrica della vita, deve trovare, per non diventare un’erranza anarchica, un ordine ed una comprensione condivisa negli indispensabili momenti riflessivi e metacomunicativi.
Bibliografia
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[1] Simmel G., Sociologia (1908), Milano, Comunità, 1989, p. 529, citato in De Biasi Rocco, 1995. “Cornici”, Aut Aut 269, settembre-ottobre, 1995.
[2] Il termine compare per la prima volta in un commento di Bateson all’articolo di Margaret Mead “The Comparative Study of Culture and the Purposive Coltivation of Democratic Value”, pubblicato come cap. IV di Science, Philosophy and Religion, 1942, ristampato in Bateson, 1972.
[3] Pleroma e creatura sono due termini che Bateson riprende da Jung. Cito direttamente da “Mente e natura” per chiarire il loro senso: “Egli (Jung) osserva che vi sono due mondi. Noi potremmo chiamarli due mondi esplicativi, lui invece li battezza il “pleroma” e la “creatura”, che sono termini gnostici. Il pleroma è il mondo in cui gli eventi sono causati da forze e urti e nel quale non vi sono ‘distinzioni’, o, come direi io, ‘differenze’. Nella creatura, gli effetti sono provocati proprio dalla differenza.”
[4] Analogo al “Rasoio di Occam”, che prende il nome da William of Ockham, filosofo inglese del XIV secolo. L’immagine del rasoio deriva dall’idea di tagliar via da una teoria tutte le ipotesi non necessarie. Bateson ne parla in Mente e natura, come “regola della parsimonia”, cioè la preferenza per le più semplici tra le ipotesi che si conformano ai fatti.
[5] Come avviene in molti disturbi mentali gravi, o in famiglie caratterizzate dalla rigidità della loro struttura. Ma prima di essere un problema per lo psichiatra o per lo psicoterapeuta, è un problema epistemologico più generale, quando impedisce allo sguardo di andare oltre i propri confini. In questo caso il mondo si configura come una monade isolata, senza aperture, ed acquista un carattere metafisico ed immobile.
[6] Il riferimento è all’”approccio consenziente”. Vedi Bogliolo Corrado (2018) Tramonti, Fanali (2013)
[7] “Nelle descrizioni di Bateson, fondate sulla teoria dei Tipi, il processo può essere considerato generativo perché continuo e dunque “vivo”; la forma invece non può essere considerata generativa perché è discontinua, discreta e finisce anche per essere implicitamente considerata – in quanto di livello superiore – separata dal flusso degli eventi e dunque sterile nella sua stabilità.” (Madonna, 2010, pag. 122)
[8] È lo stesso Bateson, in “Una teoria del gioco e della fantasia” a sostenerlo: “i processi mentali somigliano alla logica nell'”aver bisogno” di una cornice esterna per delimitare lo sfondo contro cui le figure devono essere percepite. Questo bisogno spesso non è soddisfatto, come capita per certe sculture nella vetrina di un robivecchi, ma ciò provoca un senso di disagio. Noi facciamo l’ipotesi che il bisogno di questo limite esterno per lo sfondo sia connesso a una certa inclinazione a evitare i paradossi dell’astrazione.” (Bateson, 1979).
[9] Il tema è affrontato da Derrida in “Firma evento e contesto” e ripreso in Limited Inc. A.b.c. Vedi su questo Iacono, 1994. Zoletto, 2003.
[10] È il processo, dice Iacono (2016) che ci fa accettare il mondo cosi com’è… nascondendo le connessioni”. Su questo argomento vedi anche Iacono (2000). Nella mia esperienza di psichiatra mi vengono in mente le difficoltà che hanno avuto molti pazienti ricoverati in manicomio ad uscire e ritornare nel proprio mondo, all’epoca dei percorsi di deistituzionalizzazione.
[11] Dice Bateson in Mente e natura a proposito della visione binoculare che essa viene prodotta come combinazione tra informazioni provenienti dalle due retine, quella dell’occhio destro e quella dell’occhio sinistro. La combinazione ci dà informazione sulla profondità. In termini più formali, la “differenza” tra l’informazione fornita da una retina e quella fornita dall’altra è una informazione di “tipo logico diverso”. Con questo nuovo genere di informazione l’osservatore aggiunge alla visione un’ulteriore “dimensione”. (Bateson,1979, trad. it.p. 99. Si pensi, ancora, a ciò che Bateson considerava lo strumento più prezioso della scienza: la combinazione fra diversi tipi di pensiero: pensiero “vago” e pensiero “rigoroso” (v. 1972, p. 110). Si pensi, infine, anche alla definizione batesoniana di “processo stocastico”, operata in termini di combinazione di due parti o processi di ordine inferiore (v. 1979, p. 303).
[12] Qui alludo al “metodo non metodo” di Maria Zambrano, variamente espresso nelle sue opere e alla sua metafora “viva” del “chiarore nel bosco”. In questo caso il richiamo è ai Chiari del bosco, Milano, Bruno Mondadori, 2004.
[13] Per il concetto di “rizoma”, vedi Deleuze e Guattari, 1977. Uno stelo sotterraneo che si distingue nettamente dalle radici. Il rizoma prefigura e delinea il modello dell’ipertesto, cioè di una costruzione nella quale ogni segno può introdurre a serie trasversali di concatenazione.