di Luigi Serrapica
Se non fosse un cliché ampiamente adoperato, si potrebbe sostenere che la vita di Paolo Poli – attore e regista di teatro scomparso nel 2016 all’età di 87 anni – sia paragonabile ad un film. Una pellicola anticonformista, colorata, divertente e anche colta. Il teatro della leggerezza di Mariapia Frigerio, docente di Lettere a Lucca, recentemente pubblicato dall’editore Marietti 1820, ci restituisce un Poli attore preciso e puntuale sul palco, il Poli cultore della letteratura e dell’arte nella vita quotidiana, amante della solitudine ma anche della presenza di amici di cui circondarsi in cene memorabili o in passeggiate per le vie di Roma. La Frigerio, che è stata amica di questo importante attore del teatro italiano del Novecento, ha raccolto i suoi libretti di sala, preziose testimonianze dei percorsi tutt’altro che banali dell’opera dell’artista. La raccolta è preceduta ida un’introduzione della stessa Frigerio che ripercorre, tra annotazioni storiche e memorie personali, tutti gli anni di carriera dell’attore.
– Partiamo dalla leggerezza, che è anche parte del titolo del suo volume. Cos’è stata la leggerezza per Poli?
– Mi sono particolarmente impegnata per questo titolo e sono contenta che, alla fine, l’editore l’abbia scelto. Parlando di Poli, non dobbiamo confondere la sua leggerezza con la superficialità: anzi, aveva il dono di poter parlare di argomenti seri e difficili con un suo tocco di grazia, in una maniera assolutamente gradevole.
– Chi ha avuto la fortuna di vederlo a teatro ha potuto vivere in prima persona questo tocco di grazia, Paolo però stupiva soprattutto per la sua cultura raffinata.
– Poli era un uomo colto e molto preparato. Amava il cinema e il teatro, ne era un conoscitore appassionato. Non amava l’erudizione, lo sfoggio di cultura fine a se stesso, ma la gente colta con cui poteva parlare di ciò che amava. Lui aveva un dono quello di usare un linguaggio anche basso senza dare fastidio, spaziando tra argomenti diversi senza trasformarli in noiosi. E, ovviamente, senza passare per un erudito. Devo dire che è stato un maestro, non solo per me: la sua cultura ha spinto a ricercare, a studiare, ad approfondire. La rendeva qualcosa di gioioso e, appunto, di leggero. La sua conoscenza non aveva nulla a che vedere con il sapere accademico o scolastico, la sua frequentazione stimolava a tentare di restare in sintonia con lui e la sua apertura al mondo.
– Dalla sua introduzione emerge chiaramente il ricordo di una persona sinceramente appassionata dell’arte e in modo particolare di Caravaggio. L’arte visiva costituiva un punto importante della magia scenica che lo vedeva protagonista sul palco.
– Le scenografie dei suoi spettacoli erano curate da Emanuele Luzzati, un grandissimo scenografo con cui Poli ha collaborato per anni e a cui l’attore è stato legato da una profonda e lunga amicizia. La ricchezza visiva dei suoi spettacoli era una precisa scelta di Poli. Lui e Luzzati si erano conosciuti a Genova, nel 1958, quando Poli iniziò a collaborare con il teatro d’avanguardia La borsa di Arlecchino. Qui conobbe anche Aldo Trionfo, regista e attore, che diresse il Teatro Stabile di Torino negli anni Settanta. Tra i tre ci fu una grande amicizia, una forte stima e una vera condivisione. È con loro che Poli debuttò con un testo di Beckett (Finale di partita) in cui inserì intermezzi di vecchie canzoni, cifra stilistica che ha caratterizzato successivamente la sua opera.
– In effetti, l’opera di Poli si associa volentieri con le canzonette, ma anche con un’altra caratteristica: Poli era un camaleonte e spesso recitava en travesti. Era lui a provare gusto per la provocazione o il pubblico amava lasciarsi provocare?
– Poli si divertiva a invertire i ruoli, nelle sue compagnie le donne interpretavano gli uomini e questi le donne. Giocava sulla sorpresa, questo sicuramente, ma non era mosso dal gusto di provocare ma – ripeto – dal voler divertire. Non releghiamolo al ruolo di attore che si traveste: la sua idea di rottura era un’idea personale di Poli soltanto, niente a che vedere con la congerie culturale degli anni Settanta, in cui tutti provocavano. Era un’epoca di donne a petto nudo, di impegno politico a tutti i costi, in cui andava molto portare in scena Brecht.
– Insomma, Poli è stato anticonformista anche per il suo modo di non conformarsi agli stili di un’epoca. Un altro aspetto importante della sua attività è stata la critica alla società.
– È così. Per esempio La vispa Teresa è stata l’occasione per una critica tagliente alla società dell’Ottocento, e anche di parte del Novecento, sul ruolo delle donne relegate ai compiti di madri e mogli. Questo spettacolo, degli anni ’70, fu davvero rivoluzionario rispetto agli altri in circolazione: La vispa Teresa portava una critica all’educazione femminile fatta con leggerezza, appunto, perché condita con canzonette orecchiabili e molteplici colori in scena. Ma la critica di Poli era anche fuori dalle scene: odiava gli stereotipi, non era un ‘femminista da piazza’ o un sostenitore del gay pride. Riteneva, invece, che le persone avessero il diritto di gestire il proprio corpo autonomamente, senza doverlo per forza mettere in mostra.
– A proposito di donne, la produzione di Poli vede molte protagoniste femminili.
– Il tema della condizione della donna viene trattato con leggerezza in Femminilità!!! del 1974: insieme al contraltare Uomo nero del 1971 ha disegnato la società del Ventennio fascista. Nella prima, il punto di vista è focalizzato sulla donna come angelo del focolare, mentre il secondo sull’uomo macho osannato dalla propaganda fascista. Si tratta comunque di opere uscite dopo il ‘68, ma non si configurano come manifesti femministi o antifascisti. Poli vedeva il fascismo che si nasconde in molte persone, sotto la loro camicia candida da benpensante. A proposito di donne, Carolina Invernizio (alla quale Poli dedicò l’omonimo spettacolo del 1969) fu una scrittrice di romanzi d’appendice. Guido Davico Bonino, dell’Università di Torino, ne scrisse elogiandola per i suoi romanzi, ma è stato Poli a riscoprirla . E poi c’è Rita da Cascia…
– ….Lo spettacolo censurato per vilipendio della religione…
– Esatto. Un’opera amata, per esempio, da Natalia Ginzburg e che tornò a essere rappresentata alla fine degli anni Settanta. La chiusura mentale dell’epoca, però, non portò a capire lo spettacolo che – in fondo – aveva un modo garbato e leggero nel toccare temi religiosi. Questi sono tutti esempi del modo di Poli di concepire il teatro come critica leggera e divertente che non intendeva dare lezioni ad alcuno. Parlava di politica, di arte, di religione, di letteratura, ma non annoiava: i suoi spettacoli erano spesso difficili da capire, ma la sua bravura gli permetteva di raggiungere tutti.
– Poi c’è la televisione. Vi è stato un periodo in Italia in cui i grandi del teatro erano di casa anche in tv.
– Erano altri tempi, era una televisione che ha dato una lingua comune al popolo dei mille dialetti. Era più raffinata – io personalmente adoro il bianco e nero – e c’erano i famosi sceneggiati con ottimi attori, la Tv dei ragazzi e il Carosello, in cui Poli appariva nella pubblicità del Campari. Poli fece Canzonissima con Sandra Mondaini, proponendo una divertentissima versione di Filiberto e Arabella. Lavorò con Marco Messeri e Milena Vukotic, raccontò le amate fiabe francesi e introdusse le fiabe al contrario, in cui il personaggio di Cappuccetto Rosso era cattivo e il Lupo – viceversa – era buono. In Babau presentò una carrellata di discussioni letterarie alle quali partecipò anche un giovane Umberto Eco. Era un programma intellettuale, ma divertente, fu bloccato dalla Rai nel 1970 e trasmesso solo cinque anni più tardi.
– In conclusione, cosa è stato Paolo Poli?
– Un attore e regista fedele a se stesso e al proprio modo di fare teatro. Ma non è mai stato uguale a se stesso. Sapeva essere originale e anticonformista e – per questa ragione – era fuori dalle mode. Poli toccava argomenti colti con la sua piacevolezza. Dire che era leggero non è un termine riduttivo, ma il motivo del suo successo.