EXAGERE RIVISTA - Maggio - Giugno 2024, n. 5-6 anno IX - ISSN 2531-7334

Per un approccio interculturale alla conoscenza del patrimonio esistente dei Paesi emergenti. Alcuni spunti di riflessione.

di Rossana Gabaglio

(le immagini richiamate nel testo sono in fondo all’articolo)

Il mondo contemporaneo, con tutte le sue contraddizioni (sociali, politiche, economiche, ambientali..), è il risultato del processo di globalizzazione che oggi, più che nei decenni passati, manifesta evidenti e numerosi limiti ma, al contempo, anche concrete potenzialità.

«Ciò che chiamiamo oggi globale è l’espansione di un modello di civiltà discriminatorio a danno di altre civiltà. […] Il globale è l’imposizione di un progetto, di un’idea e, soprattutto, la supposizione che il mondo sia, innanzitutto, uno spazio di mercati e non uno spazio umano di convivenza interculturale. In tal prospettiva la globalizzazione risulta molto riduttiva, perché riduce il mondo ad un deposito di prodotti. […] L’interculturalità come progetto politico si comprende come alternativa ad un mondo globalizzato, […] l’interculturalità scommette sulla via della profondità»[1].

È forse a partire da questo significato di interculturalità che possiamo considerare le potenzialità del patrimonio esistente: riconoscendone e confermandone il valore identitario, culturale, ma anche economico e sociale, le testimonianze fisiche di ogni cultura locale possono assumere un ruolo attivo, e non di semplice spettatore – o sempre più spesso di vittima indifesa -, nell’inevitabile processo di trasformazione del territorio e del paesaggio.

Cosa significa riconsiderare, oggi, il ruolo del patrimonio culturale dei Paesi emergenti[2]?

Forse è necessario, e urgente, impegnarsi in un dialogo effettivo: non possiamo più limitarci a registrare l’esistenza di una molteplicità di culture – e di testimonianze fisiche che ne sono espressione -, senza prevedere alcuna possibilità concreta di incontri e di scambi, di incroci e di contaminazioni; tantomeno possiamo pretendere di usare il nostro punto di vista come chiave interpretativa delle culture altre.

Quale può essere dunque la dimensione all’interno della quale è etico pensare ad un processo di conoscenza del patrimonio esistente, considerato non come pratica analitica fine a se stessa ma premessa, e al contempo conseguenza, della sua conservazione e valorizzazione?

 

Il processo di conoscenza: significato e obiettivi

La ‘Conoscenza’, intesa come processo analitico e, allo stesso tempo, pratica progettuale applicata al patrimonio a partire dalla sua autenticità e integrità, presuppone l’assunzione di ‘Responsabilità’, rientrando quindi, a tutti gli effetti, in un ambito di discussione etico.

La conoscenza è caratterizzata da tre differenti livelli di azione:

– riconoscimento dei segni, delle stratificazioni che si sedimentano sulla realtà esistente;

– ricerca di un equilibrio tra conservazione e trasformazione: la necessità di permanenza delle testimonianze fisiche e, al contempo, l’urgenza di trasformarle per renderle risorse per il futuro;

– attivazione di un processo di cura dei luo­ghi.

Provando ora a trasferire questi concetti al contesto dei Paesi emergenti il primo in­terrogativo riguarda proprio i problemi e i confini della Responsabilità della conservazio­ne nei confronti del costruito esistente: come è possibile conoscere la realtà esistente, migliorare la qualità urbana e le condizioni di vita e allo stes­so tempo conservare l’identità unica dei luoghi?

Che significato e carattere assume il processo di conoscenza? È etico conservare le tracce del passato? In che modo possono diventare occasione di trasformazione per il futuro?

L’attuazione del processo di conoscenza e cura del patrimonio esistente non può limitarsi all’applicazione di protocolli consolidati o all’investigazione di temi codificati; non può non tener conto della necessità di pro­muovere partecipazione sociale, sostenibilità ambientale ed economica, sviluppo delle culture locali e delle minoranze, pianificazione a medio e lungo termine dell’utilizzazio­ne delle risorse. Occorre scommettere sulla diversità, occorre dare nuovi significati al lavoro della memoria:

«Il lavoro della memoria non è la compulsione ripetitiva del passato, la sua riproposizione nevrotica. […] Anziché essere nevroticamente ripetitivo, il lavoro della memoria è ricostruttivo. Nel lavoro ricostruttivo della memoria vanno insieme la cura per il passato e l’accoglienza del nuovo: cura e riorganizzazione del passato per fare spazio al nuovo, curiosità nei confronti del nuovo per valorizzare il passato»[3].

«La conoscenza della conoscenza obbliga»: ci obbliga a tenere un atteggiamento di continua vigilanza contro la tentazione della certezza, e ci obbliga a riconoscere che le nostre certezze non sono prove di verità, «come se il mondo che ciascuno di noi vede fosse il mondo e non un mondo»[4].

L’eterno dualismo tra il soggetto e l’oggetto assume forme diverse a seconda del prevalere dell’uno o dell’altro portando, in ogni caso, alla semplificazione, anche nel processo conoscitivo, del fenomeno da indagare.

È necessario considerare questa pratica come un dialogo, come uno scambio che presuppone la disponibilità di un ‘contesto comune’ a chi parla e a chi ascolta: nes­suna chiave di lettura, nessun approccio disciplinare si fonda su princìpi intangibili ed irrevocabili ma su ipotesi che possono e devono essere discusse e confrontate. Eliminare, quindi, qualsiasi atteggiamento di diffidenza riferito agli altri saperi coinvolti, e di sopravvalutazione delle proprie certezze. Punti di vista differenti dal nostro e modalità di indagine provenienti da altre discipline ci aiutano a leggere ed interpretare le forme della contemporaneità, gli elementi contraddittori e complementari che sono il risultato di continui processi di trasformazione.

La ricerca di un linguaggio comune non significa, quindi, semplificazione o omologazione ma suggerisce la ricerca di ‘pacchetti di significati da condividere tra tutti’, pur mantenendo le specifiche differenti sfaccettature. Qual è il contesto comune per chi si occupa di patrimonio esistente? Ritengo sia la consapevolezza dell’equilibrio, tanto necessario quanto precario, tra la conservazione e la trasformazione, tra la permanenza e la mutazione della realtà, entrambe indispensabili e nessuna sufficiente. Oltre a questo concreto impegno verso l’interdisciplinarità è necessario favorire un confronto anche con la cultura del luogo che è l’espressione della comunità che lo vive e che trova, nella realtà urba­na, lo strumento attraverso il quale rappresentarsi e comunicare. Dunque interculturalità e interdisciplinarità come premesse necessarie per costruire un processo di conoscenza, allo stesso tempo principio e obiettivo, per la conservazione e la valorizzazione del patrimonio esistente.

 

Verso un dialogo interculturale

La multiculturalità è un dato essenziale della contemporaneità, ma si limita a organizzare una sorta di convivenza, che può essere più o meno pacifica e tollerante, all’interno di una cornice geografica.

Forse il concetto di interculturalità è quello che maggiormente ci permette di costruire un dialogo, rispettoso, responsabile e al contempo capace di costruire nuovi orizzonti culturali, in grado di valorizzare il patrimonio esistente: l’interculturalità, infatti, va oltre la tolleranza per imparare a condividere e a con-vivere. Tra multiculturalità e interculturalità, la differenza sostanziale sta nel fatto che quest’ultima promuove la qualità di un dialogo con l’altro, in cui avviene una trasformazione comune senza che, però, vengano meno le differenze; un dialogo partecipativo che mira alla costruzione comune di identità[5].

È utile a questo punto definire due aspetti chiave che chiariscono alcuni elementi del progetto di conoscenza: non è possibile ottenere uno sguardo neutrale e panoramico, che possa considerare le diverse proposte dal di fuori, perché il soggetto che conduce l’esame è sempre parte dell’oggetto indagato[6]; in secondo luogo, dato questo coinvolgimento inevitabile, qualunque proposta che pretenda di avere un valore universale risulta illegittima, perché confonde la propria visione, sempre limitata, con lo scenario complessivo delle relazioni interculturali.

Pasqualotto[7] parla di ’orizzonte’ aperto, come una linea immaginaria infinita che circoscrive uno spazio in cui possano venire accolte, senza discriminazioni, sia le ‘forme’ sia le ‘prospettive’ culturali particolari: questa metafora accoglie, nella sua più totale apertura, un dialogo fecondo basato sull’ascolto della realtà da indagare, un dialogo in cui i saperi, gli approcci disciplinari come anche gli iter ampiamenti sperimentati e codificati, vengono messi in discussione e, spesso, reinterpretati alla luce delle condizioni specifiche che, di volta in volta, si presentano e del dialogo che si instaura con la cultura locale.

Se il patrimonio culturale è considerato fattore di sviluppo sostenibile, risorsa per lo sviluppo personale e collettivo, valore da preservare e trasmettere alle generazioni future, occorre adottare un approccio multidimensionale per la sua valorizzazione, capace di “metterne in valore” le dimensioni etico, culturali, ecologiche, economiche, sociali e politiche, e di promuovere una partecipazione consapevole, della popolazione ma anche dei tecnici e degli operatori locali.

Nell’ottica ancora una volta della costruzione di un dialogo interculturale, può essere utile indicare le fasi imprescindibili del progetto-processo di conoscenza, non attraverso un semplice elenco asettico, ma cercando di definire ognuna di esse in maniera approfondita e sistematica, declinandole secondo le specificità del bene da indagare e del suo contesto (culturale, ambientale, tecnico-costruttivo…).

Nella logica di cooperazione e di condivisione dei saperi, può essere utile, inoltre individuare, per ognuna di esse, gli obiettivi (non solo teorici ma quelli effettivamente necessari e concreti), gli esperti che devono essere coinvolti e le tecniche di esecuzione.

A partire da queste premesse, e nel tentativo di perseguire i principi illustrati, si presenta, seppur brevemente, il processo di conoscenza avviato in ambito mozambicano[8], quale occasione per costruire un dialogo interculturale volto a riconoscere il valore del patrimonio culturale locale (architettonico e di paesaggio) in relazione ad un suo necessario processo di valorizzazione e di trasformazione.

 

Progetto Mo.N.G.U.E. Mozambique. Nature. Growth. University. Education.

Il titolo, nel giocare con l’acronimo sul nome della località di Mongue (area a sud del Mozambico), porta l’attenzione su alcuni obiettivi generali quali: natura, ambiente e paesaggio e la sua condizione di pericolo e, al contempo, di potenzialità. Una crescita intesa soprattutto come sviluppo in senso qualitativo e sostenibile; l’università come grande motore dello sviluppo economico e civile del paese; l’educazione diffusa, la scuola per tutti, che oggi si amplia anche all’infanzia. L’ambito di ricerca è la penisola di Mongue, in Mozambico, a 20 km dalla città di Maxixe che pur presentando alcuni fenomeni propri di un contesto rurale (abbandono del territorio, perdita di identità dei luoghi, mancanza di cura dell’ambiente) rischia di subire gli effetti delle tensioni insediative che caratterizzano le aree più periferiche di Maxixe.

Grazie ai missionari italiani della Congregazione Sacra Famiglia, la penisola di Mongue ha iniziato, negli ultimi decenni, a riattivarsi quale punto di riferimento sociale e identitario della comunità locale. Dell’epoca coloniale sono ancora presenti sul territorio la chiesa di Sao Josè (immagini 1,2,3) (strutturalmente inagibile e gravemente danneggiata dal ciclone Dineo del 2017) e la vecchia casa della Missione (immagini 4,5,6,7), importanti testimonianze di un patrimonio architettonico da conservare e valorizzare.

 

Gli interventi di carattere socio-educativo realizzati dai missionari in questi ultimi anni (un asilo, alcuni laboratori di formazione professionale, una provvisoria struttura adibita a chiesa – interamente distrutta del ciclone ma già ricostruita) evidenziano però una generale inadeguatezza tecnica, una mancanza di attenzione alle risorse bioclimatiche ed energetiche e una diffusa casualità con cui le strutture si dispongono nel paesaggio.

Si desidera qui presentare una parte del processo conoscitivo, costruito a partire dalla stretta collaborazione di un team multidisciplinare che concorre alla definizione dei diversi livelli del progetto al fine di raggiungere l’obiettivo comune di individuare possibili scenari di valorizzazione delle architetture e degli spazi aperti della Missione di San Josè, attraverso la loro conservazione e la costruzione di nuove parti.

I campi di competenza necessari per assolvere ai vari aspetti analitici e progettuali sono: architettonici, degli interni e degli spazi aperti, urbanistici, territoriali e di paesaggio; di conservazione degli edifici storici e del patrimonio esistente; tecnico strutturali e di sostenibilità bioclimatica, ambientale ed energetica; di valorizzazione economica, sostenibilità finanziaria, di gestione e manutenzione degli edifici.

Il processo di conoscenza è stato verificato ed integrato con gli attori locali (i protagonisti dell’alta formazione espressa dall’Università Pedagogica; i missionari della Sacra Famiglia; le comunità locali e i bisogni di cui si fa portavoce) ed applicato in situ (su edifici scolastici e sugli edifici della missione di San Josè).

Particolare attenzione è stata data alla conoscenza del patrimonio architettonico esistente rappresentato, in estrema semplificazione, da due categorie molto differenti tra loro: quella delle costruzioni tradizionali, le capanne in canisso e terra cruda (adobe e pisè), con le più attuali inserzioni di lamiera metallica, che caratterizzano tutti i contesti rurali, e gli edifici in muratura mista (pietra, laterizio ma anche terra cruda) di origine coloniale localizzati in piccoli agglomerati specifici (ad esempio la missione, ma anche la maggior parte degli edifici scolastici anche dei territori rurali) o nei centri a carattere più urbano. In generale le architetture coloniali sono abbandonate e quindi soggette ad accelerati processi di degrado e, nei pochi casi di riuso – come in quello della Missione – non sono gestiti dalla popolazione locale.

La premessa, esplicitata in apertura, è che l’esistente, in ogni suo carattere e forma, è un patrimonio unico e insostituibile, che ci parla di un passato che è la nostra storia ma, al contempo, ha la forza di vivere nel presente e, soprattutto coglie la sfida di assumere un nuovo ruolo nel futuro, quale occasione per soddisfare le nuove esigenze dell’abitare.

Tra le tante questioni da indagare una assumeva, all’inizio della ricerca, un ruolo fondante, perché legata a una riflessione profonda sul concetto locale di patrimonio: perché le architetture di origine coloniale, quelle in muratura, sono quasi interamente abbandonate? Quali sono le ragioni che hanno portato queste testimonianze materiali a diventare fantasmi da ignorare? Perché ricordano un passato scomodo da dimenticare o perché la popolazione locale, non avendole costruite in prima persona, non le riconosce come proprie?

Al di là delle ipotesi che si possono fare, e che sono state fatte durante la fase preparatoria del percorso di analisi, è stato necessario mettersi in gioco con la realtà costruita specifica, quella della Missione di San Josè, senza preconcetti, cercando di liberare il campo di ricerca da schemi precostituiti o da letture semplificanti o, nel migliore dei casi, già validate in altri contesti.

Ogni realtà, ogni cultura ha caratteri e specificità da investigare, comprendere e rispettare: non è possibile interpretarla applicando meccanicamente schemi conoscitivi a priori ma siamo chiamati ad avere la forza e l’umiltà di metterci in ascolto. Non possiamo ignorare il nostro ruolo attivo di osservatore – la conoscenza non può essere un’azione meramente oggettiva – ma dobbiamo cercare di ridurne al massimo l’impatto aumentando, al contempo, la ricchezza, e le contraddizioni, di cui l’esistente è portatore per eccellenza.

In questo caso specifico il processo conoscitivo, costruito anche attraverso il confronto con la popolazione locale, ha permesso di comprendere che la ragione per cui il patrimonio architettonico di origine coloniale non è considerato un valore del presente, e quindi non è utile renderlo abitabile, non è in alcun modo legato ad implicazioni sociali, politiche o ideologiche che fanno riferimento al periodo di occupazione portoghese ma a questioni molto più pragmatiche.

Dal punto di vista del comfort ambientale, infatti, queste architetture offrono prestazioni bioclimatiche molto inferiori rispetto alle costruzioni tradizionali: queste ultime, infatti, in tempi relativamente brevi, rilasciano all’ambiente esterno le alte temperature assorbite durante la giornata e permettono, proprio per i loro caratteri spaziali e materici, una continua ventilazione naturale degli spazi interni. Quali conseguenze può portare questa considerazione che è il risultato di un concreto confronto, nel senso più articolato del termine, con la cultura locale? Permette, solo per fare un esempio, di considerare le azioni volte al miglioramento bioclimatico quali strategie estremamente adatte per valorizzare e rendere abitabili, e quindi risorse per il presente e per il futuro, queste architetture oggi in completo stato di abbandono.

 

Dall’Abaco conoscitivo alla Scheda di rilievo

La scheda di rilievo, preparata prima della missione in Mozambico e corretta, approfondita e compilata in situ durante i sopralluoghi agli edifici della Missione di San Josè e a quelli scolastici localizzati lungo la penisola di Mongue, rappresenta il primo necessario passo nella costruzione del processo di conoscenza del patrimonio esistente e la premessa per qualsiasi ipotesi di intervento su di esso.

Insieme al rilievo fotografico, svolto sul campo, il rilievo geometrico architettonico, ovvero la restituzione delle misure longimetriche (immagine 11), e la definizione di un abaco conoscitivo (immagine 8) (degli spazi aperti; delle tecniche costruttive e dei materiali; delle dotazioni tecnologiche) rappresentano il tentativo di restituire il carattere, le specificità e le condizioni del patrimonio indagato: un importante risultato del dialogo interculturale tra il know-how dei ricercatori e la realtà locale, con tutte le sue specificità e complessità.

Un livello ulteriore di approfondimento è rappresentato dalla scheda di rilievo, definita a partire dalla fase di ricerca bibliografica sull’architettura della penisola di Inhamba­ne, che è stata compilata sia per sistemi complessi che per singoli edifici: in particolare gli edifici scolastici mozambicani sono spesso costituiti da un insieme di strutture che convergo­no intorno ad uno spazio aperto (da qui la definizione di sistemi complessi).

Nel caso dell’approfondimento specifico sulla Missione di San Josè a Mongue per ogni edificio (casa della Missione, chiesa di San Josè, refettorio, nuova chiesa) è stata compilata una scheda di rilievo.

Il tracciato è strutturato in dieci parti distinte: funzione, informazioni generali, composizione planimetrica, dati quantitativi, materiali e tecniche costruttive, spazio aperto, servizi igienici, infrastrutture e servizi, livello di degrado, allegati fotografici (immagine 9,10). Lo stato di conservazione degli edifici è stato inoltre approfondito attraverso schede descrittive dei fenomeni di degrado rilevati (immagine 12). Questa lettura della consistenza materica, dello stato di conservazione delle strutture architettoniche assume un ruolo centrale nella fase conoscitiva volta ad individuare le strategie di cura e valorizzazione del costruito esistente.

Ancora una volta la sfida è indagare in profondità e attraverso le specificità dei materiali e delle tecniche costruttive dei luoghi la realtà nella sua complessità e nel suo inevitabile processo di trasformazione.

Nel tentativo di restituire anche gli aspetti ambientali del costruito esistente, sono stati effettuati alcuni  rilievi bioclimatici di edifici campione (realizzati sia in muratura che con tecniche e materiali tradizionali locali) per valutare, in maniera scientifica, i valori di comfort (o non comfort).

La campagna di conoscenza, qui descritta solo in parte e attraverso le sue linee generali, costruita a partire dall’impegno del team multidisciplinare, integrata e verificata attraverso il confronto con la realtà locale, ha permesso di comprendere la complessità (architettonica, tecnico-costruttiva, tecnologica, ma anche di paesaggio e di principi insediativi) della penisola di Mongue: premessa necessaria per capire in che modo il patrimonio esistente possa diventare un’opportunità per i necessari processi di trasformazione che dovrebbero sempre nutrirsi, accrescendo e non rinnegandolo, il carattere di identità locale.

 

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[1] R. Fornet-Betancourt, La trasformazione interculturale della filosofia, in “Topologik, Rivista internazionale di Scienze Filosofiche, Pedagogiche e Sociali”, n.6, a cura di M. Borrelli, F. Caputo, Pellegrini, Cosenza 2009, pp.25-26. Per un approfondimento delle riflessioni e ricerche sulla filosofia interculturale si vedano i contributi dei principali protagonisti: Raimundo Panikkar (1918-2010), Heinz Kimmerle (1930-2016), Franz Martin Wimmer (1942) e Giangiorgio Pasqualotto (1946).

[2] Per un approfondimento del tema, a partire da esperienze significative in contesto internazionale di conservazione e valorizzazione del patrimonio esistente, si veda: M. Giambruno, R. Gabaglio, S. Pistidda, Patrimonio culturale e Paesi emergenti. Riflessioni per la conservazione a partire da alcuni casi studio, Altralinea, Firenze, 2018.

[3] F. Riva, Il pensiero dell’altro, Edizioni Lavoro, Roma, 2008, 32.

[4] H. Maturana, F. Varela, L’albero della conoscenza, Garzanti, Milano, 1987, 203.

[5] R. Fornet-Betancourt, “La trasformazione interculturale della filosofia”, Topologik, Rivista internazionale di Scienze Filosofiche, Pedagogiche e Sociali, 6, a cura di M. Borrelli, F. Caputo, 17-44. Per un approfondimento delle questioni si vedano inoltre: M. Pagano, “Un contributo ermeneutico per la filosofia interculturale”, Lo Sguardo – Rivista di filosofia, 20, 2016 (I) – Herméneutique et interculturalité, a cura di C. Berner, C. Canullo, J. Wunenburger; D. De Pretto (a cura di), Tra Oriente ed Occidente. Interviste sull’intercultura ed il pensiero orientale, Mimesis, Milano-Udine, 2010.

[6] Per un approfondimento del nuovo ruolo che riveste il soggetto nel processo conoscitivo si veda: E. Lévinas, Altrimenti che essere o Al di là dell’essenza, Jaka book, Milano, 1983; M. de Certau, L’invenzione del quotidiano, Edizioni Lavoro, Roma, 2001.

[7] G. Pasqualotto, “Dalla prospettiva della filosofia comparata all’orizzonte della filosofia interculturale”, in (a cura di), G. Pasqualotto, Per una filosofia interculturale, Mimesis, Milano-Udine, 2008, 35-58.

[8] Nei paragrafi che seguono vengono presentati alcuni risultati intermedi del percorso di ricerca, ancora in corso, dal titolo Mo.N.G.U.E. Mozambique. Nature. Growth. University. Education – Progetto Polisocial Award 2015-2017 (categoria B -Progetti di Sviluppo e Sperimentazione Cooperazione e sviluppo in Mozambico, Partner di progetto: Universidade Pedagógica Delegação de Maxixe-UniSaF, Congregazione Sacra Famiglia. Gruppo di lavoro del Politecnico di Milano: Michele Ugolini (referente scientifico e project manager), Lorenza Petrini, Laura Montedoro, Liala Baiardi, Rossana Gabaglio, Valentina Dessì, Stefania Varvaro, Jacopo Barbieri, Carlo Vimercati, Lorenzo Mattarolo, Fabio Riva, Luca Faverio, Filippo Ganassini e Lavinia Dondi.

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