di Gianfranco Brevetto
– Ho letto il tuo nuovo libro, Il paradiso degli interstizi, inutile dirti che ne ho tratto interessanti spunti. Ti chiederei di ragionarne insieme con una premessa: ho letto tutti i tuoi racconti, e posso ragionevolmente sostenere che nel leggerli occorre prestare particolare attenzione. Dietro le apparenze, spesso di una prosa bonaria e tesa al richiamo, per certi versi pedagogico, di alcune tematiche, si nasconde un secondo livello di lettura, fatto per esperti, se non addirittura iniziati. Una ricerca, un percorso, del quale tu aggiorni il lettore e ne condividi le esperienze, le memorie che sono testimonianze reali, l’eco letteraria e filosofica. Ti propongo, per questa intervista, di farla in forma di dialogo. Un genere caro ai classici, in cui io mi ritaglierò la parte dello scettico, anche nel senso comune di questo termine o, più semplicemente, d’avocat du diable. Ma entriamo nel merito, Il paradiso degli interstizi, prende vita da un episodio in apparenza banale, in un consesso universitario e in occasione della morte di un collega, si discute sull’opportunità di dedicargli un’aula. Da qui una narrazione di storie di personaggi che si legano, si sfiorano, divergono alla luce di citazioni importanti. Dammi dei punti di riferimento per una corretta lettura.
– Provo a risponderti dicendo che l’incipit ha la pretesa (che ci riesca o meno è tutt’altro discorso) di calare la storia in un’atmosfera che io amo molto, e che definirei di carattere tipicamente esistenzialista: Abbiamo un uomo di mezz’età, al culmine della carriera, giunto a un passo dalla realizzazione dei suoi progetti, perseguiti con passione e sacrificio, che muore a seguito di un improvviso quanto banale malore. L’ambiente in cui si svolge la narrazione è quello accademico. È una scelta legata a questioni non solo di tipo biografico. Dietro questa scelta c’è infatti una tesi: ritengo che l’esistenza di ognuno di noi si dipani lungo un percorso nient’affatto lineare e progressivo – come siamo abituati a credere – quanto piuttosto reticolare. E che lungo questo percorso ci siano dei momenti chiave, degli snodi esistenziali (i nodi delle reti, appunto) che determinano le svolte che condurranno i nostri destini in una direzione piuttosto che in un’altra. Inoltre credo che tali momenti, per molte persone (mi riferisco, ovviamente, a coloro che intraprendono un certo tipo di carriera), diversamente da quanto suggerisce, ad esempio, la psicoanalisi, che si sofferma sull’importanza dei primissimi anni di vita, si manifestino con grande probabilità in quella fase di sconfinata adolescenza che si colloca tra la fine degli studi superiori e gli anni universitari, in cui ci si lascia andare al calore debole ma protettivo di una nuova collettività, nel minuscolo microcosmico di un determinato dipartimento, che segue una meccanica trafila fatta di corsi, esami, seminari, tirocini, riunioni di gruppo, ricevimenti per le tesi.
– Direi un periodo di formazione, dalle vaste praterie, in cui tutto appariva possibile…
– Sì, un periodo connotato anche da continui rinvii, pause di approfondimento, di ripensamento, di interazioni con coetanei o persone anche più mature, caratterizzate da interessi e ossessioni sostanzialmente simili. È qui che ho collocato gli eroi (in realtà un eroe dai due nomi) di questa narrazione. Giovanni e Francesco (i due protagonisti, appunto, ndr) sono grandi amici, condividono le profonde esperienze tipiche di uno studente universitario, fino a quando si presenta loro la necessità di dover scegliere, volenti o nolenti, i propri percorsi personali. Io provo a narrare cosa è accaduto e, al contempo, cosa sarebbe potuto accadere se, in determinati momenti-chiave, le cose fossero andate diversamente da come sono andate. Questo spiega anche il titolo. La questione degli interstizi non è legata a una volontà di andare a indagare le piccole minuzie dell’esistenza delle persone. Nel corso delle nostre vite ci sono dei momenti in cui prevalgono dei fenomeni di insensatezza, di assurdità che uno avverte, ma in genere finisce per ignorare perché impegnato a razionalizzare, programmare, progettare il futuro. Se uno invece ci torna su, seguendo un’analisi minuziosa, soffermandosi sugli istanti, sui piccoli processi, sul ricordarsi certi specifici particolari, comprendiamo che forse sono stati proprio quelli i “momenti” a partire dai quali, paradossalmente, si è determinato il senso e il significato di ciò che infine abbiamo realizzato.
– Mi chiedo, però, se il rischio, come quello occorso al Funes borgesiano, a proposito della memoria, non sia quello di finire col concentrarsi sui singoli episodi, sui piccoli elementi, particolari appunto, perdendo di vista l’insieme. L’interstizio, poi, dà l’idea della mancanza di continuità, di piccole cavità, di microfratture. Di ogni attimo della nostra esistenza, noi ne controlliamo e percepiamo solo una parte, l’hic et nunc, mentre altri istanti, al pari importanti, potrebbero giocarsi in un altrove coesistente. E se tutto viene solo a ricomporsi a posteriori, qual è il mio interesse per questi interstizi?
– Temo che la vita funzioni un po’ così: il senso di ciò che facciamo, lo possiamo comprendere solo a posteriori. Solo dopo ci si accorge di come, molto spesso, le grandi decisioni siano maturate a seguito di scelte irrazionali, non meditate, se non del tutto casuali e comunque indipendenti dai fini e dagli obiettivi che avevamo immaginato (o che qualcuno aveva progettato per noi). Ed è in questo tipo di indagine (fare “come se”), che ritengo la Letteratura dimostri di essere uno strumento straordinario, una “scienza” insostituibile. Funes è un ottimo esempio. Ma è Proust, visto che ci siamo, il vero grande maestro di questa lezione. Ci sono facce che svaniscono nell’attimo stesso in cui escono dal nostro campo visivo. E ce ne sono altre che, sappiamo bene, non svaniranno mai. A volte addirittura non ce ne rendiamo conto, non ci spieghiamo come sia possibile che quei volti o quei vissuti si ripresentino così, all’improvviso, dopo tanti anni. Eppure accade, come tutti sappiamo bene. E la letteratura possiede l’unico linguaggio in grado di rendere conto di questo fenomeno. Come recuperare, altrimenti, la presunta (ma indispensabile) continuità di un nostro io passato? Secondo me, ma si tratta solo di una mia idea assolutamente non dimostrata, anche se mi servo del romanzo appunto per provare a descriverla, questi momenti “poetici” possono essere colti solo grazie all’interazione, alla condivisione. Se qualcuno ci si è, insieme a te, soffermato; se qualcuno ha condiviso, in un modo o in un altro, quel momento (soprattutto se apparentemente insignificante) che permane nel ricordo anche dopo dieci, venti o anche quarant’anni, significa che lì c’è (e c’è stato) qualcosa. Qualcosa di permanente (per non usare e abusare del termine “eterno”). Tuttavia non possiamo sapere quali siano stati i momenti determinanti della nostra esistenza se non ex-post, nella memoria. Ciò che in genere ci affanniamo a produrre, nel frattempo, è un banale (anche se talvolta necessario) intervento di razionalizzazione. Proviamo cioè a spiegare a noi stessi ciò che ci è accaduto e ci accade, facendo ricorso a lunghe catene di cause-effetti, che a volte sono così vaste e complesse da farci smarrire ogni possibile rappresentazione dotata di senso. E da lì, poi, la naturale conseguenza di finire per fare ricorso a spiegazioni che chiamano in causa il Caso, il Fato, il Destino… quello con la D maiuscola.
– Tu fai riferimento all’importanza dei momenti. Nella nostra lingua, come ci fanno notare i più, la parola tempo, se non legata ad uno o più specificanti, resta un termine generico e con diverse accezioni. I greci utilizzavano i vocaboli kronos e kairos, e con il secondo intendevano il momento opportuno. Hegel, nella sua visione sistemica della storia, deve ricorrere all’artifizio dell’astuzia della ragione per spiegare in certe particolari situazioni storiche, svolte apparentemente incomprensibili ma comunque funzionali alla razionalità del reale. Tu stesso prima facevi riferimento al tempo interiore, alla memoria involontaria, proustiani. Queste sono solo, a grandi linee, necessità di introdurre, anche per convenienze euristiche, discontinuità di tipo qualitativo nel tempo, inteso come divenire. Esisterebbero, mi è sembrato di capire, quindi, secondo te, un tempo ordinario e un tempo in cui ci sono degli snodi, dei punti in cui l’esistente prende una svolta. Il tempo assumerebbe valori differenti per il senso che conferisce all’esistenza stessa. In breve, il senso assume valori differenti rispetto al senso che conferisce alla nostra esistenza?
– Io penso proprio che il valore diverso, la qualità che attribuiamo a quello che definiamo il “nostro” tempo, sia legata al fatto che, casualmente, ed insisto molto sul “casualmente”, in determinati momenti una particella della nostra esistenza si agganci con quella di un altro chicchessia. Questo altro può essere, nel caso dei protagonisti del mio romanzo, il professor Amalfitano, o la stessa Alice. Tali “particelle” si allacciano tra loro, diventando snodi di storie che acquisiscono a loro volta un senso solo se, per motivi ancora del tutto casuali, si integrano ad altre reti di storie, e poi ad altre ancora. Questo è il modo in cui, più o meno, ritengo si crei una possibile griglia di significati. Tutto ciò che resta in mezzo, cioè che sfugge a questi snodi, si disperde irrimediabilmente nel nulla; resta fuori dalle storie, cade nel dimenticatoio: come se non fosse mai esistito.
– Abbiamo accennato al tempo, alla memoria, agli snodi, altro tema dominante del tuo racconto è quello del linguaggio. A questo proposito tu, tra gli interessanti intarsi di citazioni più o meno esplicite, ad un certo punto, nel bel mezzo del dialogo, apparentemente quotidiano, evochi il pensiero di un filosofo del calibro di Wittegenstein. La sua biografia è fatta di diversi passaggi dal punto biografico e di ripensamenti teorici. Logico e filosofo, ingegnere di formazione decide, alla fine della Prima guerra mondiale, di prendere il diploma da maestro per andare ad insegnare in piccoli villaggi austriaci per poi ritrovarsi giardiniere in un convento. Esulo volutamente, in quanto non esperto in logica, dai suoi studi in questo campo e mi concentro su quelli sul linguaggio. Per Wittgenstein molti problemi dipendono dall’inadeguatezza del linguaggio ad esprimere correttamente i nostri pensieri e la tendenza di far corrispondere la logica alla realtà attraverso la teoria della rappresentazione. Ma queste cose ci porterebbero lontano. Ma ciò che mi interessa ricordare di questo autore è il fatto che, a suo vedere, non tutto può essere espresso e ciò di cui non si può parlare occorre tacere, come l’ineffabile misticità. Ti chiedo, secondo te, come può il linguaggio, ed i suoi limiti, aiutare a decifrare il senso della nostra esistenza quotidiana?
– Su questo punto ho una mia idea, anche se ancora un po’ immatura. Credo che il limite del linguaggio, in un discorso di ricostruzione biografica, in un’operazione come quella che ho cercato di fare, sia quello che esso risente ancora troppo di una visione deterministica, nel senso causalistico: affinché ci sia un effetto è necessario che ci sia una determinata causa. Invece io credo che dovremmo sforzarci di introdurre, anche nel nostro linguaggio comune, quelle modifiche che si avvertono in molti ambiti delle scienze contemporanee, dalla fisica alla biologia, dalla psicologia cognitiva alla sociologia, che sono di carattere più strettamente probabilistico. Il linguaggio declinato in termini razionali, rischia di essere troppo rigido e intransigente: se io ti dico una cosa, provoco un determinato effetto. Introdurre l’idea che invece anche il linguaggio sia potenzialmente portatore di probabilità, e non di certezze, intervenendo e modificando gli stessi eventi a cui si riferisce, credo sia un passaggio potenzialmente molto importante da provare a condividere.
– Sì, effettivamente, il principio di causa-effetto, è stato utile, in campo teorico, soprattutto nella sistematizzazione razionale dei campi del sapere e delle idee e qui si potrebbe esagerare nella citazione dei vari filosofi che hanno ampiamente attinto al sistema aristotelico e di cui, spesso, sono rimasti prigionieri. Ma, a proposito sempre di Wittgenstein, tu introduci una certa relazione tra l’identità, altro tema del tuo racconto, con l’elemento funzionale, cioè che le cose sostanzialmente si definiscono per la funzione che svolgono.
– Ciò che traspare dall’utilizzo che faccio di questo autore, nel mio piccolo, è un po’ una critica all’aspetto funzionalista, all’oppressione prodotta da determinate certezze. Le presunte verità legate a un certo uso del linguaggio, a volte sono portatrici di conseguenze tiranneggianti che si potrebbero talvolta sfumare, se non evitare del tutto. Attribuire al linguaggio una valenza probabilistica più che di verità, potrebbe talvolta rendere le relazioni e le storie tra gli individui più elastiche e morbide; e le vite stesse delle persone più disponibili alla tolleranza. Tutto sommato non sono ancora scomparse, e chissà se scompariranno in futuro, le conseguenze nefaste delle certezze legate anche a un certo uso del linguaggio, eccessivamente proteso verso la ricerca di verità, di Realtà (quella con la R maiuscola, quella unica e indiscutibile, fondata sull’indubitabile conferma delle percezioni sensoriali:..), e poco disponibile ad aprirsi a un confronto dialettico con l’immaginario, il sogno e, soprattutto, con le enormi potenzialità dei linguaggi dell’arte e della poesia. I grandi archetipi della mente, i grandi prodotti artistici dell’immaginario collettivo, di cui in un modo o nell’altro tutti noi disponiamo, finiscono molto spesso per essere schiacciati da semplicistiche, riduttive e assai povere immagini sensoriali. Capisco che non possiamo vivere la nostra quotidianità (spesso difficile e complessa) schermati come in un bozzolo dall’esperienza dei sensi. La domanda però non è: come possiamo mantenere pura l’immaginazione, proteggerla dal furibondo assalto della realtà. La domanda è: c’è un modo più efficace per farle coesistere? A questo proposito, c’è un brano di Wordsworth in cui vengono descritti i limiti della percezione sensoriale: Quando gli organi di senso giungono al limite delle loro possibilità, la loro luce comincia ad affievolirsi. Ma nel momento in cui sta per spegnersi, questa luce ha un ultimo guizzo, come la fiamma di una candela, e ci dà una fuggevole visione dell’invisibile (oserei dire, qui sì, dell’eternità). Da questo brano, peraltro molto complesso e difficile, io credo si possa desumere l’espressione più vicina al concetto di verità che io conosca: l’immagine sensoriale (inesorabilmente fugace) non come certezza o prova del Reale, ma come semplice strumento per stimolare o attivare l’immaginario profondamente sepolto nel terreno della nostra memoria.
– Mi viene in mente, ragionandoci su, uno dei capisaldi della fenomenologia, in particolare heideggeriana, cioè di considerare l’esistente come un Da-sein, un essere per qualcosa, con tutte le relative implicazioni. Cerchiamo di tradurre queste cose nel quotidiano, nelle storie che viviamo e di cui siamo parte, in quanto oggetti indispensabili, consapevoli o inconsapevoli, della trama che costruiamo giorno dopo giorno. Dal momento in cui iniziamo a considerare le storie sotto una luce fenomenologica ed esistenziale, quali strumenti ci consegna questo pensiero per leggere e comprendere il senso?
– Ritengo che una delle lezioni più importanti che si può trarre dalla fenomenologia, sia quella di guardare ai processi e non alle cose, alle relazioni (tra persone e persone e tra persone e cose) e non alla loro presunta ontologia. Occorre portare fino in fondo il discorso che noi siamo delle narrazioni indeterminate (e indeterminabili, se non in senso probabilistico) e non dei progetti. Il progetto porta con sé, ancora una volta, l’idea della causalità, della direzionalità, di un fine. Se pensiamo di essere dei progetti abbiamo un obiettivo. Tuttavia nell’esistenza, a quell’unico obiettivo che si persegue e che, forse, si raggiungerà, andrebbero aggiunti molti altri obiettivi che si sarebbero potuti raggiungere, ma che sono andati dispersi. Anche dimenticati, forse. Io penso che le nostre storie siano, insomma, come ho già detto, reticolari. Dobbiamo assumerci la responsabilità della consapevolezza che in ogni momento, per motivi non necessariamente prevedibili con certezza, si può prendere una direzione esistenziale piuttosto che un’altra.
– Certo, ma portando al limite questo discorso, può accadere che una volta liberatici dal vincolo del causa- effetto e in assenza di altri punti solidi e razionali di riferimento, le storie personali si trasformino in destini, il fato ritorni inesorabilmente a dettare le sue leggi capricciose. Un rischio in cui sembra essere ricaduto, tra gli altri, Nietzsche quando ci parla di amor fati. Comunque credo di aver interpretato quanto dici sotto il profilo esistenziale in senso stretto del termine, cioè le cose sono così perché è la nostra stessa condizione ad essere così, ma qui forse rischiamo di ricadere in discorsi ontologici. Aiutami a capire meglio.
– Al centro di ogni dinamica relazionale va posta necessariamente la sua temporalità. Il domani è sempre incerto. Le cose si vivono qui e ora. Se poi vogliamo pensare alle certezze relative al futuro, l’unica di cui potremmo parlare razionalmente è quella legata alla morte. Quella è sempre stata, in ultima analisi, la nostra unica certezza, l’unico carattere davvero specifico della nostra Umanità. Per motivi puramente evolutivi, siamo tuttavia programmati geneticamente e culturalmente per evitare di soffermarci sulla morte. Tendiamo ad evitarla, a collocarla “altrove”, la camuffiamo. Ho dedicato molti studi all’analisi di questo processo di “mimetizzazione”, ma preferirei evitare di tornarci su in questo momento, per non distogliere l’attenzione da quello che mi sembra essere uno dei punti focali del discorso cui siamo faticosamente pervenuti. La certezza della finitudine scardinerebbe ogni possibile, potenziale idea di Destino. L’unico modo di poter pensare a noi stessi in termini progettuali è e resta quello di utilizzare – come provavo a suggerire prima – il linguaggio in termini ipotetici, acquisendo la consapevolezza del “come se”, della “finzione”. Facciamo finta; facciamo “come se” fossimo immortali, insomma, poi si vedrà. Si tratta di avere fiducia, di nutrire la speranza. Per citare Einstein: “Tutti sanno che una cosa è impossibile. Poi arriva uno che non lo sa e la fa”. D’altronde pare sia un bisogno umano primario quello di immaginare “l’impossibile”, di inventare, mettere alla prova ipoteticamente la cosiddetta “realtà”. Si tratta, lo ripeto ancora, del tentativo di affermare un’idea probabilistica dell’esistenza, un tema dai risvolti molto cari, come giustamente noti anche tu, alla fenomenologia esistenzialista.
– Ultimo, ma non meno importante, tra i temi del tuo racconto è quello dell’amore. Tema trattato allo sfinimento in letteratura, molto spesso banalizzato, che tu, a un certo punto, associ al principio di indeterminazione. Lascio a te spiegare come sia possibile trattare un argomento che appartiene alla sfera affettiva, sentimentale, parte importante dell’esistenza di ognuno, senza ricadere in luoghi comuni e, poi, come si fa a coniugare amore e principio di indeterminazione.
– Ho voluto, a questo proposito, contrapporre l’atteggiamento esistenziale dei due protagonisti. Uno, molto razionale e nichilista, che considera gli esseri umani come dei semplici organismi viventi che, in quanto tali, agiscono in base ai principi basilari della sopravvivenza e della riproduzione. L’amore, e tutte le categorie affettive ad esso correlate, per lui non sarebbero altro che traduzioni articolate di questi principi. L’innamoramento non sarebbe altro che una strategia per accoppiarsi e riprodursi. L’altro, invece, vive pienamente l’immaginario e le necessarie “mimetizzazioni” (fare “come se”) connesse all’esistenza sentimentale ed emotiva del suo essere, trascurando o minimizzando gli elementi razionalizzanti delle sue relazioni (sia con la sua compagna, sia nel mondo del lavoro). Paradossalmente l’atteggiamento di quest’ultimo sembrerebbe oggi accordarsi maggiormente ai principi teorici introdotti dalla fisica quantistica (tra cui il principio di indeterminazione, appunto), i cui riferimenti nel mio romanzo sono semplicemente legati al fatto che si tratta di un’area di studi che mi affascina profondamente. Ovviamente evito di addentrarmi ulteriormente in questo campo minato. D’altronde Richard Feyman, premio Nobel e padre dell’elettrodinamica quantistica, diceva che nessuno capisce davvero la meccanica quantistica, e che chiunque affermi di capire la teoria dei quanti mente oppure è un pazzo: “sappiamo che funziona – sosteneva – ma non perché funziona…”: l’ho sempre trovata una frase dirimente. Poi, tornando al romanzo, ci sono le altre due figure: Alice e il professor Amalfitano (personaggio per me divenuto oramai seriale e al quale sono affezionato in maniera particolare), che evidenziano, con il loro atteggiamento, la necessità, nonché la difficoltà, di riuscire a tenere insieme razionalità e, diciamo, fantasia. Ho provato insomma a rappresentare il paradosso di questa doppia visione delle cose. Probabilmente ci sono dei momenti, quelli interstiziali dell’esistenza, in cui si combinano i due aspetti e uno si sente appagato, coinvolto, innamorato. Anche la più perfetta delle coppie, d’altronde, se resta ferma, se si cristallizza senza riuscire a integrare i propri reciproci mutamenti dinamici, finisce per morire (in base al famoso secondo principio della termodinamica).
– E torniamo, infine, agli interstizi. Sarebbe, nel tuo libro, la tesi madre di Omar Amalfitano, uno dei personaggi, cioè “delle piccole cose, dei momenti brevi e fugaci, quel luogo della mente ricco di semplici simboli pieni di significato, in cui gli esseri umani amano soffermarsi per attribuire un senso alla loro esistenza e, soprattutto, per evitare di pensare a ciò che potrebbe far crollare tutti i loro granitici e rassicuranti sistemi logici”. Dei veri paradisi sembrerebbe, ma sono davvero tali?
– La questione degli interstizi, come accennavo all’inizio, è uno degli elementi a mio avviso più significativi. L’interstizio è uno dei momenti in cui ci si sofferma su storie, oggetti, particolari e si decide di scavare per penetrare più a fondo. E scavando si scopre che forse è proprio lì che si può trovare il senso delle cose, il modello, l’archetipo, lo schema stabile di riferimento (il pattern di cui parlano le neuroscienze sociali) di ogni fugace percezione. È un po’ come essere innamorati – appunto. Se fossimo ciechi, difficilmente ci potremmo innamorare. Ma, quando siamo innamorati, desideriamo veramente vedere l’amato con la fredda nitidezza dell’apparato visivo? Non ci conviene forse gettare un velo sullo sguardo, in modo da tenerla viva nella sua forma archetipica di una divinità? Non speriamo sempre – come accade ad Alice nel racconto – “in uno di quegli istanti rivelatori”? Istanti che però possono capitare solo se lo sguardo resta almeno in parte focalizzato sui grandi modelli dell’immaginazione che ci portiamo dentro e conserviamo ben protetti negli interstizi nostra memoria. Non credo di poter riuscire a rappresentare meglio il senso di eternità di una presenza “viva”, nonostante l’inesorabile fugacità del suo essere sensibile, come quella che ho provato a definire come, appunto, “Il paradiso degli interstizi”.
Gianfranco Pecchinenda
Il paradiso degli interstizi
inKnot Edizioni, 2020