EXAGERE RIVISTA - Luglio - Agosto - Settembre 2024, n. 7-8-9 anno IX - ISSN 2531-7334

Perfettismo, vecchie ideologie e nuovi totalitarismi

Premessa

Il meglio, in chiave geopolitica, è una prerogativa di Dio? Occorre indossare gli occhiali teorici di Leibniz per arrivare a questa conclusione. Quando sono gli uomini ad applicare al grado superlativo l’aggettivo bene (il migliore) ai mondi da loro progettati, allora si verificano i disastri. Dopo aver esaminato perché, sul piano metafisico, il bene sia sempre nemico del meglio e il senso de “il migliore dei mondi possibili” nella Teodicea di Leibniz, si cercherà di mostrare come i due recenti totalitarismi, quello basato sull’ideologia del Russkiy Mir (Mondo russo) e quello fondato sul takfīr, alla base del sanguinoso Stato Islamico (2014-2017), siano espressioni del “perfettismo politico”, sempre in agguato quando si applica alla volontà politica la filosofia del meglio. In entrambi i fenomeni si rileva un’aspirazione trascendente, esasperata dai rappresentanti religiosi delle due fedi (la Chiesa Ortodossa russa e gli ideologi delle letture estremiste dell’Islam) che non può adattarsi agli scopi finiti di una nazione o di uno pseudo stato ed inevitabilmente anima pretese di dominio globale.

Dal bene al migliore, per i limiti della condizione umana

Siamo portati a considerare “il meglio” come un tratto superiore al “bene”. Il profilo superlativo di questo aggettivo, ce lo fa credere. Ma sul piano metafisico subito affiora una perplessità, dal momento che l’idea di bene già comprende il massimo delle perfezioni. Allora, per capire quali danni possa determinare l’applicazione del concetto di “migliore” alla realtà sociale, in particolare, all’ordinamento degli Stati, risulta utile far partire il ragionamento proprio da qui. Dall’idea del bene.

Nel linguaggio quotidiano il bene è principalmente lo “stare bene”. Tuttavia, è soprattutto il bene, ricercato e perseguito nella condotta quotidiana a brillare di una luce speciale nella considerazione comune: l’agire bene illumina l’atto umano. Tuttavia, esiste anche il bene pre-morale. Philippa Foot sostiene che di bontà naturale si può parlare a proposito degli esseri viventi, a proposito degli uomini, degli altri animali e delle piante. Ciò dipende, spiega l’allieva di Wittgenstein, dal fatto che il bene è in un rapporto specifico con la forma di vita a cui fa riferimento.

Rispetto a questa concezione, assegnare un contenuto di bene al positivo, al dato, quindi anche alle realtà inanimate, significa prendere a riferimento ancora l’essere, non nel senso di qualcosa che ha l’essere ma di qualcosa che è. Entrambe le accezioni appartengono al verbo che esprime l’esistenza, solo che nel primo caso si porta l’attenzione alla vitalità (es: gli esseri animati), mentre nel secondo si considera la mera presenza (qualità valida anche per gli esseri inanimati).

Pur sfaccettato nelle sue manifestazioni, il bene trasmette l’idea di integrità. Il discorso metafisico classico assegna a questa realtà il carattere di un trascendentale dell’essere, cioè di un aspetto rivelativo dell’essere (esistenza) di un ente. A far scuola, in questo senso, è stato Tommaso d’Aquino, che nel De Veritate, pone sullo stesso piano – per così dire – bonum, unum, verum, pulchrum. In altre parole, il bene è anche uno, vero, bello; lo stesso vale per ogni singolotrascendentale, che assorbe anche le altre qualità. Dunque, non meraviglia il proverbio: “il meglio è nemico del bene”, citato da Voltaire[1] come espressione della saggezza classica italica.

Tuttavia, siamo esseri finiti. I risultati delle nostre azioni non danno origine a risultati sempre perfetti in senso metafisico. Lo stesso vale per le entità del mondo con cui siamo in relazione. Ad esempio, se mi piace scrivere, non è detto che subito esca dalle mie parole il romanzo del secolo: lo stile, il lessico, la capacità di sviluppare un intrigo possono essere già abbastanza buone, ma anche migliorare, cioè raggiungere uno standard più alto. Quindi, è normale e ovvio che la ricerca del bene, della felicità, della realizzazione di sé si orienti nel senso di un perfezionamento continuo. Obiettivo è il raggiungimento di un bene – relazionale, professionale, culturale, morale – il più possibile completo.

Cosa rende il meglio pericoloso?

Quando ciò si verifica? Per entrare nel tema dei totalitarismi, come esempi paradigmatici di una torsione patologica verso il superlativo del bene, occorre riprendere in mano, brevemente, la Teodicea di Leibniz.

La scelta del meglio: Dio, una volontà, due movimenti

La formula “il migliore dei mondi possibili” rinvia all’opera più nota del pensatore tedesco del Settecento, l’Essais de théodicée (1710) o Teodicea, ovvero “la giustificazione di Dio”[2]. Quando articola quell’affermazione, egli già ha portato a tema il mistero dell’onniscienza e dell’onnipotenza dell’Eterno, affermando che l’intelligenza di Dio coincide con la sua volontà. Un volere unico, dotato di due “movimenti”, che chiama la “volontà antecedente” e la “volontà conseguente”.

Le infinite idee presenti nella mente di Dio comprendono anche gli infiniti mondi con i quali l’Onnipotente ha avuto a che fare nell’attimo della creazione ex nihilo. Poiché l’Essere supremo è il Bene, non si può concepire che le sue idee siano imperfette. Quindi ogni idea, singolarmente presa, è bene. Sulla base di questa solida premessa teologica/logica, la risposta di Leibniz al senso stesso del mondo come creatura di Dio, va nella direzione di una libera scelta, tra gli infiniti beni com-possibili, orientata al bene al più alto grado.

In questo senso, Dio nel creare il mondo si è deciso per “il migliore dei mondi possibili”. Essendo Egli infallibile, la sua scelta va considerata non soltanto buona, ma la migliore. Proprio perché frutto di un’opzione tra molteplici beni. La visione di questa realtà, pensata come possibile, è diventata attuale – cioè ha preso vita nella creazione – per un atto di volontà. In questo senso si comprende perché Leibniz introduca i due aspetti dell’unico volere: la volontà antecedente (Dio vuole il bene) e la volontà conseguente (Dio opta per il meglio).

Se confrontiamo il rapporto che il Dio di Leibniz ha con il “miglioramento” e l’atteggiamento di noi uomini, esseri mortali e finiti, ci rendiamo conto di quanto profonda sia la distanza dal Creatore. In noi l’esperienza di bene – che riguardi il privato, il lavoro, un hobby – può accrescersi, arricchirsi, diventare sempre più integra, unica, bella, vera (bonum, unum, pulchrum, verum) di quella attualmente vissuta. Nell’Onnipotente e Onniscente della Teodicea, ogni cosa è già, di per sé compiuta e buona, seppure in vari gradi.

Per questo motivo, il suo decidersi per il meglio è frutto di un agire consapevole di tutti gli aspetti che comporta dar vita a quella realtà, persino del suo futuro, in ogni minimo aspetto. Anche il male, che Dio puro bene può volere, entra sempre nel piano del bene, per quanto ciò sia complicato da afferrare con la mente umana. Il tema dei “mondi possibili” entra proprio qui, a proposito del grande enigma del male.

«Ora, benché il male fisico ed il male morale non siano affatto necessari, è sufficiente che in virtù delle verità eterne, siano possibili. E come questa Regione immensa di verità contiene tutte le possibilità, bisogna che vi siano un’infinità di mondi possibili, che il male entri in molti di essi, e che anche il migliore di essi ne racchiuda; il che è ciò che ha determinato Dio a permettere il male» (I, 21).

Dunque, anche permettere il male, per il Dio di Leibniz, è espressione della sua infinità bontà e ciò avviene senza alcuna necessità. È a questo punto che Leibniz procede a sostegno del proprio argomento sviluppando la natura della volontà divina, a cui riconosce un doppio movimento, antecedente e conseguente, per concludere (I, 23) in modo estremamente efficace, in rapporto alle premesse:

«Da tutto ciò consegue che Dio vuole antecedentemente il bene e conseguentemente il meglio. E per ciò che riguarda il male, Dio non vuole affatto il male morale ed in modo assoluto non vuole il male fisico e le sofferenze; perciò non v’è predeterminazione assoluta alla dannazione; del male fisico si può dire che Dio spesso lo vuole come una pena dovuta alla colpa e spesso come un mezzo adatto a un fine, cioè per impedire mali maggiori o per ottenere maggiori beni».

L’uomo anela al bene. Finché è mosso da questo desiderio, la ricerca del meglio, lo avvicina al fine che s’è posto. L’errore metafisico alla base dei totalitarismi è di poter decidere che, ciò che si considera il bene, è anche il migliore tra i beni possibili. Il Dio di Leibniz poteva affermarlo e, di conseguenza, agire determinandosi alla creazione avendo un’idea sempre rivolta al bene per le creature, con la simultanea visione delle infinite idee dei possibili.

Nella pulsione dei regimi a qualificarsi come “il migliore dei mondi possibili” lo Stato, attraverso un autocrate, si fa dio, attribuendo a sé le prerogative di 1) sapere quale sia l’unico bene possibile e 2) decidere per l’unico bene possibile. Entrambe le azioni sono viziate alla base. Infatti: non è possibile ad un essere finito avere la contemporanea visione delle concrete possibilità di un atto (in questo caso, politico) e, di conseguenza, ogni decisione in quel senso esprime un agire autoritario.

Non meraviglia che nei due fenomeni più recenti dell’ideologia totalitaria, inevitabilmente distruttiva dell’umano – il fondamentalismo di Russkiy Mir abbracciato da Putin e quello del takfīr, alla base dello Stato Islamico (2014-2017) – vi sia sempre una ibridazione teologica. In qualche modo si cerca nell’ispirazione supernaturale una direttrice supernazionale, comprensiva e globale, quale argomento probante dell’azione politica. Se in Russia la Chiesa ortodossa di Mosca avalla obiettivo di conquista di Putin, nell’Isis, dove non ci sono rappresentanti ufficiali della religione (come il papa nel Cattolicesimo o il patriarca nel Cristianesimo Ortodosso) era il califfo stesso a offrirsi nei termini di vice-dio (califfo significa in arabo: il vicario/vice).

Un mondo russo è possibile? L’ideologia di Russkiy Mir

L’aggressione dell’Ucraina, perpetrata dalla Russia, è apparsa al mondo assurda e priva di motivazioni all’indomani della proclamazione di guerra (24 febbraio 2022), frutto della decisione di uno solo: l’autocrate Vladimir Putin[3]. In realtà, le radici ideologiche di questo conflitto di brutalità immane, sono note agli analisti da parecchio tempo; ignota, al contrario, era la portata totalitaria che sarebbe potuta scaturire, nonostante la torsione verificatasi specialmente all’indomani dall’annessione della Crimea nel marzo 2014[4].

Fin dal 2012, cioè da quando Putin ha ripreso la presidenza della Federazione russa, Putin ha «chiarito con parole e azioni il suo desiderio di diventare lo zar di un ricostituito impero russo che dovrebbe comprendere al suo centro il Mondo Russo, costituito dalle tre repubbliche slave (Russia, Bielorussia, Ucraina) che, si ritiene, rintracciano le comuni origini nella Russia di Kiev (Kyivan Rus) del X secolo».[5]

Ormai da una ventina d’anni si va affermando il pensiero del cosiddetto Russkiy Mir, dove Mir racchiude un concetto slavo non traducibile, perché oltre a “mondo” il termine indica la “pace”. Fondazione nata per la promozione della cultura e della lingua cirillica nel mondo, Russkiy Mir ha via via enfatizzato il compito di proteggere e mantenere collegate alla madre patria le comunità di russi al di fuori della Federazione, formatesi dopo la disgregazione dell’Urss che, si stima, contano 25 milioni di persone. Una diaspora che sta sempre più a cuore al governo centrale, con i suoi “russi etnici” (russkie), i “parlanti russo” (russkoiazychne), “russi per cultura” (rossiiane), “compatrioti” (seetechestvenniki), “connazionali all’estero” (zarubezhnye sootechestvenniki) o “compagni di tribù” (soplemenniki)[6]. In un certo modo, questa ideologia ha ridisegnato i confini della Russia post sovietica, riportandoli prima soltanto idealmente e, dopo il 2014 anche fattivamente, al precedente status quo. Come scrive Wawrzonek: «The concept of the ‘Russkiy Mir’ defines the alleged premises of the cultural and, consequently, political unity of the post-Soviet space / Il concetto di Russkiy Mir definisce le presunte premesse dell’unità culturale e, conseguentemente politica dello spazio post-sovietico»[7].

Non meraviglia che questa sia diventata «una strategia semi ufficiale, sia dei politici russi, sia del Patriarcato di Mosca (realtà separata dalla Chiesa ortodossa dell’Ucraina[8]) a riguardo degli Stati confinanti con la Russia», secondo Babynskyi[9]. In particolare, a Kirill viene contestato di «aver fornito la copertura spirituale all’invasione» recente dell’Ucraina[10].

L’aspirazione, veicolata dall’ideologia dentro e fuori la madre patria, a sentirsi una “comunità spirituale” fa capire perché essa venga non soltanto abbracciata, ma vigorosamente promossa dalla principale autorità religiosa russa, il patriarca Kirill. Il quale, se da un lato ha ribadito il carattere «spirituale, culturale, etico» di questo indirizzo, al punto che esso può venire assunto anche da persone che sono «totalmente al di fuori dal mondo slavo»[11], dall’altro ha manifestato una vicinanza / condivisione esplicita della politica di Putin.

Ancora più esposta politicamente è la posizione dell’igumeno Eutimio, rettore del Seminario di Kazan, che già da anni ha fatto chiarezza sul rapporto tra l’ideologia del Russkiy Mir e la Chiesa ortodossa di Mosca. Un concetto, egli ha dichiarato, che «dovrebbe essere compreso come la comunità di tutti coloro che si identificano con la civiltà russa, il cui principio portante è la fede ortodossa».[12] Non lascia margini di incertezza la dichiarazione di Vladimir Putin, del 2013, che indica nella religione “di Stato” della Russia l’asse portante dell’amalgama ideologico.

Сегодня и в России, и в странах канонического присутствия Московского патриархата, среди наших соотечественников на разных континентах Русская православная церковь выполняет особую миссию. Она сближает государства и народы, своим мудрым словом и делом помогает найти взаимопонимание. Помогает сохранить те нити, которые связывали нас веками, по сути, сплачивает многомиллионный русский мир[13].

«Oggi, sia in Russia e nelle nazioni dove il Patriarcato di Mosca è presente in forma canonica, tra i compatrioti (наших соотечественников) nei diversi continenti, la Chiesa Ortodossa Russa è incaricata di una speciale missione: avvicinare stati e nazioni e, con la sua parola e le sue azioni sagge, aiutarle a cercare una reciproca comprensione. Aiuta a preservare quei legami che ci hanno tenuti uniti per secoli. Davvero essa unisce il mondo russo con i suoi milioni di persone».

E qui viene il dettaglio forse meno noto, ma molto significativo per l’ambizione mondialistica di questo collante super-nazionale: la Fondazione Russkiy Mir promuove la diffusione della lingua russa, di pari passo con un’idea di lealtà alla madre patria[14]. È evidente la volontà, duplice, di ‘costruire’ un popolo, oltre che di rimodellare i confini. Lo notiamo nelle linee identitarie della Fondazione:

Русский мир – это не только русские, не только россияне, не только наши соотечественники в странах ближнего и дальнего зарубежья, эмигранты, выходцы из России и их потомки. Это ещё и иностранные граждане, говорящие на русском языке, изучающие или преподающие его, все те, кто искренне интересуется Россией, кого волнует её будущее.

«Russkiy Mir non è soltanto la gente russa, non solo i compatrioti vicini o lontani all’estero, gli emigranti, i rifugiati della Russia e i loro discendenti, ma anche gli stranieri che parlano russo, studiano o insegnano russo, tutti quelli che sono sinceramente interessati alla Russia e al loro futuro»[15].

Come viene ribadito dagli analisti più preparati, l’aspirazione a forgiare un popolo russo ben oltre i confini della Russia stessa, attraverso un’ideologia transnazionale, vede crescere l’ostilità verso il modello occidentale: già nel 2001 il Metropolita di Voronezh e Lipetsk, Methodiy aveva affermato che «la società russa è differente dalle società occidentali»[16], della quale critica il liberalismo e la visione antropologica.

Per quanto il capo della Chiesa ortodossa di Mosca si chiami fuori dalla politica, non c’è dubbio che le parole pronunciate da Kirill nel lontano 2013 suonino oggi come una sorta di avallo spirituale all’azione. Egli ha infatti dichiarato: «le risorse spirituale e i valori ricoperti dalla nostra nazione, dal nostro Paese (..) hanno molte volte segnato la via all’umanità in momenti cruciali della nostra storia (…) Questo è stato il caso fino al presente e dovrebbe essere così per il futuro».[17] Si noti che l’argomento è stato utilizzato anche per giustificare l’aggressione all’Ucraina – altrimenti definita un’operazione militare speciale:

«(…) un’Ucraina pro-occidentale viene dipinta come avente rinunciato alla sua identità di mondo russo abbracciando “valori stranieri”, come il femminismo, i diritti della comunità LGBTQI e negando lo status del russo come quello di una lingua ufficiale. I mass media tradizionalmente pro-Cremlino e i social media spesso usano il termine Gayropa – un mix delle parole “gay” ed “Europa” – per condannare quella che essi percepiscono come la decadenza del mondo occidentale e una minaccia diretta al mondo russo».[18]

 La svolta dall’ideologia alla pretesa totalitaria data il 2014, anno dell’annessione della Crimea alla Russia. Nel famoso discorso del 18 marzo di quell’anno al parlamento, Putin ha rinfocolato il sentimento nazionalista collegato a Russkiy Mir, culminato nella recente aggressione all’Ucraina. Il 24 febbraio scorso Putin ha attaccato lo Stato sovrano dopo aver riconosciuto, con atto parlamentare, l’autonomia delle repubbliche separatiste di quel Donbass (Donetsk e Luhansk) ormai tristemente noto, definito da Putin, alla vigilia del conflitto, come «parte integrante della storia e della cultura russa»[19]. Pur soltanto schizzata in linee macroscopiche, l’ideologia di Russkiy Mir porta alla luce due chiarissime pretese: 1) la preminenza della cultura/società russa classica sul fiacco Occidente e 2) il proposito di estendere i confini ben oltre la Russia, sia per raggrupparne i russi della diaspora e i russi “culturali”, sia per soggiogare, mediante il dominio, un mondo ormai arido, quanto a valori, da ri-colonizzare. Dal 2014 Russkiy Mir ha subito così una precisa torsione da mondo russo a “migliore dei mondi possibili” per il russo Putin, non senza il decisivo supporto della Chiesa Ortodossa.

Lo Stato Islamico e lo svuotamento di Dio

Con le forme storicamente determinate di totalitarismo del Novecento, il fenomeno Isis è parso condividere anzitutto il punto di partenza, quello dell’Ideale ideologico[20] da applicare spasmodicamente alla realtà, riconducibile al presupposto esclusivista del takfīr[21].

 Nel complesso, lo Stato Islamico si è presentato, né più né meno nei termini di un fenomeno totalitario[22] con caratteristiche proprie, in parte riconducibili alle esperienze storiche del Novecento, in parte originali. La sua peculiarità, prima ancora del riferimento al dominio del sacro e del soprannaturale, è l’ambiguo profilo, la condizione di irrisolutezza identitaria, che trae origine dalla precarietà di uno Stato-non Stato, in cui l’enunciazione (l’essere proclamato) prevale nettamente sulla realtà dei fatti, non meno che dall’impossibile statualità di un organismo con aspirazioni universalistiche, rivolto al dominio sul mondo intero.

Ciclicamente il radicalismo islamico ritorna ad affermare le proprie pretese, in una varietà di voci che si possono ridurre a due presupposti, la sunna (o tradizione autentica nel solco del profeta) contro la bida’ (o deviazione rispetto alla sunna) e il tawīd (il principio dell’unicità divina)contro lo shirk (il politeismo)[23].  Il primo tema ispira fortemente il riformista Ibn Abdul Wahhab[24], i cui seguaci si dicono muwahhiddun,– o unitari –, il cui pensiero ispirerà la corrente Wahabita, sulla quale si innesta il terrorismo di Al Qa’ida e l’ideologia del Califfato.

Il passo avanti, nella dottrina dell’odio dei non credenti si è compiuto, nell’interpretazione di Wahhab, mediante il principio dell’apostasia automatica, cioè della meccanica – per così dire – estromissione dall’Islam di un’umanità raggruppabile in dieci categorie. La radicalizzazione del takfīr ha trovato il sostegno, nel Novecento, di due intellettuali come l’egiziano Sayyid Qutb (1906-1966) e del pachistano Sayyd Abul Ala Mawdudi (1903-1979), il fondatore del Jamaat-i-Islami (Partito islamico, 1941) a cui si deve la condanna dell’idea occidentale di democrazia, di secolarismo e di socialismo. Rispetto a Qutb, Mawdudi ebbe una posizione critica, di denuncia, nei confronti dell’uso della violenza e dell’applicazione letterale della shar’ia.

Osama Bin Laden, specialmente da Qutb e dal suo libro Maalim fi al Tariq (Pietre miliari sulla via o Pietre miliari)[25], assunse la convinzione di jāhiliyya globale, a cui non sfuggono «nemmeno i Paesi musulmani, che si lasciano influenzare tanto profondamente dalle idee e dagli usi dell’Occidente miscredente»[26]. Poco importa che dall’università di al-Azhar, il cuore dell’accademia e della teologia islamica in Egitto, si siano alzate confutazioni radicali (Qutb «non aveva nessuna veste per dichiarare usciti dall’Islam degli individui che ne professavano le credenze, e che era inammissibile ricorrere alla nozione coranica di jāhiliyya nel contesto politico del loro tempo»)[27]. 

Non bisogna però generalizzare. Perché, accanto a queste posizioni estremiste si incontrano anche approcci più complessi, nell’indicare nella fede la risposta possibile alla crisi della modernità e dei valori antropologici in senso lato. Il sociologo Fouad Allam ha sostenuto, a ragione, che «il discorso sui testi impedisce di vedere qualcosa di fondamentale, vale a dire gli esseri umani», ma nello stesso tempo è proprio dalla lettura del Corano disincarnata dalla storia e dalla condizione antropologica che si è generato l’odio assoluto dell’Isis verso l’umanità. Il metodo di questo sfacelo procede in parallelo a quella che abbiamo chiamato “logica del sillogismo” apodittico, che consiste nel sezionare il libro sacro dell’Islam secondo il proprio orientamento prospettico, mediante quella che Fouad Allam chiama «la contabilità dei versetti».

Chi odia vi troverà sempre legna da ardere:

«Non è difficile enumerare i versetti che legittimano l’uccisione degli infedeli e quelli che la definiscono come un crimine (…) la contabilità dei versetti non è in grado di penetrare i meccanismi complessi dell’universo quasi schizofrenico in cui oggi è immersa gran parte della gioventù del mondo musulmano»[28].

Un punto di vista condiviso da molti intellettuali di fede islamica, come la scrittrice e giornalista ugandese-canadese Irshat Manji a cui si deve un vigoroso rilancio del valore dell’analisi critica del testo sacro, come parte dell’eredità culturale musulmana. Scrive:

«Lungi dall’essere perfetto, il Corano è tanto contraddittorio da costringere i musulmani osservanti a scegliere tra cosa far risaltare e cosa minimizzare. È forse questa anche la cosa più semplice da fare perché chiunque può trovare fondamento per i propri pregiudizi dando risalto a un verso e ignorandone un altro – cosa comune tanto ai moderati quanto agli integralisti, i primi non meno ansiosi di sottolineare gli aspetti negativi del Corano di quanto i secondi lo siano di trascurare quelli positivi».[29]

In ogni caso, la bussola è sempre la capacità di porsi delle domande. L’autonomia di pensiero di Ibn Taymiyya è suggestiva, proprio perché un rigorista della sua determinazione aveva posto il problema più radicale, al cuore del Corano medesimo:

«Puoi costringere la gente a credere contro la sua volontà? (sura 10,99)».[30]

Perché questo interrogativo è decisivo per capire l’odio dell’Isis?

Molto semplicemente, per la ragione che il non-credente, nelle sue multiformi sfaccettature, è il bersaglio del takfīr, ovvero di quell’accusa di massima empietà che, variamente, nella storia dell’Islam, è stata associata alla condanna capitale. E che, dal 2014 al 2017, è diventato per il Califfato ragione sufficiente e condizione trascendentale, in senso kantiano, per 1) avallare la violenza contro quanti erano fuori dalla casa del Califfato, in cui identificano l’autentica casa dell’Islam e 2) cancellare le diversità culturali, etniche, di fede o di non fede, nella prospettiva di un unico Stato Islamico.

Un approccio, è bene ricordarlo, non soltanto pretestuoso sul piano del ragionamento, ma altrettanto in rapporto alla civiltà islamica, dove la questione di cosa sia la fede (īmān) e cosa si intenda per non credere in Dio (kufr) ha alimentato confronti nei secoli, sull’onda della domanda mā al-īmān, cosa significa avere fede?

In fondo, il male dell’Isis, come di tutte le forme di potere che affermano la verità indiscutibile di un presupposto ideologico risiede nell’incapacità di porsi domande, volgendo il dubbio in sospetto e anestestizzando la mente attraverso la routine della burocrazia.

L’uso spasmodico della logica sillogistica non è soltanto improprio quando si ha a che fare con la complessità della vita. Esso si dà a vedere come un sotto prodotto del pensiero. Partire da un presupposto che si reputa universale – solo chi ha fede in Dio è degno di vivere – questo, in estrema sintesi, il nucleo del takfīr nella sua forma più estremista, svela da subito la propria fragilità. Non è però questo l’aspetto più inquietante della logica totalitaria dell’Isis. Nel procedimento deduttivo il califfo Abu Bakr al-Baghdadi, i suoi gerarchi, i miliziani e quanti ne hanno condiviso l’ideologia, si sono trovati a compiere un passo supremo nell’empietà, in quella stessa empietà che contestano a chi sta fuori dalle “regole” del Da’ish. Hanno finito per collocarsi allo stesso livello di Dio, nel somministrare il giudizio divino con una delega in bianco. Agendo in tal modo, non soltanto ne hanno usurpato – per così dire – le funzioni (il potere, la giustizia, non certo la misericordia). Applicando il paradigma del “migliore dei mondi possibili” alla configurazione politica di uno pseudo-stato ai confini della Siria e dell’Iraq, essi hanno esercitato, in forma assolutamente impropria, quel giudizio divino che, nella prospettiva di fede appartiene di diritto all’Onnipotente.

Qualche riflessione conclusiva

Nella convinzione di dar vita al “migliore dei mondi possibili”, con una pretesa che non poteva essere altro che totalitaria, lo Stato islamico ha applicato un progetto trascendente, implicato a doppio filo alla volontà divina e alla sua libertà, ai tempi finiti, entro la cornice della storia. A farne le spese, al di là della barbarie contro interi gruppi etnici e alla violenza contro persone e cose, è stato Dio stesso. Il Misericordioso (rahman nel Corano) è stato ridotto a un’entità subordinata alle decisioni di soggetti umani, guidati da un vicario auto-proclamatosi.

Su quale base viene fatta la scelta di agire in nome e per conto di Dio? Con ogni evidenza, la cessione di sovranità non può che dipendere dall’idea di un insieme di norme e di un potere di gran lunga preferibile rispetto a quello di cui è capace la società degli uomini.

Il takfīr, nella sua essenza, è stato imposto come “la migliore” delle letture possibili del Corano e persino la violenza estrema, in questa ottica migliorista, appare un’espressione che va oltre il bene, anziché una degenerazione del vivere civile. In una simile prospettiva lo Stato Islamico non ha fatto che portare all’estremo – agendo con presunzione nel nome di Dio – una pulsione rinvenibile nelle fibre di ogni regime totalitario, che non mettendo in discussione il proprio Ideale supremo, gli assegna de facto, il carattere di quanto di meglio possa esserci per un popolo, innescando quel rovesciamento di mondo così tipico del nazismo e dello stalinismo.

Sia nella lettura del fenomeno Ruskyi Mir, sia in quella dell’Isis, siamo in prossimità del perfettismo politico teorizzato da Antonio Rosmini che conduce in modo inquietante alle derive totalitarie, con il loro carico di disumanità e violenza [31]. In quanto «sistema che crede possibile il perfetto nelle cose umane e che sacrifica il bene presente all’immaginata futura perfezione»[32], il perfettismo politico «sfocia inevitabilmente» in quel tipo di regimi e «si esprime nel progetto di rifondazione della politica, finalizzata, dopo la rottura con il vecchio mondo, alla ricostruzione di una realtà integralmente depurata dal male».[33]

In questa cornice ci sembra di poter inserire i fenomeni dell’espansionismo di Putin e del Califfato (2014-2017).  Lo Stato Islamico si è piegato alla tentazione del meglio, ri-creando un mondo a immagine e somiglianza della propria ideologia, assegnandosi il compito che spetta al Creatore soprannaturale, eterno ed onnipotente. Ma Dio un mondo lo ha già creato, se ci poniamo nella prospettiva della fede islamica. Pur con tutti i limiti naturali e delle scelte operate dall’uomo, compreso quello di non credere affatto in Dio, la realtà sociale si presenta già come “la” creatura eletta, sempre se ci poniamo nell’ottica della fede. Ogni prevaricazione, ogni tentativo di forzarla, anche se con l’intento di migliorarla diventa – allora – una presunzione.

Contraddittoria in termini teorici, blasfema in una prospettiva di fede, la pretesa dello Stato Islamico di plasmare un mondo nuovo – migliore e perfetto – si configura come atto d’orgoglio. In questo senso, la tentazione dell’Isis è satanica. Come Iblīs si oppone da principio a Dio, dicendo “no” all’adorazione dell’uomo, «dato che è stato creato da fuoco e l’uomo da fango, scoprendosi infine migliore dell’uomo», il califfo e quanti attivamente si riconoscono nello Stato Islamico non fanno altro, in termini fenomenologici, che duplicarne l’azione. Le conseguenze le descrive con sapienza Ida Zilio-Grandi, nella sua lettura critica dell’originario distacco di Iblīs dalla grazia di Dio: «l’esordio del male è la scoperta del bene (hayr) e del meglio (ancora hayr)». Un atto razionale che segna la fine del rapporto tra Dio e il suo angelo, che «si riempì d’orgoglio e rifiutò l’obbedienza»:

«Nel pensarsi migliori o maggiori viene insinuato il dubbio: la superbia nata con l’uso della ragione applicata a sé stessi apre la via all’alternativa nel giudizio dell’altro e minando la fermezza del loro valore. Mediante la disobbedienza l’angelo si solleva, si gonfia, aumenta in dimensioni, ma imbocca la strada verso il precipizio, perché il fuoco da cui venne creato, tanto migliore del fango della terra da aver provocato il suo rifiuto, è già a mezza via verso l’elemento pessimo, il fuoco infernale. L’irrompere del male corrisponde alla possibilità del rovesciamento, alla comparsa del distinto e dell’opposto».[34]

Più raffinata, ma non meno subdola e pericolosa, l’operazione di Russkiy Mir, presentatasi di primo acchito come manifesto culturale/linguistico, per poi diventare il grimaldello di un ordine geopolitico non più consono alle pretese totalitarie di Putin. Ancora una volta la religione è stata usata intenzionalmente come strumento di questa volontà di potenza, sia pure con modalità ambigua.


[1] Precisa la Foot: «Su un pianeta sterile come Marte non c’è bontà naturale, e anche la bontà secondaria può essere attribuita alle cose su Marte solo in relazione alle nostre vite, o a esseri viventi che esistono altrove», In PAG. Foot, La natura del bene, Bologna, Il Mulino, 2007, pag. 39.

[2] I testi di Leibniz citati in questo articolo sono tratti da: G. W. Leibniz, Scritti filosofici, a cura di Domenico Omero Branca, pag 441, vol. I

[3] «What I know and needs to be said is that this is a crisis self-manufactured solely by Vladimir Putin and the Russian Federation. No recent events, developments, statements or declaration of intentions on the part of Ukraine could have served to trigger the crisis. The Putin regime is the sole maker of this artificial crisis. As such, as Frank Sysyn indicates, we should appropriately call it, “the Russia crisis.” As the following presentations make clear, in examining any potential room for compromise in the Russian-Ukrainian confrontation we need to differentiate four different levels of the conflict». In J. Casanova, J. Casanova, One Military Crisis, Four Underlying (Constructed) Conflicts, February, 14, https://www.resetdoc.org/story/one-military-crisis-four-underlying-constructed-conflicts/

[4] Le parole di Andrei Kolesnikov hanno un sapore profetico e sinistro al contempo: «It is almost impossible for a researcher to predict at what point the regime will shift from mythological thinking to a pragmatically formulated vision of the future». In A. Kolesnikov, “Russian Ideology after Crimea”, Carnegie Moscow Center, September 2015, pag. 21.

[5] J. Casanova, One Military Crisis, Four Underlying (Constructed) Conflicts, February, 14, https://www.resetdoc.org/story/one-military-crisis-four-underlying-constructed-conflicts/

[6] M. Pieper, “Russkiy Mir: The Geopolitics of Russian Compatriots Abroad”, articolo non pubblicato e scaricato da Academia.it; disponibile su usir.salford.ac.uk

[7] M. Wawrzonek, “ ‘Russkiy Mir’: A Conceptual Model of the ‘Ortodox Civilization’”, in AA VV. Ortodoxy Versus Post-Communism? Belarus, Serbia, Ukraine and the Russkiy Mir, Cambridge Scholars Publishing, 2016. Scaricato da Academia.edu, pag. 38.

[8] È stata fondata il 15 dicembre 2018 con un “concilio di riunificazione” tra la Chiesa ortodossa ucraina – Patriarcato di Kiev e la Chiesa ortodossa autocefala ucraina, con l’autorizzazione del Patriarcato ecumenico di Costantinopoli, che ha riconosciuto alla nuova Chiesa l’autocefalia. Da Wikipedia, https://it.wikipedia.org/wiki/Chiesa_ortodossa_dell%27Ucraina

[9] A. Babynskyi, ‘Russkiy Mir’ – The ‘Russian world’ meets Ukrainian politics and Vatican diplomacy, March, 3, 2022; https://www.pillarcatholic.com/p/russkiy-mir-the-russian-world-meets?s=r

[10] «Patriarch Kirill has provided spiritual cover for the invasion of Ukraine, reaping vast resources for his church in return. Now, in an extraordinary step, the E.U. is threatening him with sanctions». J. Horowitz, The Russian Orthodox Leader at the Core of Putin’s Ambitions, 22 maggio 2022, https://www.nytimes.com/2022/05/21/world/europe/kirill-putin-russian-orthodox-church.html

[11] Ibidem.

[12] M. Kozdra, “The Boundaries of Russian Identity: Analysis of the Russkiy Mir concept in contemporary Russian Online Media”, in Lingua Cultura, 12(1), February 2018, pag. 64.

[13] Ibidem.

[14] «Command of the Russian language and knowledge of Russian literature and culture are determinants of membership of Russkiy Mir (…) Its members are obliged to be loyal towards their mother country, show interest in Russian issue and a bond with Russia (…) A sense of unity is an important component».

[15] Ibidem.

[16] M. Wawrzonek, “ ‘Russkiy Mir’: A Conceptual Model of the ‘Ortodox Civilization’”, pag. 41.

[17] La citazione è tratta dal saggio di Wawrzonek citato, a pag. 42. In inglese: «spiritual resources and values vested in our nation, our country (…) have many times marked the way for humanity in the crucial moments of our history (…) This has been the case till present, and ought to be so in the future». Il discorso di Kirill è tratto da http://www.vrns.ru/news/2237/#.UvTqQvl5NIE

[18] «(…) a pro-Western Ukraine is painted as renouncing its Russian World identity by embracing “foreign values” such as feminism, rights for the LGBTQI community, and denying Russian status as an official language. Pro-Kremlin traditional and social media also often use the term “Гейропа” (Gayropa, a mix of the words Gay and Europe) to condemn what they perceive as the decadence of the Western world and a direct threat to the Russian World». F. Noubel, What does “Russian World” stand for in Putin’s statements about Ukraine? Ancient history is instrumentalized to justify a military invasion, February, 26;https://globalvoices.org/2022/02/26/what-does-russian-world-stand-for-in-putins-statements-about-ukraine/

[19] L. Aprati, “Donetsk e Luhansk: le due repubbliche separatiste del Donbass che Putin ha riconosciuto”, 21 febbraio 2022, rainews.it

[20] M. Recalcati (a cura di), Forme contemporanee di totalitarismo, Bollati Boringhieri, Torino, 2007, pag. 7.

[21] P. Fisogni, Cartoline dall’Inferno. Fenomenologia del male nello Stato Islamico, Lucca, Tralerighe libri, 2017.

[22] A parte qualche cenno in saggi o reportage sulla «visione totalitaria» dello Stato Islamico – come ad esempio in M. Molinari, Jihad. Guerra all’Occidente, Milano, Rizzoli, 2015, pag. 17 – non esiste ancora uno studio sistematico sul regime di Abu Bakhr al-Baghdadi.

[23] Ibidem, pag. 216.

[24] Muhammad Ibn Abdul Wahhab (1703-1792), riformatore, giurista, rilanciò e approfondì la dottrina di Ibn Taymiyya.

[25] Sulla vita e le opere dell’ideologo egiziano: P. Manduchi, Questo mondo non è un luogo per ricompense. Vita e opere di Sayyid Qutb, martire dei Fratelli Musulmani, Roma, Aracne, 2009. 

[26] R. Du Pasquier, Il risveglio dell’Islam, Cinisello Balsamo, Paoline, 1990, pag. 80.

[27] Con il termine jāhiliyya si intende l’ignoranza che precedette la rivelazione coranica.

[28] K. Fouad Allam, “Jihad. Religione e politica del martirio”, in “Jihad. Religione e politica del martirio”, in Il martirio, “Il divino dell’Islam tra rappresentazione ed evocazione”, in L’immagine del divino. Nelle tradizioni cristiane e nelle grandi religioni, a cura di P. Coda e L. Gavazzi,  Milano, Mondadori, 2005, pag. 129-151.

[29] I. Manji, Quando abbiamo smesso di pensare. Un’islamica di fronte ai problemi dell’Islam, Parma, Guanda, 2004, pag. 44-45.

[30] R. Arslan, Non c’è Dio al di fuori di Dio. Perché non capiamo l’Islam, opag. cit., pag. 121.

[31] M. Gnocchini, “Augusto del Noce: il mito dell’autoredenzione umana come origine del male totalitario”, in R. Gatti, Il male politico. La riflessione sul totalitarismo nella filosofia del Novecento, Roma, Città Nuova, 2000.

[32] A. Rosmini, Filosofia della politica, Milano, Rusconi, 1985, pag. 137.

[33] M. Gnocchini, opag. cit., pag 246.

[34]I. Zilio-Grandi, Il Corano e il male, Torino, Einaudi, 2002, pag. 7.

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