di Eleonora Bascherini
L’idea di un Brasile felice pervade l’immaginario collettivo. Siamo tempestati da immagini e canzoni che ritraggono il Paese come un luogo dove anche la sofferenza e la miseria sono vissute alla luce di una positività e di una gioia di vivere quasi sfrenate: l’allegria del carnevale, i suoni della Bossa Nova e del samba, i colori squillanti della sua natura tropicale. E, in parte, possiamo forse affermare che è così. In effetti qua la gente emana un’energia che non ha eguali, una forza di spirito che li mantiene vivi, tenacemente attaccati alla speranza. Ma ridurre un Paese delle dimensioni del Brasile, con una storia così complessa fatta di fusione tra culture differenti e lontane tra loro, ad una descrizione tanto semplicistica è sicuramente sbagliato. Significa conoscerlo solo superficialmente.
Il mostro, in Brasile, si nasconde in una regione così poco conosciuta e così lontana dalle tradizionali mete turistiche che non arriva ad aver eco nei paesi del primo mondo: è il nord-est, il sertão brasileiro, quella zona chiamata, anche da un punto di vista giuridico, il Poligono della Siccità.
Nel lontano 1947 il cantante pernambucano Luiz Gonzaga, impugnata la sua fisarmonica, cantava le avventure di un giovane nordestino costretto ad abbandonare la sua terra natale, fatta di arsura e povertà: in cerca di una nuova speranza, lasciava indietro la donna amata e i ricordi di una vita. Nelle sue parole la disperata domanda rivolta direttamente a Dio: “Por que tamanha judiação?”. “Perché tanta voglia di farci soffrire?” (il termine judiação porta con sé, insita nella radice stessa della parola, la sofferenza del popolo giudaico).
Quella del protagonista di questa canzone è la storia di tante persone, di un popolo intero. Si riferisce ad un fenomeno di migrazione interna che interessava (e, anche se con dinamiche differenti, interessa ancora) quella zona del Brasile dove la natura rigogliosa lascia il posto alla caatinga, un’area di bio-diversità unica al mondo, che nell’antica lingua indigena era chiamata “foresta bianca”. Nella caatinga prevale il color grigio: immense distese di arbusti bruciati dal sole, cieli sconfinati di un azzurro intenso e monotono, un terreno che ha ormai perso la sua capacita di produrre, spaccato in zolle dure come pietra. Non c’è speranza di sopravvivenza per gli abitanti di questo posto inospitale. Non resta che andarsene. Partire con una saccoccia sulle spalle in direzione delle grandi città costiere.
Ecco che prende forma il fenomeno dei retirantes, orde umane di disperati in fuga dalla miseria. Il tema è vasto e ha toccato l’anima di cantanti, letterati e artisti di tutte le epoche. Esistono innumerevoli generi musicali che hanno tratto spunto da questa tematica, così come un intero filone della letteratura brasiliana. L’immagine di questi pezzenti rimase impressa anche nella mente di un giovane artista, forse il più famoso e riconosciuto pittore brasiliano: Candido Portinari. Figlio di immigrati italiani di umile origine, nacque in una fazenda di caffè dell’entroterra dello Stato di São Paulo. Egli stesso ha, in più occasioni, raccontato la sensazione di shock che lo colpì da bambino alla vista dei retirantes che passarono nella sua città soprattutto nel 1915, anno della grande siccità. Vestiti di stracci, con le pelli bruciate dal sole e sul volto stampati i patimenti di quel lungo viaggio, quegli uomini erano i sopravvissuti al dramma. Tanti erano quelli rimasti indietro, sconfitti dal destino.
Nel 1944 Portinari decise di tradurre in pittura quelle visioni che lo ossessionavano fin dall’infanzia. Nasce così la serie di tre tele dedicate al tema. L’impegno sociale di denuncia è evidente. D’altronde Portinari guardava con ammirazione al Picasso di Guernica così come ai grandi affreschi dei muralisti messicani. Il suo credo politico, inoltre, non è mai stato un mistero per nessuno, arrivando a candidarsi come deputato del Partito Comunista nel 1945.
Nella prima delle tre tele, quella intitolata Retirantes, il pittore ritrae una famiglia in viaggio attraverso il deserto utilizzando colori terrosi e scuri che danno un tono pesante a tutta l’opera. Non c’è un briciolo di allegria né di speranza. È sparito anche l’ultimo barlume di umanità. Le figure sono nodosi scheletri con gli sguardi persi nel vuoto, zombi che avanzano privati dell’anima e della dignità. Se non ci fosse un’incongruenza nelle date, ci verrebbe voglia di dire che Portinari, per i suoi personaggi, ha guardato ai deportati nei campi di concentramento nazisti. Ma alla fin fine il tema di fondo è lo stesso e la sofferenza si trasforma in qualcosa di mostruoso e universale allo stesso tempo. La natura concorre con l’uomo nella dura lotta alla sopravvivenza. Nel cielo plumbeo roteano orde di avvoltoi pronti ad attaccare. Non può non venirci in mente la foto che nel 1993 sconvolse il mondo, in cui il fotografo sudafricano Kevin Carter, in un documentario sulle condizioni di povertà della popolazione del Sudan, immortalava la scena di un avvoltoio in attesa che un bambino in fin di vita spirasse l’ultimo respiro. La foto valse a Carter il premio Pulitzer ma anche un disagio interiore profondo senza via di uscita che lo condusse, di lì a poco, al suicidio. È un mondo senza pietà, che schiaccia tutti, che arriva a spazzar via la coscienza dell’individuo. Non si tratta più di essere umani ma di cadaveri completamente svuotati di valori. Nel libro Vidas secas dello scrittore nordestino Graciliano Ramos, il padre pensa per un attimo di abbandonare seriamente il figlio che, stremato, si rifiuta di avanzare attraverso il desolato scenario di arbusti spinosi e fango. Un ultimo sussulto di coscienza lo fa rinunciare al proposito. Sorge spontanea una domanda: “È questo un uomo?”. Lo stesso interrogativo se lo poneva Primo Levi che ormai vedeva il mostro ovunque: nel soldato nazista, che senza pietà sprezzava la vita umana, ma anche nel prigioniero, che coglieva nella morte del compagno una possibilità in più di sopravvivenza. Sappiamo molto bene come si è conclusa la parabola umana dello scrittore torinese.
Se nella prima tela pervade un tono di rassegnazione, nella seconda, intitolata Criança morta (Bambino morto), trionfa la disperazione, l’impatto della tragedia che non si è potuta evitare. La morte per stenti del bambino più piccolo sopraggiunge a sconvolgere l’intero nucleo famigliare: al centro la madre tiene stretto tra le braccia il figlio morto, mentre dure lacrime di pietra sgorgano dagli occhi degli altri. Il richiamo evidente è alle Pietà nordiche del XIV secolo, tema iconografico poi reso noto da Michelangelo. Ma Portinari non si rifà alle morbidezze dell’artista toscano; preferisce le linee dure dell’espressionismo tedesco così come i tratti taglienti presenti in Guernica. In questo modo, il tema della Pietà regredisce, perde la sublimazione michelangiolesca, per tornare ad essere la rappresentazione pura del dolore. I volti sono deformati, la sofferenza è palpabile.
Un grido di dolore si innalza anche dall’ultima pittura, Enterro na rede (che potremmo tradurre con Sepoltura nel sudario), dove il gesto disperato della vedova in primo piano ricorda molto la figura della Maddalena con le braccia alzate al cielo nella Crocifissione di Masaccio, oggi nel Museo di Capodimonte a Napoli. L’espediente dei piedi sudici in primo piano aiuta lo spettatore ad entrare nel quadro, a sentirsi partecipe della vicenda: lo stesso contatto diretto che già Caravaggio aveva cercato nella sua Madonna dei Pellegrini, dove umili popolani “co’ piedi fangosi” venerano la Vergine e il Bambino. Qui c’è molto anche della lezione di Diego Rivera e dei muralisti messicani in generale: dai tratti sicuri e severi all’impegno politico. D’altronde i referenti culturali erano gli stessi. Portinari fece parte di un movimento artistico chiamato Modernismo brasiliano, in cui gli artisti del Paese si confrontarono, per la prima volta nel 1922, con la realtà delle avanguardie europee, coniugandole a motivi brasiliani. Dentro la stessa classe di intenti presero forma percorsi differenti: chi guardava ai colori della realtà locale, chi ai temi di importanza sociale. In tutte le sue tele Portinari non scinde mai la ricerca estetica (che guarda ai grandi esempi del XX secolo ma lancia un’occhiata anche ai maestri indiscussi del passato) dalla denuncia: nelle sue tele è sempre ritratto un Brasile crudo, la storia difficile del suo popolo guerriero.
Il sertão brasileiro coi suoi abitanti disperati, in continua lotto per la sopravvivenza, obbligati a scegliere tra la fuga e la delinquenza (altro personaggio fondamentale della cultura nordestina è quello del cangaceiro, il bandito rivoluzionario) è allora emblema dell’incubo, della mostruosità che terrorizza l’umanità e, allo stesso tempo, è la rappresentazione della forza della natura, contro cui l’uomo nulla può.
Bibliografia
I.PEDROSA, P.ROSSINETTI RUFINONI, Candido Portinari, Coleção Folha Grandes Pintores Brasileiros, Empresa Folha da Manhã, São Paulo, 2013
G.RAMOS, Vidas secas, Record Editora, São Paulo, 2003