di Federica Biolzi
L’espansione del ruolo del giudiziario in Italia, come in tutte le società democratiche, negli ultimi decenni ha reso ancor più centrale il tema dell’informazione sui fatti di giustizia. Il magistrato si trova così a garantire imparzialità e dovere d’informare. Un equilibrio non sempre facile da mantenere se teniamo conto delle vicende più o meno recenti.
– Dottor Bruti Liberati, nel suo interessante e attualissimo saggio Delitti in prima pagina edito di recente dall’editore Cortina, lei si propone di focalizzare il rapporto tra stampa e sistema giudiziario. I temi di una stampa corretta e di una giustizia giusta si sono variamente incrociati nella storia non solo recente. Perché è importante comprendere questo rapporto?
– Racconto dei delitti e della cronaca dei processi che percorrono da due millenni e mezzo la storia dell’umanità con i diversi mezzi di comunicazione che si sono succeduti. Taluno dei più antichi ha mostrato particolare longevità come i racconti dei cantastorie nelle piazze e nei mercati, diffusi in Italia fino agli anni sessanta del Novecento.
Profonde innovazioni negli ultimi due secoli vi sono state nel mondo dell’informazione come in quello della giustizia. La cronaca di delitti e processi la troviamo dapprima con la “cronaca nera” sulla carta stampata, ma nella evoluzione delle tecnologie su trasmissioni radio, riprese cinematografiche e poi televisive e infine nei social media.
L’espansione del ruolo del giudiziario in Italia, come in tutte le società democratiche, negli ultimi decenni ha reso ancor più centrale il tema dell’informazione sui fatti di giustizia.
Uno sguardo retrospettivo su questa evoluzione mostra come molte “straordinarie novità” non siano poi così “novità”, ma piuttosto la prospettazione in modi nuovi di temi risalenti.
La ricerca dell’informazione corretta è come il perseguimento della giustizia giusta. Attori dell’informazione e della giustizia sono (e devono essere) guidati e assistiti, nell’esercizio dei rispettivi poteri, da rispetto delle regole, professionalità e deontologia. Ma qui finiscono le analogie.
Il giudice è (deve essere) imparziale. Il quarto potere non è (non deve essere) imparziale e sappiamo quanto sia difficile tracciare nella pratica il confine tra fatti e opinioni. Il pluralismo assume un rilevo centrale per il sistema dell’informazione, che è gestito da imprese che hanno interessi economici, politici, ideologici. Se nel sistema di giustizia neppure il riesame assicurato dai diversi gradi di giudizio può aspirare ad essere garanzia assoluta di “Verità”, di “giustizia giusta”, lo squilibrio nelle concentrazioni dei mezzi di comunicazione mette in crisi il pluralismo dell’informazione.
Il sistema della giustizia è però “costretto” – pena la crisi della convivenza civile – a porre fine alle controversie con una sentenza definitiva, quello che tecnicamente si chiama “il giudicato”, una verità convenzionale, la quale, secondo il detto latino, facit de nigro album. Quando l’informazione, per parte sua, pretende di comunicare la “Verità”, il risultato, lo conosciamo, è la “Pravda”. La verità dell’informazione può risultare solo dal confronto delle “parzialità”.
La stampa rivendica il diritto di cronaca e di critica sulla giustizia, il terzo potere. Ma anche la stampa è un potere, il quarto potere reso sempre più pervasivo dai nuovi media, dalla radio alla televisione a internet e ai social media.
In molti paesi hanno assunto un ruolo di primo piano, tra le Autorità Amministrative indipendenti, quelle poste a garanzia della comunicazione, nella consapevolezza che il mercato non può essere l’unico regolatore del sistema dell’informazione. Ce lo ricorda il film di Orson Welles “Citizen Kane”, nella versione italiana con il titolo “Quarto potere”, che ha sullo sfondo la manipolazione del consenso da parte della stampa.
Oltre alla tutela del pluralismo sarà sempre più spesso oggetto di attenzione il rispetto della dignità della persona.
– Una concreta accelerazione in questa relazione si è avuta con l’avvento della televisione. Lei cita un caso che mi è parso significativo: quello dell’interrogazione parlamentare dell’allora onorevole della DC, Tozzi Condivi, a proposito dell’autorizzazione delle telecamere al processo tenuto a un Ascoli Piceno nel 1969 e relativo ad uno scaldalo per la sofisticazione di vini. L’allora Ministro Gava rispose all’interrogazione auspicando una regolamentazione della materia della presenza della TV. Da allora cosa è avvenuto? E perché?
-Il nuovo codice di procedura penale del 1989 , con l’art. 147 delle Disposizioni di attuazione, per la prima volta disciplina le riprese delle udienze penali, distinguendo: a) processi ordinari, nei quali per le riprese televisive è necessario il consenso delle parti; b) processi in cui vi è un “interesse sociale particolarmente rilevante alla conoscenza del dibattimento” nei quali il giudice può autorizzare le riprese anche se non vi è il consenso delle parti, che peraltro è sempre necessario per la ripresa delle immagini delle persone; c) processi che si svolgono a porte chiuse nei quali, ovviamente, le riprese non sono mai ammesse.
Spetta al giudice il bilanciamento dei valori in gioco: diritto di cronaca e “sereno e regolare svolgimento del processo”, che comprende anche la tutela della dignità della persona. Vi è una tendenza restrittiva, motivata dal rischio di condizionamento psicologico di testimoni, giudici popolari delle Corti di Assise, periti, consulenti tecnici, parti private. Si va dal divieto assoluto, alla limitazione alla sole riprese fotografiche o radiofoniche, con esclusione della Tv, ovvero a riprese Tv, ma con limiti di spazio e di tempi (solo le fasi iniziali e finali del dibattimento, diffusione delle riprese Tv in differita e non in diretta). Ma è prevalente una interpretazione piuttosto ampia del concetto di “interesse sociale particolarmente rilevante alla conoscenza del dibattimento”.
La televisione ci ha permesso di assistere ad un processo rimanendo comodamente seduti nel soggiorno di casa, ma la televisione ha talora preteso di appropriarsi del processo, facendolo svolgere nel salotto dei talk show. Dalla televisione nel processo al processo in televisione è la tappa successiva.
Il processo mediatico, anche se allora non si chiamava così, non è una novità, gli schieramenti di colpevolisti e innocentisti ieri ci sono da sempre, ma con il genere tv-verità e i talk show il passaggio è al vero e proprio processo parallelo con progressivo slittamento nel genere infotainment, dove la commistione tra informazione e trattenimento è totale e inestricabile.
La spettacolarizzazione mette in crisi la logica del processo, lo spazio, il tempo, le regole e le garanzie della procedura.
– A proposito del rapporto tra segreto e informazione nel processo penale, lei ci offre spunti di riflessione molto interessanti come, ad esempio, quelli relativi al nodo della privacy, alle fughe di notizie o alla pubblicazione di atti non più coperti da segreto istruttorio. Come riassumere lo stato attuale del dibattito, non solo italiano, intorno a questi punti nevralgici del rapporto tra informazione e giustizia?
-Dalla pubblicità dei processi come garanzia contro gli abusi (Cesare Beccaria “Pubblici siano i giudizi e pubbliche le prove del reato”) e come controllo sull’esercizio della giustizia (Jeremy Bentham “La pubblicità è l’essenza della giustizia […] Pone il giudice stesso, mentre giudica, sotto giudizio. […] Dove non c’è pubblicità non c’è giustizia”), il passo ulteriore è sulla pubblicità/informazione in ordine al complessivo funzionamento del sistema di giustizia, nel civile e non solo nel penale, come fattore di fiducia nei confronti delle istituzioni democratiche (Alexander Hamilton “L’ordinaria amministrazione della giustizia penale e civile. E’, fra tutte la più potente, universale e coinvolgente fonte di obbedienza e reverenza. Ciò […] contribuisce più di ogni altra circostanza ad indurre nella coscienza del popolo affezione, stima e reverenza nei confronti delle istituzioni”).
Se la storia della evoluzione democratica del processo penale è quella della lotta contro il segreto in favore della pubblicità, tuttavia nel processo penale vi è sempre una fase iniziale di indagini segrete. La libertà della informazione e della critica sulle indagini e sul processo deve comunque misurarsi con altri valori non meno rilevanti quali la presunzione di innocenza, la tutela della dignità della persona e della privacy e la garanzia del regolare svolgimento del processo. Sono i temi al centro di diverse pronunzie della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e della nostra Corte Costituzionale, che pongono i principi con cui devono misurarsi le norme processuali e la pratica della comunicazione.
La conoscenza dell’operare del complessivo sistema giudiziario e la comprensibilità delle decisioni contribuiscono in un sistema democratico ad indurre fiducia nell’ istituzione giustizia. L’insegnamento che ci propone Hamilton è tanto più di attualità oggi quando la giustizia è spesso chiamata ad intervenire su problemi complessi e controversi (pensiamo solo alla tutela dei nuovi diritti, alla bioetica, al fine vita) e le singole decisioni sono oggetto di un vivo dibattito.
Nella società dell’informazione la giustizia non può sfuggire al dovere di comunicare e i giudici devono confrontarsi con le critiche che vengono mosse alle loro decisioni.
“I giudici, che fanno parte della società che servono, non possono rendere giustizia in modo efficace senza godere della fiducia del pubblico” ci ricorda una Raccomandazione del 2010 del Consiglio d’Europa.
Fiducia nella istituzione giustizia, che i giudici debbono adoperarsi per promuovere, è concetto ben diverso dalla ricerca del consenso dell’opinione pubblica su singole decisioni o indagini
La vicenda di Mani Pulite ci insegna che una cosa è l’apprezzamento dell’opinione pubblica per l’azione dei magistrati e altro è il tifo da stadio o il sostegno acritico, che alla giustizia fa ancora più male, se possibile, degli attacchi denigratori e delegittimanti.
La magistratura esercita un potere, che a garanzia dei diritti e delle libertà si è voluto sia indipendente e quindi non conosce le forme tradizionali di responsabilità. Questo potere di giudicare, da sempre “si terrible parmi les hommes”( Montesquieu), dalla fine del Novecento ha assunto un sempre maggiore rilievo nelle società democratiche, percorse da diversi fattori di crisi.
Tanto più oggi è necessario che l’opinione pubblica, informata attraverso il “quarto potere”, possa esercitare il suo controllo critico sul “terzo potere”.
Nonostante tutte le cadute e le possibili deviazioni e strumentalizzazioni di un’informazione, guidata dalla logica del profitto e talora asservita a potentati economici o politici, la libera stampa è garanzia di libertà e di giustizia.
– Uno dei simboli della giustizia è la bilancia. L’equilibrio sembrerebbe essere ancora una volta la via di uscita per tenere insieme i due temi intorno ai quali ruota il suo saggio. Secondo lei sarà possibile raggiungere questo equilibro e a quali condizioni?
-La pubblicità dei processi è garanzia contro gli abusi e consente il controllo sull’esercizio di un potere; l’informazione più in generale sul funzionamento del sistema di giustizia contribuisce a fondare la fiducia nei confronti delle istituzioni democratiche. I principi che abbiamo già richiamato fondano nella pratica il dovere di comunicare da parte della giustizia, che si propone in tre diverse specifiche modalità. Vi è un dovere di comunicazione istituzionale da parte degli organi posti al vertice del sistema giudiziario. Vi è un dovere di comunicare da parte dei singoli soggetti che rendono giustizia con la comprensibilità delle decisioni. E vi è, per quanto a prima vista possa apparire paradossale, uno specifico dovere di comunicare che chiama in causa il pubblico ministero nella fase segreta del procedimento.
Alle istituzioni giudiziarie si richiede trasparenza e comunicazione efficace: i magistrati devono apprenderla. La regola tradizionale che diceva “i magistrati parlano solo con le sentenze” non regge più. La capacità di comunicare non si improvvisa. Vittorio Lingiardi ci ricorda: “Viviamo in un mondo dominato dall’imperativo della comunicazione, ma abbiamo perso la capacità di comunicare”. La formazione dei magistrati alla comunicazione è entrata nell’offerta formativa del Csm e della Scuola Superiore della Magistratura, ma non è ancora oggetto di un impegno sistematico. Tutti i magistrati dovrebbero ricevere sin dal tirocinio iniziale una formazione al linguaggio giudiziario e alla comunicazione. Con il linguaggio giudiziario i magistrati si confrontano nella pratica quotidiana; con il dovere di comunicare si confrontano nelle situazioni più disparate e in mancanza di una adeguata formazione è facile che, soprattutto in situazioni di crisi e sotto l’urgenza degli accadimenti, finiscano per fornire una cattiva informazione foriera di fraintendimenti.
In prima linea nel rapporto con i media è ineluttabilmente l’ufficio del Pubblico Ministero.
La, alquanto tardiva, attuazione nel nostro ordinamento della Direttiva dell’Unione Europea del 2016 “Sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali” è stata l’occasione per un approfondimento su un principio già previsto nella nostra Costituzione all’art. 27 “L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”.
Il dibattito sulla attuazione della Direttiva Ue, nell’opinione pubblica e in Parlamento in larga misura si è concentrato sulla comunicazione delle Procure in ordine alle indagini in corso.
La presunzione di innocenza trova la sua prima tutela nelle norme del processo sulle garanzie del diritto di difesa. La pretesa di intervenire sul terreno della comunicazione con normative apparentemente stringenti si rivela insieme vana e potenzialmente lesiva degli altrettanto rilevanti valori dell’informazione, della cronaca e della critica.
L’ attuazione della direttiva europea ha assunto un grande rilievo come richiamo di un principio spesso dimenticato quando non apertamente contraddetto nella prassi della comunicazione. Al di là delle singole disposizioni adottate rimane essenziale l’assunzione di responsabilità e la deontologia degli operatori di giustizia e degli operatori dell’informazione.
Il dovere di comunicare si deve raffrontare con le regole del processo e con le più specifiche disposizioni a tutela della presunzione di innocenza. Nelle undici pagine che la Direttiva UE occupa nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea non compare neppure una volta il riferimento al rispetto della “dignità della persona”; altrettanto nella nostra normativa di attuazione della direttiva.
Eppure, appena l’orizzonte si allarghi oltre le norme del processo, è fondamentale il riferimento al rispetto della dignità della persona sottoposta ad indagini e processo ed anche definitivamente condannata, quale che sia la colpa di cui si è macchiata. Infatti l’esecuzione delle pene detentive nei confronti dei condannati definitivi la nostra Costituzione vuole sia attuata nel rispetto della persona e miri al reinserimento nella società.
Il cardinale Carlo Maria Martini, lo ha ricordato in uno scritto recente Marta Cartabia,“inizia la sua attività pastorale come arcivescovo di Milano scegliendo come luogo di elezione proprio il carcere di San Vittore” e nella sua successiva riflessione ritorna più volte sulla dignità della persona: “L’errore e il crimine […] indeboliscono e deturpano la personalità dell’individuo, ma non la negano, non la distruggono, non la declassano al regno animale, inferiore all’umano. Perciò le leggi […] hanno senso se operano in funzione dell’affermazione, dello sviluppo e del recupero della dignità di ogni persona.[…]Il mio giudizio non potrà mai toccare o svelare l’intimo dell’altro e devo sempre esprimergli una riserva di innocenza, di buona coscienza”.
Edmondo Bruti Liberati
Delitti in prima pagina
La giustizia nella società dell’informazione
Raffaello Cortina Editore, 2022