EXAGERE RIVISTA - Ottobre - Novembre - Dicembre 2024, n. 10-11-12 anno IX - ISSN 2531-7334

Psicoretorica: farsi carico del proprio interlocutore

di Federica Biolzi

La psicoretorica appare un tema interessante e di forte attualità. Viviamo tuttavia in  un mondo in cui, almeno in apparenza, non si pone molta cura nell’argomentare e ci si affida, spesso, a slogan. Forse, proprio per questo, i meccanismi che regolano il rapporto tra il dire ed il pensiero sono e permangono affascinati.

Professoressa Macchi, lei ha dedicato un originale e significativo volume alla psicoretorica . Ci aiuti a capire meglio di cosa si tratta.

-La psicoretorica, un neologismo di Giuseppe Mosconi, eredita dall’arte del persuadere attraverso il discorso le intuizioni sull’intima connessione fra pensiero e linguaggio, focalizzandosi al tempo stesso sulle regole della comunicazione e sul funzionamento del pensiero. Il libro illustra il ruolo giocato dalla dimensione retorica e dai meccanismi della comunicazione nella psicologia del pensiero e della decisione, allargando la trattazione a molti ambiti della nostra vita quotidiana (in particolare, un tema importante riguarda la comunicazione pubblica).

La retorica, tratto costitutivo della nostra cultura umanistica, non gode di buona fama nell’opinione comune. Richiama un’idea di verbosità, di un parlare “ricercato”, ma vuoto, teso a ottenere un effetto sull’uditorio, di cui cerca l’adesione. Si caratterizza come arte della persuasione, che sfrutta elementi irrazionali e strategie a fini di propaganda o comunque con l’obiettivo di influenzare l’uditorio, invece di argomentare su dati e fatti verificabili.

Ma la retorica è stata anche, fin dall’antichità, il primo tentativo di riflessione sistematica sul linguaggio, principalmente parlato; tentativo fondato su regole e principi comuni, con il fine di produrre un discorso comprensibile e adeguatamente espressivo per un uditorio, in una parola: efficace. Ed è proprio a partire dall’ intento persuasivo e dalla centrazione, dal suo focus sull’uditorio che la retorica ha avuto come oggetto d’indagine le condizioni e i modi della produzione di discorsi, atti ad essere accolti dall’ascoltatore. Studiando quindi il discorso in funzione del destinatario (anche al di là delle specificità di un particolare uditorio), ha considerato implicitamente i meccanismi psicologici generali che ne determinano appunto l’accettabilità. In tal senso si può dire che la retorica abbia studiato il discorso secondo un’antesignana prospettiva psicologica. Mi riferisco per esempio al fatto che un discorso sia sempre orientato ad un fine, parta da presupposizioni implicite (perlopiù condivise con l’interlocutore), non abbia quindi la necessità di dire tutto esplicitamente, ma solo ciò che deve essere detto affinché il discorso risulti efficace. L’ascoltatore è assunto in questa prospettiva come punto di riferimento, nella consapevolezza che dipende da lui da dove comincia il discorso, come si svolge e talvolta anche dove finisce.

La retorica può essere in tal senso considerata come una plurisecolare riflessione sull’argomentare, sull’articolazione dei piani del discorso, sul suo spessore, sulla tessitura interpretativa fra piano esplicito e implicito e, indirettamente anche una riflessione sul funzionamento del pensiero. La comprensione di un discorso persuasivo e dello strutturarsi dei pensieri e delle loro relazioni richiede la rappresentazione e ricostruzione del processo implicito a cui rimanda il discorso esplicito. E questo vale in generale per ogni tipo di discorso. L’accettabilità di un discorso in generale si fonda proprio sull’intervento (per lo più non avvertito criticamente dall’ascoltatore) del piano implicito della comunicazione e del complesso intreccio tra le conoscenze pregresse (le presupposizioni) e la rappresentazione delle intenzioni del parlante e dell’ascoltatore.

Lei indica il Problem solving come l’oggetto di indagine privilegiato della psicoretorica. A volte, in effetti, non riusciamo con il nostro pensiero a venir fuori da situazioni, si crea una situazione di stallo. Poi, improvvisamente, si può accendere un sorta di lampadina. Quali sono i meccanismi che ci permettono questo salto?

In effetti, l’approccio psicoretorico allo studio sul pensiero ha fatto dello studio del problem solving il suo oggetto di indagine privilegiato, in quanto area in cui il gioco comunicativo è in atto, avrebbe detto Mosconi, sia nel “farsi” che nel “disfarsi” del problema stesso.

La sfida che questo tipo di problemi pone consiste nel fatto che si tratta di un processo rivelatore di un modo generale di funzionare della nostra mente, in grado di spiegare al contempo, a nostro avviso, perché cadiamo in errore o in impasse e come riusciamo ad uscirne.

Il meccanismo generale individuato, che emerge dalle evidenze sperimentali che sono riportate nel libro, è la funzione interpretativa del pensiero, ovvero la tendenza ineliminabile a cercare relazioni fra i dati, percettivi o linguistici che siano, alla incessante ricerca di attribuzione di senso (in funzione adattativa), sfruttando inevitabilmente a tale scopo oltre al pensiero esplicito, cosciente, anche il piano implicito, sommerso. Unicamente quest’ultimo può funzionare in parallelo, avviare una ricerca simultanea in più direzioni, sempre guidata da una ricerca di pertinenza e rilevanza. E solo questo modo di funzionare può consentirci di andare oltre ciò che blocca un processo solutorio che necessita di una ristrutturazione, di un cambio di prospettiva. La concezione di pensiero inconscio che ne emerge è di un pensiero sempre orientato a un fine, conoscitivo o di sopravvivenza che sia, ma comunque adattativo. Ben distante dall’idea tradizionale del pensiero intuitivo, inconscio, “pigro”, caratterizzato da un andamento associativo e casuale, che non richiede sforzo cognitivo, ma semplicemente riproduce in automatico schemi di comportamento (come guidare un’auto) o di pensiero (adottare solo soluzioni consolidate) già adottati in passato.

Nel corso della trattazione, esploro l’ipotesi che i problemi insight nascano da un misunderstanding, da un inciampo nella comunicazione, e che l’impasse sia dovuta al fallimento dell’interpretazione di default. In questa visione il processo di ristrutturazione, che consente di risolvere il problema e uscire dallo stallo, deve essere inteso come una forma di re-interpretazione che include l’elaborazione implicita ed esplicita delle informazioni. La ristrutturazione non può essere sostenuta interamente dal pensiero esplicito, che è occupato dalla fissazione e da un’interpretazione predefinita. L’impasse, la difficoltà nel raggiungimento della soluzione, attiverebbe una ricerca implicita sempre più orientata allo scopo del problema. Il risultato è un gioco interpretativo, di rilettura dei dati disponibili alla luce dello scopo e viceversa.

Tale modo di funzionare del sistema cognitivo umano è facilmente riconoscibile, dal momento che si verifica continuamente – per esempio, nel processo coinvolto nella comprensione di un enunciato – e si fonda su abilità interattive universali: la capacità di fare modelli dell’altro, di ‘leggere’ le intenzioni dietro le azioni, di fare mosse interazionali rapide in una sequenza continua di azioni strutturate a molti livelli.

La logica artistotelica è stata alla base di molti processi di formazione del nostro pensiero. in particolare, e venendo più ai nostri giorni, la radice strutturalista e sistemica di molte teorie hanno, a vario titolo, guidato i concetti dei quali ci serviamo quotidianamente. Cosa c’è di limitante  in queste basi logiche?

-Questo approccio allo studio del pensiero a partire dalla sua intima connessione con il linguaggio, concepita come un’attività cognitiva unitaria, ma sviluppatasi anche rispetto al piano percettivo, in una funzione interpretativa generale, ha l’intento di andare al di là di una concezione tradizionale della mente, uniformata principalmente a modelli teorici astratti ed extra-psicologici come la logica, solitamente adottati dalla psicologia del pensiero (nel paradigma logico-deduttivo, per esempio) come esclusivi punti di riferimento per studiare il ragionamento in atto. Quest’ultima prospettiva teorico-sperimentale, trascurando altri aspetti psicologici fondamentali, legati, per esempio, al contenuto del pensiero, al contesto in cui esso si attua, alle intenzioni e alle finalità per cui è pensato, ha inevitabilmente valutato come errori o addirittura bias, cioè errori non accidentali, ma sistematici, gli esiti del ragionamento discrepante rispetto ai parametri normativi adottati (che descrivono un ragionamento puramente formale e astratto). In questo consiste quello che abbiamo identificato come il “bias logico della psicologia del pensiero”, che deriva dalla considerazione di discipline non psicologiche, quali la logica, la teoria della probabilità e dell’utilità, come modelli del funzionamento del pensiero e unici riferimenti adottati per la sua comprensione e valutazione. Questo atteggiamento trascurava il fatto che lo sviluppo della logica formale, per esempio, ha seguito un graduale processo di “de-psicologizzazione” del discorso logico e di semplificazione disambiguata rispetto al linguaggio naturale (Tarski, 1969). Due costanti nella storia della logica moderna sono proprio la tendenza all’eliminazione degli aspetti psicologici e alla semplificazione dell’ambiguità del linguaggio. Ed è adottando questo punto di vista esclusivamente formale che la psicologia del pensiero ha valutato il ragionamento umano, dando origine al paradigma logico-deduttivo e all’ipertrofia della ricerca esclusiva sui bias. Ciò che così è andata perduta è stata la complessità della realtà psicologica, intesa dalla psicologia del pensiero tradizionale solo come elemento di disturbo (e non come oggetto degno di studio), elemento che nasconde e non permette di cogliere la agognata forma ideale e astratta del ragionamento.

Una parte consistente del suo volume è appunto dedicata all’uscire dall’impasse creata da questi bias. Lei indica il pensiero analitico inconscio come possibile via d’uscita. Come definirlo?

-Ho in parte già dato sopra la sua definizione. Il pensiero, secondo la prospettiva che adotto, va ben al di là rispetto al “semplice” ricorso a un univoco quanto innaturale registro astratto logico-letterale, in un processo pluristratificato che arriva al coinvolgimento del non detto e del pensiero analitico inconscio, indispensabile nella soluzione di problemi creativi di tipo insight e nel superamento dei bias. Lo stesso avviene nel linguaggio nella sua accezione comunicativa, in cui è essenziale il recupero dell’atto di parola e di discorso come produzione di enunciati, come eventi, come intenzione di dire qualcosa (si pensi in particolare alle figure del discorso o alla battuta di spirito).

Lo studio sperimentale di questi diversi interrogativi ha portato con sé, inevitabilmente, un ripensamento della concezione di razionalità tradizionalmente adottata dalla psicologia del pensiero. In questa visione, i bias e gli errori non sono considerati come costitutivi del sistema cognitivo umano, ma come possibili effetti di una comunicazione non attenta a come funziona la mente dell’interlocutore e, in tal senso, potenzialmente fuorviante. Molti bias del giudizio umano che ci sono familiari riflettono, in parte, un malinteso di base sulla natura della comunicazione in tante situazioni. Da un lato, i partecipanti agli esperimenti, ad esempio, presumono implicitamente che i ricercatori siano comunicatori cooperativi, i cui contributi siano informativi e rilevanti. Dall’altro lato, i ricercatori possono (il più delle volte inavvertitamente) presentare informazioni che non soddisfano questi criteri, ma che seguono, per esempio, le accezioni logiche del linguaggio, senza di questo avvertire l’interlocutore (il partecipante), producendo così fraintendimenti. In ogni caso, la procedura trascura il fatto che quando il logico o il ricercatore prende in prestito concetti e parole dal linguaggio naturale, ne circoscrive il significato, eliminando tutti gli attributi che non sono essenziali per i suoi obiettivi. In questo modo ci si allontana però dal significato che concetti e parole assumono nel linguaggio naturale, senza avvisare l’interlocutore. Se però si evita questo equivoco, molti ben noti bias (primo fra tutti il confirmation bias, la tendenza a cercare la conferma delle proprie idee o ipotesi, piuttosto che identificare controesempi potenzialmente falsificanti) risultano attenuati o del tutto eliminati, mostrando che questi fenomeni sono spesso il risultato di una comunicazione difettosa, piuttosto che una prova di un deficit cognitivo sistematico.

Erede di questa tradizione è stata la psicologia del pensiero. Lo scopo dell’approccio scientifico-sperimentale allo studio del pensiero è stato infatti descrivere il ragionamento umano, identificando i criteri che garantiscono il suo corretto svolgimento, per esempio i criteri di validità di una deduzione a partire da premesse date. Si tratta di criteri che, aristotelicamente, costituiscono una sorta di struttura di conoscenza di base, comune ad ogni ambito, generale, indipendente dai particolarismi accidentali. Una sorta di struttura profonda del conoscere.

Lo scopo comune del linguaggio naturale e della logica è veicolare significati efficacemente, in altre parole comunicare ed esprimere il pensiero. L’obiettivo è raggiunto però con modalità opposte: nel caso della logica, semplificando, attraverso l’eliminazione delle possibili interferenze di significato, realizzando così una comunicazione univoca. Nel linguaggio naturale invece, sfruttando la molteplicità e la ricchezza espressiva del linguaggio, dei significati, senza per questo scivolare nel caos, inciampare in fraintendimenti, ma alla luce della pertinenza del significato rispetto al contesto. Non esiste un ordine gerarchico tra linguaggio naturale e linguaggio logico nel senso che il primo sia inferiore o subordinato al secondo. I due riflettono semplicemente esigenze diverse: nel primo caso, la necessità di garantire l’efficacia della comunicazione; nel secondo, la necessità di garantire il rigore del processo inferenziale.

Per concludere, e mi rendo conto di chiederle una semplificazione, quali caratteristiche dovrebbe avere una comunicazione per risultare efficace?

-Una comunicazione che voglia essere efficace dovrebbe tenere conto dell’interlocutore, farsene carico. Quando si formula un messaggio, ad esempio un invito ad adottare un certo comportamento (si pensi all’invito a vaccinarsi nel nostro recente passato pandemico), considerare le aspettative dell’uditorio, le conoscenze pregresse, i presupposti, in breve, il piano implicito della comunicazione. Come già detto inizialmente, deve soddisfare le aspettative psicologiche di fondo, come ad esempio la necessità di far capire (intuire) la direzione del discorso, il suo fine, e di dire ciò che è saliente, senza avere la pretesa di essere esaustivi.


Laura Macchi

La Psicoretorica

Dall’arte del dire alla forma di pensiero

Raffaello Cortina Editore, 2024

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