di Giacomo Dallari
Potrebbe apparire come una forzatura, o addirittura come una provocazione, ma se accettiamo alcune delle regole “non scritte” che disciplinano il nostro vivere comunitario all’interno della cultura moderna, giovinezza e vecchiaia non sono poi così differenti avendo in comune più punti di quanto si possa immaginare. Certo, per fare ciò è necessario prendere le distanze dai fattori meramente biologici, nei confronti dei quali non è possibile neppure immaginare una seppur minima somiglianza tra i due periodi dell’esistenza: il primo – la giovinezza – che ne caratterizza nel contempo la genesi e l’incipit e il secondo – la vecchiaia – che invece ne rappresenta la conclusione e la fine. Ma se a questo, andando oltre le rughe, la debolezza muscolare e la prossimità all’ultimo giorno della nostra esistenza terrena, introducessimo il criterio dell’utilità e dell’efficienza, ci accorgeremo che i due periodi della vita possono essere considerati simili e, a tratti, addirittura speculari. Inutilità e attesa di qualcosa sembrano infatti caratterizzare i due momenti: sia giovinezza che vecchiaia sono contraddistinti dalla non operatività, che nella nostra cultura diviene inammissibile tanto quanto il pensiero della morte. Il giovane, esattamente come il vecchio, non produce beni e servizi, non è realizzatore di reddito ma anzi ne è un consumatore. In poche parole esso, proprio come il pensionato, è un costo. Se il vecchio è in attesa della morte, il giovane è in attesa di entrare nel mercato del lavoro, di divenire soggetto produttivo e di uscire, finalmente, dalla sua dimensione collettivamente debitoria che lo rende soggetto in deficit. Entrambi, dunque, sono in attesa di qualcosa che arrivi a modificare uno condizione e la differenza è rappresentata dal fatto che il giovane ha almeno una prospettiva temporale che, ahimè, il vecchio non possiede più. Se è vero, infatti, che i visi con le rughe hanno poca visibilità, è altrettanto vero che i visi idratati e lisci e a volte acneici dei nostri giovani, hanno un significato solo nel contesto economico e non certo come produttori, ma solo come consumatori.
Ed è proprio con questa idea che Alain Badiou, nel suo libro La vera vita. Appello alla corruzione dei giovani, comincia la sua trattazione: «ho settantanove anni – scrive il filosofo e scrittore francese – perché diavolo dovrei mettermi a parlare di gioventù? […] Non tocca ai giovani parlare della loro esperienza di giovani? Arrivo io a impartire lezioni di saggezza, da vegliardo che conosce i rischi della vita e che gli insegna a diffidare, a rimanere tranquilli, a lasciare il mondo così com’è?»[1]. Sembra quasi che l’autore voglia prendere le distanze dal mondo giovanile che non gli appartiene e del quale non fa parte biologicamente ma del quale, ed è questa la peculiarità del suo lavoro, se ne sente irrimediabilmente responsabile. La sua responsabilità trova supporto nel tentativo di spiegare il motivo per cui Socrate, tra le tante accuse mosse contro di lui, avesse anche quella di corrompere i giovani. L’atto di corruzione diviene quindi lo scopo del testo dedicato ai giovani: «il mio fine – dichiara infatti Badiou – è di corrompere i giovani»[2].
Proprio come il filosofo ateniese, anche Badiou cerca un dialogo con i giovani con l’intento di corromperli, ma precisando che non si tratta di una corruzione in senso moderno e contemporaneo – quella che conduce agli scandali e agli illeciti – ma di una corruzione che possa condurre i giovani a non commettere gli errori di coloro che li hanno preceduti. «Corrompere la gioventù – scrive infatti il filosofo francese – significa una cosa sola: tentare di fare in modo che la gioventù non ripercorra i sentieri già tracciati, che non sia semplicemente votata ad obbedire ai costumi della città, che possa inventare qualcosa, proporre un altro orientamento per quel che riguarda la vera vita». Ed è proprio sulla “vera vita” che Badiou si concentra. Prendendo in prestito le parole di Rimbaud, che per primo ha utilizzato l’espressione “vera vita”, il filosofo francese cerca di accompagnare il lettore a comprendere che la vita, soprattutto per le nuove generazioni, dovrebbe essere invenzione pura, creatività passionale contrapposta ad una sorta di “falsa vita” che si annida nel momento presente e che mira alla semplice soddisfazione immediata e tangibile. «Che cos’è una vita vera? È questa l’unica domanda della filosofia. Se vi si ritrova la corruzione della gioventù, non è affatto in nome del denaro, dei piaceri o del potere, ma per mostrare alla gioventù che esiste qualcosa di superiore a tutto questo: la vera vita. Qualcosa che vale la pena, per la quale vale la pena di vivere, e che si lascia di molto alle spalle il denaro, il piacere e i poteri»[3].
La giovinezza è un momento tormentato e lacerato da due forze opposte che tendono ad allontanare i giovani dalla loro naturale forza generativa: da una parte, infatti, le passioni sembrano animarsi solo nel momento presente, nell’istante che genera piacere; dall’altra parte, la continua ricerca del risultato e della prestazione fine a se stessa, conduce inevitabilmente ad una soggettività incline all’efficacia e alla tecnica nella quale il soggetto perde la propria unicità, divenendo prodotto omologato. E su questo Martin Heidegger ci aveva già messo in guardia quando affermava che «la tecnica moderna, intesa come ciò che svela la disponibilità e l’impiego di tutte le cose, non è un operare esclusivamente umano»[4]. Il tempo dei giovani, invece di essere un percorso fatto di scoperte progressive e di passioni scomposte e disordinate che si susseguono l’una all’altra, viene miniaturizzato in ritagli più o meno significativi da collezionare e da mettere via. L’esperienza, invece di essere terreno fertile di errori e di mancanze, diviene il test con cui si valuta l’efficacia di un’azione, la sua spendibilità presente e futura, come il più banale e triste degli investimenti finanziari.
Badiou procede poi con una lunga descrizione della condizione giovanile attuale, descrivendola come assolutamente più libera rispetto alle epoche precedenti, priva di tutta quella serie di riti di iniziazione che ne ritmavano l’inizio, lo svolgimento e la fine ma, ad una libertà formale, non corrisponde una vera libertà fattuale tanto che la giovinezza cessa di essere un periodo dell’esistenza con caratteristiche proprie e diviene una speranza continua, un’adolescenza senza fine che rende difficile il lavoro sulle passioni, il riconoscimento e la costruzione delle emozioni. All’interno di un mondo privo di reali confini tra le epoche della vita e apparentemente unificato sotto il segno della giovinezza eterna, la prima vittima a cadere è proprio la stessa giovinezza che non si riconosce più come mondo delle possibilità, non si cimenta con l’ignoto e non prova neppure a percorrere sentieri diversi. In tal modo i giovani si ritrovano spesso all’interno di una società che santifica la giovinezza come il bene supremo da mantenere eternamente, ma che non ne riconosce le sue reali potenzialità mettendola all’angolo come periodo consacrato unicamente al consumo. È ciò che avviene per il lavoro, ultima forma di iniziazione sopravvissuta, che tarda ad arrivare e viene rimandato ad un tempo che verrà.
I giovani, a differenza dei vecchi, hanno però una possibilità in più, un potere in più, quello che Badiou chiama il potere della partenza indicando con esso una forma di libertà creatrice e non sottomessa, potenzialmente libera da schemi ricorrenti e tradizionali e per ciò corruttrice di presunte certezze che falsificano i contenuti della vita a favore di una forma di libertà neutra, comoda e pronta all’uso, ma priva di echi e di possibilità. Auspica che i giovani possano ricostruire una nuova e più virtuosa simbolizzazione valoriale, che siano in grado di riappropriarsi di una identità che li riconosca come smarriti, ma non per questo estranei; impreparati, ma non rinunciatari; in formazione, ma non privi di idee; in crescita, ma non per questo vuoti da riempire. Badiou ci propone quindi una sfida “militante” che ci stimola alla riflessione e forse ad un cambiamento di prospettiva: «sarebbe giusto organizzare un’ampia manifestazione per l’alleanza fra i giovani e i vecchi, rivolta esplicitamente contro gli adulti di oggi. I più ribelli sotto i trent’anni e i più coriacei sopra i sessanta contro gli affermati quaranta-cinquantenni. I giovani direbbero che ne hanno abbastanza di essere erranti, disorientati e interminabilmente privi di ogni marca d’esistenza positiva. Direbbero anche che non è un bene che gli adulti facciano finta di essere eternamente giovani»[5].
Bibliografia
- Alain Badiou, La vera vita. Appello alla corruzione dei giovani, Ponte alle Grazie, Firenze, 2016.
- M. Heidegger, La questione della tecnica (1953), GoWare, Firenze, 2017.
[1] Alain Badiou, La vera vita. Appello alla corruzione dei giovani, Ponte alle Grazie, Firenze, 2016, pp. 8-9.
[2] Alain Badiou, La vera vita. Appello alla corruzione dei giovani, Ponte alle Grazie, Firenze, 2016, p. 14.
[3] Alain Badiou, La vera vita. Appello alla corruzione dei giovani, Ponte alle Grazie, Firenze, 2016, p. 57.
[4] M. Heidegger, La questione della tecnica (1953), GoWare, Firenze, 2017, p.26.
[5] Alain Badiou, La vera vita. Appello alla corruzione dei giovani, Ponte alle Grazie, Firenze, 2016, p. 86.