EXAGERE RIVISTA - Luglio - Agosto - Settembre 2024, n. 7-8-9 anno IX - ISSN 2531-7334

Quando i filosofi interrogano Paolo. Intervista a Tiziano Tosolini

di Gianfranco Brevetto

 

Paolo di Tarso appare uno dei personaggi certamente di maggior spicco del cristianesimo. La sua opera, il suo pensiero, hanno contribuito alla differenziazione, delle prime comunità, dalla matrice originaria del giudaismo. A due millenni di distanza, a ben vedere, occorre fare i conti non solo con la sua teologia, ma anche con un Paolo più filosofico spesso, come vedremo, tirato un po’ per la tunica. Comunque si consideri l’utilizzo che molti autori contemporanei hanno fatto dei suoi scritti, Paolo non finisce di stupirci per la sua capacità di entrare in dialogo, di essere interrogato, parlarci e farci riflettere tutti, credenti e laici.  Tiziano Tosolini, docente della Pontificia Università Gregoriana, ci aiuta, con il suo recente libro, ad approfondire il ruolo ed il valore di Paolo nel dibattito filosofico.

– Nella letteratura cristiana, conosciamo Paolo di Tarso per le Lettere che ci ha lasciato e per le vicende narrate negli Atti degli apostoli, che sono anche i primi testi scritti del Nuovo Testamento. C’è da dire che la personalità e il pensiero di Paolo hanno influito, non solo sul pensiero religioso dell’occidente, ma anche sul moderno pensiero filosofico. Perché i filosofi si sono così variamente interessati a lui?

– La maggior parte dei filosofi che hanno praticato Paolo, quelli che sono entrati in dialogo con lui, non sono marcatamente cristiani. La lettura che ne hanno fatto non è certamente spirituale, confessionale, esegetica o teologica. Si accostano a Paolo come a un filosofo, mutuando delle idee che possano soddisfare le loro esigenze di elaborazione filosofica, vogliono trovare in Paolo un alleato. Viceversa, partendo da un’analisi del pensiero paolino, alcuni autori lasciano aperto uno spazio in cui si cerca di comprendere, alla luce delle sue elaborazioni, il pensiero attuale, indicando un percorso a cui tutti possano accedere. Da parte di questi filosofi c’è un tentativo di accostarsi alla metafisica, “scuotendola”, come direbbe Derrida, per mostrare altri valori o idee a cui tutti possano accedere e partecipare, come ad esempio i concetti di alterità e universalismo. Facendo ciò, attualizzano Paolo che riesce a parlare a tutti ancora a duemila anni di distanza.

– Tra l’altro, lei ricorda l’episodio dell’areopago di Atene. Paolo, in quell’occasione, viene ascoltato, come era d’abitudine tra i greci. Essi nutrivano interesse per le idee degli stranieri, però, quando inizia a parlare della resurrezione, gli dicono: va bene, ma su questi argomenti ti sentiremo un’altra volta. Alcuni commentatori della scrittura mettono in luce come, dietro l’atteggiamento di Paolo, ci fosse la volontà di approcciarsi in maniera differente a differenti culture. Che cosa rimane oggi di questa metodologia paolina?

– Io penso che ne rimanga parecchio, soprattutto a livello missionario e io stesso mi confronto continuamente con Paolo. Paolo offre degli spunti su che cosa sia importante quando ci si confronta con una cultura diversa. Pur essendo ebreo possedeva la cittadinanza romana, conosceva il greco, era stato educato alla legge ebraica dal rabbino Gamaliele, conosceva benissimo le Scritture. Si trovano in Paolo tutti quegli elementi indispensabili per approcciare una cultura diversa e valutare come un messaggio possa essere trasmesso. Ovviamente anche Paolo ha avuto delle sconfitte, e quella dell’areopago di Atene è la più lampante. È interessante, però, vedere come, da Atene in poi, Paolo cambi registro. Nella Prima lettera ai Corinzi dice, ad esempio, di non volerne più sapere di sapienze o di filosofie umane, l’unica cosa che vuole conoscere è il Cristo e questi crocifisso, non risorto ma crocifisso. Ma, a distanza di tempo, se è vero che Paolo era andato dai filosofi ad Atene a parlare della resurrezione, adesso è molto interessante vedere come, alla fine, siano stati i filosofi a ritornare da lui e ad interessarsi proprio alla resurrezione. Se un tempo questo vocabolo era innominabile per i filosofi, adesso ci capita di vederlo un po’ ovunque, non fa più scandalo, non si irride più l’apostolo schernendolo con il “Ti sentiremo su questo un’altra volta”.

– Per restare sul metodo usato ad Atene, sembrerebbe che quel grimaldello, quella chiave di apertura che Paolo aveva usato, siano quelli giusti. Lui inizia il discorso all’areopago dicendo che aveva visto in quella città diverse statue dedicate a vari dèi, tra queste ce n’era una dedicata al dio ignoto: ed è proprio di quel dio che lui vuole parlare. Parrebbe che questa affermazione contenga una chiave epistemologica importante, ci sta dicendo: guardate, io vi sto parlando di cose che, nonostante la vostra illustre cultura, voi non conoscete. In Paolo vi sarebbe una capacità di andare oltre le cose già note. È cosi?

– Sì, ed è anche un nuovo modo di conoscere. Come mi riferiva un amico esegeta, Paolo ad Atene tenta di spiegare la radicale differenza che intercorre tra due diversi modalità di conoscenza di Dio. La ricerca finora condotta dai Greci era caratterizzata da uno sforzo unilaterale, quello dell’uomo, e il percorso era unidirezionale, dall’uomo a Dio. Con le sue forze l’uomo cerca Dio, desidera conoscerlo, vuole comprenderlo. La catechesi paolina prende la forma di metodologia del retto conoscere in cui il modo di conoscenza è determinato dall’oggetto stesso del conoscere. Passo dopo passo, Paolo conduce l’uditorio a capire che il fattore dominante nella conoscenza di Dio è la possibilità offerta da parte dello stesso divino di farsi conoscere. In questo modo Paolo pone le premesse ermeneutiche per comprendere correttamente la prova costituita dalla risurrezione. Si capisce così anche anche il senso della conversione richiesta ai Greci, ai filosofi, e a ogni uomo: essa è la transizione dalla fede nella conoscenza all’accoglienza della risurrezione, che introduce alla conoscenza nella fede. Vi è poi una seconda cosa che i filosofi contemporanei stanno dimenticando, e cioè che Paolo di Tarso non è un filosofo, lui ha parlato in quel modo perché ha avuto un’esperienza particolare, nel senso che è stato toccato da Cristo. I filosofi contemporanei, proprio perché fanno una lettura non confessionale delle Lettere, trattano alcune sue idee senza tener conto dell’esperienza spirituale da cui sono nate. I filosofi vanno direttamente al testo come se si trattasse di un trattatello filosofico. Si tratta invece, come nel caso delle Lettere, di scritti destinati a situazioni particolari e indirizzati a comunità di credenti.

– Nel suo interessante libro, lei mette in guardia, citando Barthes, dall’errore di estrapolare solo alcuni brani degli scritti di un autore. Dal prendere Paolo à la carte mentre va visto nel suo contesto. Quando parla di Nietzsche lei mette in rilievo il rapporto di Paolo con la legge, Nietzsche sembrerebbe darne una visione riduttiva del pensiero paolino a proposito del rapporto tra legge e fede. Una svolta importante rispetto al passaggio dal giudaismo al quello che noi conosciamo come cristianesimo, messo in risalto secoli più tardi dalla riforma luterana. Perché Nietzsche vede in Paolo una sorta di ossessione per una legge dalla quale non riesce a liberarsi?

– Nietzsche provava un’avversione particolare per Paolo. Nietzsche sosteneva che, prima di Paolo, c’erano stati solo degli ebrei settari e che quindi è stato proprio lui, l’apostolo, l’inventore del cristianesimo. Paolo, secondo Nietzsche, ha cercato di risolvere un suo problema personale: non riuscendo ad adempiere la legge, l’apostolo vede in Cristo qualcuno che ci ha liberati dalla legge inchiodandola con se stesso e rendendoci quindi liberi. Perciò Nietzsche vede in Paolo una persona che ha trovato questo espediente per liberarsi dal peso della legge giudaica. Nietzsche, al contrario, con la sua concezione dell’amor fati, ci propone un uomo che deve essere libero da ogni predestinazione e da ogni vincolo. Ecco perché Nietzsche ammirava Cristo. Nietzsche considerava Cristo come qualcuno che aveva avuto il coraggio di andare fino in fondo, aveva vissuto i valori del Regno fino a far diventare la sua vita un’“opera d’arte”, e in questo è stato perfino superiore a Socrate. Ritornando però a Paolo, si potrebbe dire che nel mutato rapporto tra legge e fede, io credo che Paolo abbia avuto un’importante illuminazione, e mi riferisco al cosiddetto concetto del cambio del mediatore. Se prima, nell’Antico Testamento Israele fungeva da mediatore tra Dio e il mondo (ricordiamo le parole di Dio rivolte ad Abramo: “In te si diranno benedette tutte le famiglie della terra”), per Paolo tra Dio e noi non c’è più Israele, non c’è più la legge, ma  la persona di Gesù Cristo. È lui il nuovo mediatore, colui che ci fa vedere Dio e ci comunica le sue parole. La grazia della verità viene attraverso Cristo e non più attraverso la legge in sé, perché questa legge è ormai stata “invalidata”, come direbbe Agamben. Adesso abbiamo una nuova legge, la legge della libertà direbbe Giacomo, che è Gesù Cristo. Come dirà Taubes: “Non il nómos, ma chi è stato crocifisso dal nómos, è l’imperatore”.

– Si tratta, per citare lo stesso Taubes di uno stato di eccezione.

– Lo stato di eccezione non riguarda più Israele ma riguarda noi tutti.

– Lei mette in grosso risalto due concetti la kénosis e la parresìa. Lo svuotamento, il Dio che si fa uomo, e la testimonianza come libertà. Perché questi due concetti sono importanti?

– La kénosis è importante per Paolo perché indica il mistero dell’incarnazione, di un Dio che si è fatto carne assumendo la nostra condizione umana. E questa per lui è una cosa incredibile, soprattutto se si pensa a Paolo come un ebreo di nascita. Nella sua cultura di origine si venerava un Dio che non si poteva né nominare né vedere e, proprio questo Dio, ad un certo punto, è venuto a parlarci direttamente. E qui si capisce tutta l’avversione dei farisei contro Gesù: come è possibile che tu sia Dio e che tu parli in nome di Dio? A livello filosofico Vattimo considera la kénosis come il depotenziamento di ogni struttura metafisica e ontologica. È come dire che i concetti di trascendenza, di onnipotenza, di eternità…, che sono appunto concetti metafisici, sono stati soppressi per sempre. Dire che il Verbo si è fatto carne è come dire che la verità si è fatta tempo.

– Cambia di sana pianta il concetto di storia.

– Esattamente. Ovviamente, come accennavo, il problema è che i filosofi che hanno trattato Paolo si sono limitati a estrapolarne i concetti che a loro più interessavano. Vattimo si ferma a dire che Gesù, pur essendo di natura divina, svuota se stesso per diventare come noi. Paolo invece, nella Lettera ai Filippesi, continua dicendo che “nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi”, e che quindi esiste ancora un forte richiamo ad una trascendenza. Il nome di Gesù non è un nome qualsiasi, rimane sempre un nome che rimanda a Dio, e quindi non vi è, come vuole Vattimo, un depotenziamento assoluto. Vattimo, vuole inoltre fondare sulla kénosis il principio della carità, dell’“Ama e fa ciò che vuoi” di sant’Agostino. Tuttavia, per Vattimo questo precetto si applica solo a coloro che sono passati attraverso la nostra stessa storia, cioè a quella storia intesa come indebolimento dell’essere, come processo di secolarizzazione. Solo le persone, che condividono il nostro destino potrebbero avvalersi di questo principio della carità. A me sembra una visione abbastanza esclusivista, in contrasto con il discorso di Gesù che, invece, è veramente universale.

– In ultimo, arriviamo, al problema della parrusìa, della testimonianza.

– Mi è piaciuto molto quello che diceva Foucault a questo proposito e lo trovo ancora molto attuale, anche se Foucault non ha avuto materialmente il tempo per arrivare a trattare di Paolo. Paolo ha sostenuto che occorre parlare con franchezza senza badare alle conseguenze a cui si va incontro. E l’apostolo si comporta in questo modo soprattutto a Roma dove ha pagato con la vita per quello che ha detto. Paolo è il parresiata per eccellenza. Ha testimoniato con la vita il vero che diceva e ha modificato la sua esistenza conformemente alla verità detta e creduta.

Tiziano Tosolini

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Marietti 1820, 2019

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