di Luigi Serrapica
Facciamo spesso ricorso al concetto di “identità”, ad esempio quando parliamo della nostra vita digitale oppure in quanto persone con un nome, un cognome e una manciata di dati anagrafici. Se ne parla, poi, in politica, quando si intende definire qualcuno – un gruppo, magari – in relazione, o in contrapposizione, a un altro.
È un concetto solo in apparenza semplice. Definire un’identità porta con sé una serie di problemi di non facile soluzione che affrontano, fra gli altri, gli antropologi. Francesco Remotti, professore emerito di Antropologia culturale presso l’Università di Torino, parla di un concetto “equivoco”, di un “pasticcio” su cui convergono tesi spesso opposte. Il volume da lui curato, Sull’identità, uscito di recente per Raffaello Cortina, fa un interessante tentativo di offrire chiarezza in questo campo. La raccolta di saggi affronta la questione secondo due approcci, il primo, per così dire interno, mira a salvare l’identità come strumento indispensabile al di là delle interpretazioni che se ne danno. C’è poi un approccio esterno, quello condiviso dallo stesso Remotti, che intende affrontare questo concetto superandolo e “dissezionandolo” attraverso il binomio somiglianze-differenze.
Il volume contiene anche un saggio di Ugo Fabietti, scomparso nel 2017. Il confronto, ormai non più possibile in maniera diretta con questo grande antropologo, è comunque vivo e vivace e trova nel curatore, uno dei suoi animatori.
– Professor Remotti, seguendo i ragionamenti proposti nel volume, ci si rende conto che l’identità muta nonostante i tentativi di definirla, di confinarla entro precisi limiti. Eppure, nonostante la sua mutevolezza, ne sentiamo il bisogno e vi facciamo abbondante ricorso. Perché?
– A ben vedere, in questo volume sono presenti due diversi posizioni per quanto riguarda il tema “identità”. Partiamo però da un punto comune. Tutti gli autori sono fondamentalmente d’accordo nel sostenere che l’identità sia un “pasticcio”, qualcosa di non semplice e lineare, bensì qualcosa di “complesso”. Da che cosa deriva il pasticcio? Dal fatto che da una parte l’identità indica qualcosa di stabile, di permanente (se no, non parleremmo nemmeno di identità) e dall’altra l’identità è pur sempre calata nel magma della vita sociale, nel suo divenire incessante, nella sua insopprimibile complessità. Il pasticcio dell’identità è dovuto al fatto che essa è un misto di “essere” e di “divenire”, di aspirazione di essere e tuttavia di essere costretti a mutare. I contributi contenuti in questo volume sono dunque un tentativo di sbrogliare la matassa, portando alla luce la dialettica tra ciò che permane e ciò che varia, tra chiusura e apertura, tra identità e alterità. Come dicevo, nel volume sono però presenti due diverse posizioni. La maggior parte degli autori – a cominciare da Ugo Fabietti, alla cui memoria il libro è dedicato – sostengono che, nonostante il guazzabuglio, di identità non si può fare a meno, cioè che gli esseri umani hanno bisogno di identità.
– E la sua posizione qual è?
– Ritengo che d’identità si possa fare a meno. Sostengo che l’identità sia un concetto che abbiamo ereditato da una specifica tradizione di pensiero, di cui possiamo liberarci. Ciò di cui abbiamo bisogno non è l’identità, ma un po’ (semplicemente un po’) di continuità, di coerenza, di riconoscibilità: tutti concetti che possono benissimo essere intesi senza fare ricorso all’identità.
– Riflettendo sulle tesi esposte nel volume, si nota, in alcuni, il tentativo di definire l’identità solo in rapporto a un’altra. È corretto sostenere questo confronto? E in questa dialettica, pesano di più le somiglianze oppure le differenze esistenti?
– Come dicevamo, ci sono due posizioni nel libro. Secondo la prima posizione (che è maggioritaria), identità e alterità si richiamano tra loro, in quanto costituiscono un nesso dialettico. E quindi, sotto questo profilo, è corretto sostenere che una qualunque identità si definisce sempre in rapporto a un’altra, quella rappresentata dagli altri, incarnata nell’alterità. La posizione minoritaria consiste invece in un invito a tradurre il rapporto identità/alterità in termini di somiglianze e differenze. Cerco di spiegarmi. Se noi consideriamo un soggetto, un “noi” (un gruppo, una collettività, una nazione), può darsi benissimo che esso rivendichi una propria “identità” e nel fare questo si confronti con altri soggetti, con l’alterità. Quando un noi rivendica la propria identità, è come se negasse, recidesse, togliesse di mezzo le somiglianze con gli altri: la propria identità è – per definizione – qualcosa che non si condivide con gli altri.
– Questa operazione riesce?
No, non riesce. Le somiglianze, pur negate, rispuntano. Le somiglianze sono preesistenti a qualsiasi rivendicazione di identità e sono resilienti. L’identità è un’illusione, è un mito (ed è pure, perlopiù, un mito pernicioso). Le somiglianze – le quali si mescolano sempre insieme alle differenze – sono invece il terreno su cui tutti noi ci muoviamo, che lo riconosciamo o no. Ma, ovviamente, è meglio saperlo. L’identità è una strana ideologia (un pasticcio, come si è già detto), che nasce da un mancato riconoscimento delle somiglianze.
– In alcuni studi si fa riferimento all’identità come il risultato di un prodotto culturale e storico. Ne emergerebbe una sorta di relativismo che supererebbe anche il sincretismo a cui lei accenna, nell’ultimo capitolo, a proposito della tribù dei Ngaing della Nuova Guinea?
– Per quanto mi riguarda, io parto dal presupposto che l’identità (il mito dell’identità) sia un mero prodotto culturale e storico. Un’idea arbitraria che nasce dal pensiero dell’essere, contro il divenire. Proprio per questo direi che nessuna cosa può essere identitaria: nessuna cosa ha le caratteristiche dell’identità. Giungo cioè alla conclusione opposta a quella contenuta nella domanda. Per quanto riguarda il sincretismo dei Ngaing discussi nell’ultimo capitolo, anche lì a me sembra molto più vantaggioso fare ricorso a un’impostazione in termini di somiglianze e differenze, di mimesi (come del resto suggeriva lo stesso Fabietti), anziché farne una questione di identità.
– E sul relativismo?
– Per quanto riguarda questo tema, sinceramente a me non fa paura, anzi, lo considero una posizione non solo inevitabile, ma anche auspicabile. A una sola condizione, però. Quella di non intendere il relativismo in termini di identità (tante piccole identità, mondi chiusi, ognuno con i propri valori), ma in termini di somiglianze e differenze. Se il relativismo si combina con un pensiero identitario, si va a finire in una situazione di incomunicabilità. Se invece lo si combina con le somiglianze e le differenze, la strada della comunicabilità è aperta, nonostante tutte le incomprensioni e quindi gli ostacoli frapposti dalle differenze.
– Lo studio sull’identità, si coglie nel libro, si appoggia molto alla Storia, oltre che alla Filosofia. Guardando per un attimo all’attualità, i social network stanno modificando il nostro rapporto con gli altri. Penso qui agli algoritmi generati per adattare l’esperienza su un canale social alle caratteristiche dell’utente, ma che in realtà sembrano puntare a una “massificazione” della stessa utenza.
– Non sono un frequentatore di social network. Rischio perciò di dare risposte poco congruenti o poco plausibili. Mi sembra tuttavia di poter dire che ciò che aumenta a dismisura è “l’estensione” della comunicabilità. Ciò che invece inevitabilmente diminuisce è “l’intensione” della comunicazione, vale a dire che lo spessore dei contenuti e dei significati si riduce moltissimo. Probabilmente possiamo anche affermare che aumenta moltissimo la quantità delle informazioni da cui siamo letteralmente invasi e che sfuggono in buona parte al nostro controllo. Sotto questo profilo, pare anche a me che il rischio della “massificazione” (e aggiungerei anche dell’alienazione, come si diceva un tempo) sia qualcosa da prendere in seria considerazione.
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Francesco Remotti (a cura di)
Sull’identità
Raffaello Cortina Editore, 2021