di Gianfranco Brevetto
Durante i mesi della pandemia, Pietro Del Re, storico inviato degli Esteri del giornale La Repubblica, ha visitato molti paesi devastati da conflitti e sovente lontani dalle cronache quotidiane. Da questa esperienza ne è nata una toccante testimonianza raccolta nel suo recente libro I Dimenticati (Cortina Editore, 2022)
– In controtendenza rispetto al blocco della pandemia, come ci dici nel libro, hai scelto di viaggiare e di scrivere. Mentre qui era tutto fermo, congelato, cosa succedeva in quei paesi in cui, tutto sommato, la pandemia era il problema minore?
– Le tragedie, purtroppo, non sono state fermate dalla pandemia, le guerre non hanno smesso di provocare più morti. Anzi, ci sono stati dei conflitti in cui, approfittando di una copertura mediatica minore, i belligeranti, lontano dagli sguardi internazionali, hanno compiuto orrende nefandezze. Invece in altri luoghi, dove la pandemia ha aggravato la miseria e la carestia, i paesi donatori sono stati meno munifici, dovendosi occupare dei problemi di casa loro. Da qui nasce il titolo I Dimenticati.
– A proposito del titolo, fa leva sulla memoria, su meccanismi collettivi e selettivi, in cui le ideologie, la politica e la cultura hanno il loro peso. Perché non dobbiamo dimenticare?
-Innanzitutto per un motivo etico, se c’è mio fratello che soffre, io gli tendo di tendo la mano, ma non solo in un’ottica di altruismo. Lo faccio perché sono un uomo e quindi la mia umanità fa sì che io aiuti chi è nel bisogno.
– Il Nagorno Karabakh, mi appare come una delle amnesie più colpevoli. Cosa hai visto in quella terra tormentata?
– Sono stato nella parte armena del Nagorno e mi sono trovato, come capita spesso in teatri di guerra, vittima di una serrata propaganda da parte dell’esercito armeno che, non solo presentava gli azerbaigiani come feroci saladini con la scimitarra tra i denti, ma sosteneva che, tra le loro fila, ci fossero soldati dello stato islamico, che la Turchia avrebbe fatto arrivare dalla Siria. Questi racconti si sono rivelati delle frottole enormi. Per rendermi conto della situazione, sono andato anche dall’altra parte, in Azerbaigian, al confine con l’Armenia e ho trovato una situazione speculare con devastazioni compiute, con la stessa ferocia, dai mortai armeni. Non solo, ho anche scoperto che agli inizi degli anni ’90, quando questo conflitto ha avuto uno dei suoi picchi più sanguinari, cioè quando l’Armenia ha riconquistato parte del Nagorno, i soldati armeni avevano compiuto dei massacri orrendi di cui nessuno aveva parlato. In quegli anni , in Europa, c’erano altre gatte da pelare. È fondamentale, perciò, andare sempre sul luogo per capire chi sono le vere vittime dell’inevitabile propaganda degli eserciti.
-In Italia, a differenza di altri paesi dove la politica internazionale è molto seguita, c’è qualche pecca in questo campo. Riceviamo, spesso, solo sparuti aggiornamenti sui tanti conflitti che flagellano il pianeta.
– Siamo molto provinciali. In Europa siamo quelli più rivolti verso se stessi. In Nagorno sono stato, per le prime settimane, l’unico giornalista di una grande testata italiana. Venti anni anni fa questo non sarebbe accaduto, oggi, anche per via della crisi, la situazione è peggiorata. È sempre più importante avere giornalisti sul terreno, anche per scampare ai filtri delle altre testate o televisioni che girano sui circuiti internazionali. Mi auguro che nasca una nuova generazioni di inviati e mi auguro che, i direttori delle grandi testate, diano loro l’opportunità di andare in giro come ho fatto io negli ultimi 40 anni.
– Mi sembra, però, che rispetto alla Guerra del golfo, in cui gli inviati erano sostanzialmente a seguito degli eserciti, qualcosa di diverso comincia a vedersi per le cronache dall’Ucraina.
– in Ucraina ho visto, per la prima volta, tanti inviati italiani, tra l’altro giovani e molto in gamba. Ho scoperto giovani giornalisti di primissimo ordine, seri, preparati, coraggiosi. Però, un tempo il direttore non voleva vederti in redazione, il tuo compito era di andare fuori, dovevi portare notizie. Purtroppo, oggi, un ragazzo che inizia, lo mettono a fare le didascalie, quando va bene.
– Tu hai avuto l’opportunità di intervistare Zelensky. La domanda, come si usa dire, è spontanea: che tipo è? Quello che si sapeva di lui, è che era di un attore comico, ora si è ritrovato, improvvisamente esposto, in una terribile vicenda di livello mondiale.
-Si tratta di un leader, un grande presidente. Avrebbe potuto andar via e rifugiarsi a Washington, a Parigi a Londra, e invece ha detto io non voglio taxi voglio armi. E’ uno che è riuscito ad infondere uno spirito patriottico al suo popolo. Quando lo cercavano i mercenari per sgozzarlo è rimasto a Kiev e non è scappato, ha compreso che l’esercito ucraino necessitava di una buona fetta del PIL interno, è stato consapevole, fin dall’inizio della minacce di un espansionismo russo. È facile dire un comico…
– Ma perché dal 2014 questo conflitto è stato dimenticato? Eppure era lì, vicinissimo all’Europa..
– E’ dipeso, da una parte, della bravura della propaganda del Cremlino, che ha nascosto la realtà alle cancellerie occidentali, ben contente di non andare a scoprire il velo in quanto occupate dai propri piccoli problemi. Dall’altra, perché, per un negligenza gravissima, nessuno ha mai voluto credere che Putin avrebbe invaso l’Ucraina, dando fede ad un uomo che utilizza la menzogna come prima arma.
– L’unico paese europeo del quale parli nel tuo libro, sono i Paesi Bassi. Metti in evidenza come politicamente siano la culla di possibili svolte sovraniste e xenofobe. Cosa accade in questo paese?
– Ci vado spesso in Olanda ed è per me un punto di osservazione molto importante della realtà. Può essere considerato l’opposto dei luoghi tragici, afflitti da guerre e carestie, dove sono solito andare. L’Olanda è il paese delle start up, delle multinazionali, della ricchezza molto diffusa, ma anche una palestra per partiti nazionalisti e razzisti profondamente odiatori degli stranieri. I due partiti che hanno vinto le elezioni due anni fa, mettono avanti la razza olandese, sostenendo che qualsiasi immigrato rischia di corrompere la genia locale. Ma perché vincono? Perché sono i primi a cavalcare alcune battaglie, come è successo per quella dei No vax o quella dei ristoratori durante il lockdown.
– In tutto il tuo girovagare e approfondire la conoscenza di luoghi che ci appaiono molto lontani, che idea ti sei fatto di queste parti del mondo e di questa gente dimenticata?
– Penso che ci sia una tendenza a rimuovere i disastri degli altri che invece ci riguardano molto da vicino. Invece, ci possono essere conseguenze drammatiche anche per noi, la nostra è una forma di egoismo che andrebbe denunciata. Occorre fare aprire gli occhi a chi è occupato da mille altre faccende. Il ruolo del giornalista, dell’inviato di guerra, è fondamentale. Deve raccontare quello che la gente non vede o non vuole vedere, raccontare le cose scomode e che danno fastidio. Questo è l’unico modo per smuovere non solo l’opinione pubblica ma anche i leader. Cosa possiamo fare tutti ? basta aiutare chi aiuta, bastano pochi euro al mese alle organizzazioni umanitarie.
Pietro Del Re
I Dimenticati
Dove l’emergenza è la vita
Raffaello Cortina Editore, 2022