di Federica Biolzi
Rita Charon viene tradotta in italiano, per Cortina Editore, dopo tredici anni dalla sua apparizione oltreoceano, anche se l’approccio di questo medico e studioso statunitense è noto, e oggetto di approfondimento, da tempo in Europa e in Italia. La pubblicazione in italiano segue, di qualche anno, la Consensus Conference organizzata dall’Istituto Superiore della Sanità nel 2014 che ha messo a punto le linee di indirizzo della medicina narrativa in ambito clinico-assistenziale, per le malattie rare e cronico-degenerative.
Partiamo dalla definizione di medicina narrativa fornita da Rita Charon che ci dice: possiamo definire narrativa quella medicina praticata con le competenze che ci permettono di riconoscere, recepire, interpretare le storie di malattia e reagirvi adeguatamente. Per descrivere la situazione di un individuo, per capire cosa succede, di solito ci serviamo della narrazione, ordiniamo i fatti nel corso del tempo, ne stabiliamo un inizio e una fine, creiamo rapporti di cause ed effetto attraverso una trama.
Ma attenzione, ed a scanso di equivoci, non si tratta di una medicina alternativa. Grazie alla medicina narrativa, sostiene l’autrice, è possibile identificare meglio la malattia, collaborare con umiltà tra colleghi e accompagnare il paziente, e la sua famiglia, lungo la sofferenza.
La Charon, nella sua prefazione, intravede tutti i pericoli che ci possono essere nello scrivere un’opera prima in questo settore, cercando di descriverne le basi tratte da ambiti di studio che, fino a quel momento, apparivano separati, non dialoganti tra loro come l’area umanistica e quella scientifica. Contrapposizione che, all’autrice, deve essere apparsa ancor più in virtù del diverso approccio concettuale della didattica d’oltreoceano, ma che, in Europa e in Italia in particolare, dovrebbe essere più spontaneo, grazie alla naturale convivenza, negli ambiti scolastici, degli studi umanistici con quelli scientifici, propriamente detti.
Nella redazione di quest’opera, la studiosa mette a disposizione il suo archivio, gli scritti, i resoconti, i racconti, i contributi di anni passati come medico internista, testimonianze parallele, ma non meno preziose, di vicende vissute all’interno dell’evolversi delle diagnosi, delle cure, della ricerca di senso, da parte dei pazienti, in un particolare momento della propria esistenza.
L’idea, alla base, è che la medicina può trarre vantaggio da quello che gli studiosi di letteratura, psicologi e antropologi sanno già, cioè il funzionamento delle narrazioni e come queste riescono a trasmettere conoscenza al mondo: attraverso le luci ed ombre di queste narrazioni riusciamo a costruire un quadro d’insieme e scoprirne il significato, come ci ricorda l’autrice.
Nell’ampia prefazione, Micaela Castiglioni mette in guarda, tra l’altro, dal non confondere l’approccio della medicina narrativa con quella di un medico socievole, cordiale, amicale o paternalista. Non è questa la medicina narrativa, anche se a volte non può prescindervi.
Il sapere medico delle aule universitarie appare sordo a tutto ciò che non riguarda l’aspetto biologico universitario. L’aspetto narrativo, suggerisce la Castiglioni, merita una presa in carico piuttosto urgente, anche in considerazione dello scenario oramai aziendalistico delle strutture sanitarie, è un’opzione che appare imprescindibile soprattutto di fronte alla complessità, all’aumento delle diseguaglianze. Diseguaglianze ancor più evidenti negli Stati Uniti, paese dove, ricordiamolo, non esiste un servizio sanitario nazionale. Quando le diseguaglianze incidono in modo consistente, l’introduzione di strumenti che tengano conto di deprivazioni sociali e, ancor più, narrative diventa necessaria. Queste disuguaglianze, ricordiamolo, stanno segnando una loro presenza anche nel nostro continente.
Il sistema di formazione degli operatori sanitari, sostiene la Castiglioni, deve quindi farsi carico di questa complessità, accanto al paziente devono essere considerati la molteplicità degli attori coinvolti nel processo di cura, a cominciare, dai pazienti, i familiari, i curanti e l’organizzazione evitando i processi di spersonalizzazione: il sé personale deve procedere di pari passo con quello professionale.
Il quadro che risulta da un approccio narrativo alla medicina, ed è la stessa Charon ad ammetterlo, è un spazio che apre altre possibilità di intervento, nel rispetto della persona, per offrirgli una pienezza di speranza che va al di là dei tecnicismi e delle difficoltà dei linguaggi scientifici che sono incomprensibili ai più.
Abbiamo ereditato qualcosa di infinito – dice Rita Charon -: un lavoro che spalanca responsabilità inattese e imprevedibili. (…) Grazie alla narrazione affrontiamo la sofferenza e ne offriamo una rappresentazione precisa (…). Idealmente bisognerebbe arrivare a una grande comunità morale, che prenda in considerazione gli obblighi verso i pazienti i colleghi e gli studenti, le istituzioni.
Al di là degli sviluppi di questa approccio, il cui compito è arduo quanto realistico e opportuno a patto che non si perda mai il contatto diretto e imprescindibile con l’aspetto scientifico che ne è alla base, la medicina narrativa reintroduce, ricorda e dà valore, all’etica della relazione tra medico e paziente. Il rispetto reciproco che si instaura attraverso la consistenza narratologica di un rapporto apparentemente, e volgarmente, considerato solo di tipo tecnico-professionale. Rimette al centro le persone e la loro necessità di dare corpo sistematico e riconosciuto alla comunicazione, evitando banalizzazioni che diventano, nella medicina narrativa, una fonte importante di informazioni e di senso dell’esperienza di cura e del dolore.
Rita Charon
Medicina narrativa
Onorare le storie dei pazienti
Raffaello Cortina, 2019