di Francesca Rifiuti
Dentro un processo di integrazione in un sistema di diritti e di doveri, qual è lo spazio assegnato alle identità culturali, sociali, religiose e in termini di stili di vita, costumi, orientamenti e alimentazione?
Le tematiche dell’immigrazione emergono e s’impongono al di là dei cliché imposti dai politici e e dalle interpretazioni a buon mercato. Il sociologo Luigi Manconi, che ringraziamo per la sua disponibilità ci fornisce, in questa intervista, utilissimi spunti di approfondimento e riflessione.
-I fenomeni migratori, hanno negli anni assunto sempre di più una valenza politica. In Italia come nel resto del mondo. Nonostante la pandemia è questo un tema che viene sempre di più utilizzato in politica per captare consenso. La sensazione è che però, al di là degli slogan, il tema dell’immigrazione sia poco conosciuto e mal affrontato. Perché?
-La ragione principale di questo cattivo trattamento della questione migrazione deriva in primo luogo dalla ignoranza del fenomeno. Non conoscendone a fondo le cause, le dinamiche e gli effetti, è inevitabile che dell’immigrazione si elaborino false rappresentazioni.
C’è una falsa rappresentazione che chiamiamo “di destra”, che la riduce a disgrazia sociale e insidia per l’ordine pubblico. Poi, c’è una falsa rappresentazione che possiamo chiamare “di sinistra”, che la disegna come una sorta di fatale orizzonte di progresso e dunque qualcosa che richiama in primo luogo un atteggiamento emotivo. E che dunque esige il ricorso alla virtù della solidarietà e alla sfera dei buoni sentimenti.
Queste due false rappresentazioni si alimentano a vicenda e contribuiscono a offrire un’immagine totalmente errata del fenomeno.
Com’è noto, le migrazioni accompagnano la storia dell’umanità. L’uomo è sempre stato migrante e le ragioni di questa tendenza irresistibile al movimento sono sempre le medesime. Oggi, per esempio, si comincia finalmente a parlare di profughi ambientali, ma essi esistevano anche diecimila anni fa. Le cause delle migrazioni sono quindi sempre le stesse e sostanzialmente rimandano a una fondamentale esigenza dell’essere umano che è quella di migliorare le proprie condizioni di vita: e di andare laddove è immaginabile trovare una terra più accogliente e generosa.
Se noi trasferiamo questi fattori primari alla contemporaneità, vediamo come oggi la questione si debba porre, perché una soluzione razionale sia possibile. Ovvero in termini economici e demografici. Questo approccio è l’unico intelligente e utile, sia per respingere quell’interpretazione securitaria che è propria dei reazionari, sia per sottrarsi a quella retorica che è propria della sinistra. I flussi migratori sono decisivi ai fini dell’equilibrio economico e di quello demografico delle nostre società. Partendo da questa considerazione e attraverso un percorso sufficientemente lineare, si arriverà a quella conclusione che è stata oggetto di derisione, ma che ha una sua validità sostanziale, il fatto cioè che l’immigrazione nei paesi occidentali costituisce una risorsa: gli europei hanno bisogno dei migranti almeno quanto i migranti hanno bisogno degli europei.
Questa impostazione è ovviamente ardua da accogliere e da comunicare, ma è la sola concreta e lungimirante. Insomma, l’unico approccio serio e razionale e, non a caso, l’unico costantemente scartato. Si preferisce, in genere, un approccio politico-demagogico che fa dell’immigrazione una merce elettorale, trattata dagli imprenditori politici dell’intolleranza, che trasferiscono le ansie collettive e le angosce sociali nella sfera pubblica, trasformandole in strumenti di acquisizione del consenso elettorale. Di fronte a questa strategia una impostazione alternativa che si affidi al sentimento della solidarietà, è destinata inevitabilmente a soccombere.
-Se ci soffermiamo in particolare sulla situazione italiana, il fenomeno è avvertito e trattato soprattutto con riferimento alla regolazione dei flussi in entrata o di spostamento in ambito europeo. La gestione dello stock è invece del tutto carente; ci riferiamo soprattutto a politiche attive nei confronti dei migranti presenti. Qui sembra valere il binomio legalità/illegalità, il resto delle problematiche, pur evidenti e urgenti, viene tenuto in sospeso. Cosa occorrerebbe fare in concreto?
-Intanto in questo disegno manca un soggetto fondamentale: mancano i circa 5.200.000 stranieri regolarmente residenti in Italia, spesso da decenni e altrettanto spesso titolari di un tasso signfiicativo di inclusione nel sistema dei diritti di cittadinanza. Questi milioni di stranieri regolari, non cittadini italiani e quindi privi dei diritti politici, sono pressoché assenti dall’arena pubblica e non si sono ancora dati una loro forma di rappresentanza. Questo è grave perché invece potrebbero costituire non solo un esempio virtuoso di convivenza pacifica, ma anche costituire una rete di massa di mediatori culturali: svolgere, cioè, un’attività di mediazione nei confronti di quegli stranieri non regolari che tuttavia dimostrano di voler essere regolarizzati e inclusi.
L’altra considerazione è che noi veniamo da un annus horribilis, nel corso del quale il principale strumento di inclusione che era lo SPRAR (Sistema di Protezione per Rifugiati e Richiedenti Asilo) è stato smantellato e solo adesso si inizia a ricostruirlo. Lo SPRAR è uno strumento estremamente importante per una ragione: risponde a un’idea di inclusione e di convivenza basato su piccoli insediamenti, distribuiti sul territorio in forma diffusa. E, dunque, già di per sé non evocativi di quella minaccia sociale che i grandi centri di accoglienza inevitabilmente suggeriscono.
Si tratta di ricostruire, con ancora maggiore intelligenza e generosità, un sistema di accoglienza fatto di piccoli insediamenti; e all’interno di questa strategia valorizzare tutte quelle risorse che solo precariamente sono sopravvissute a quell’opera di smantellamento voluta da Matteo Salvini: i corsi di lingua, quelli di formazione professionale, le attività di socializzazione e tutti quei progetti capaci di favorire la convivenza e la relazione tra residenti e stranieri.
-Marie Rose Moro, parlando del concetto di métissage, si riferiva a un processo di trasformazione reciproca tra migrante e nativo, che portasse gradualmente al riconoscimento di appartenenze multiple e coesistenti. Oggi le parole integrazione e inclusione riecheggiano in tutti i salotti televisivi, nei comizi politici e in rete. Che cosa ne pensa di questi termini? Ne abbiamo compreso il vero significato o nascondono ancora il fantasma dell’assimilazione?
-È una vecchia polemica. Non penso che il termine integrazione sia da bandire, non lo considero un termine neo-coloniale, espressione di una forma di dominio. Anche perché chi interpreta così il termine integrazione sembra preferirgli quello di inclusione. Che a mio avviso è addirittura più ambiguo, in quanto contiene una radice, una tonalità e un richiamo alla pratica della re-clusione e dell’imprigionamento. Tenuto conto che l’ultima cosa al mondo che mi interessi è quello di inventare un nuovo termine, che sarebbe inevitabilmente eccentrico o inservibile, io penso che si possa tranquillamente utilizzare sia il termine inclusione che integrazione.
Anche perché la parola integrazione contiene un significato positivo, richiama, cioè, l’inserimento all’interno di un sistema di diritti e di doveri. L’integrazione ha a che vedere con il sistema della cittadinanza, con l’incontro tra chi dentro quel sistema già c’è e chi ancora non c’è, ma aspira ad accedervi per ragioni molto serie. L’integrazione di per sé è un processo positivo, che va salvaguardato da ogni tentazione assimilatrice, ispirata dalla prepotenza e dalla volontà di sopraffazione. Comunque, integrazione e inclusione, che io uso indifferentemente, sono entrambe parole parziali e limitate, che è opportuno manovrare con la necessaria attenzione e intelligenza.
Poi il discorso si fa più ampio ed è opportuno porsi una domanda, che ha a che fare con il guardare agli stranieri sia sotto il profilo individuale sia sotto quello della comunità: dentro un processo di integrazione in un sistema di diritti e di doveri, qual è lo spazio assegnato alle identità culturali, sociali, religiose e in termini di stili di vita, costumi, orientamenti e alimentazione? La mia risposta è molto semplice: vanno trovati spazi adeguati all’espressione di tutte le forme di identità – se possibile, proprio tutte – che non contrastino con i diritti fondamentali della persona e con i principi dello stato di diritto. Tutto ciò che non confligge con questi due criteri essenziali della convivenza democratica, può essere rispettato e può trovare uno spazio: dal diritto alla propria confessione religiosa, a quello dell’abbigliamento. Se impostato correttamente, il ragionamento è meno scivoloso di quanto si creda.
Per capirci, è ovvio che non può essere tollerata un’educazione familiare che penalizzi il genere femminile, escludendolo dagli studi, perché questo viola il principio fondamentale della parità tra i sessi, su cui è basata la nostra Costituzione. È ovvio che non possono essere consentite le mutilazioni genitali femminili, perché esse negano il principio fondamentale dell’integrità fisica della persona.
Quest’ultimo esempio è molto interessante: io penso che la pratica delle mutilazioni genitali femminili, che persiste clandestinamente nel nostro paese, per un verso debba essere repressa con intelligenza e con sensibilità; per altro verso vada affrontata con l’educazione. Ed eventualmente trattata come un medico somalo la trattò molti anni fa all’Ospedale Careggi di Firenze, praticando una sorta di mutilazione incruenta e simbolica – attraverso una piccola puntura – che, da una parte, rispettava un rito ancestrale, dall’altra non comprometteva l’incolumità fisica del soggetto. Un esperimento che non durò a lungo e che suscitò molte polemiche. Una soluzione discutibile, ma da prendere in considerazione con lucidità. Ripeto, era un rito incruento e simbolico, ma anche un esempio di come tali questioni, in apparenza le più intrattabili, possano essere affrontate con serietà e con duttilità. Discusse, magari rifiutate, ma discusse e approfondite. Tutto ciò non è espressione in alcun modo di relativismo culturale. Uno degli atteggiamenti peggiori, infatti, è proprio quello che porta a dire: “sono i loro usi e dobbiamo comprenderli”. Questa è una modalità cripto-razzista di affrontare questioni complicate.
-A causa della pandemia stiamo vivendo una situazione molto particolare e che interessa tutti. Viene da chiedersi che effetto avranno, anche a lungo termine, sul nostro rapporto con l’Altro, le chiusure e le restrizioni attuate per contenere la pandemia: come cambierà il concetto di confine e quello di cittadinanza nel post-Covid?
-Per ora (e non so quanto durerà nel tempo) trovo miracoloso che nelle procedure di chiusura, nelle pratiche di controllo e di auto-controllo, nei sistemi di perimetrazione delle nostre vite e delle nostre relazioni, non si siano anche verificati processi di stigmatizzazione, cioè di attribuzione della colpa a questo o a quel soggetto, o meglio, a più di un soggetto, con conseguente pratica dell’ostracismo verso gruppi, presumibilmente stranieri, indicati come untori. Finora non è avvenuto, e trovo la cosa felicemente sorprendente, neanche nei confronti dei cinesi, che potevano essere il capro espiatorio privilegiato. Non so dire da cosa dipenda, potrebbe persino dipendere da quella miscela di bonomia e trasandatezza che sembrano essere i caratteri fondamentali della nostra personalità collettiva. Bonomia e trasandatezza che si traducono nella difficoltà, in questa particolare situazione, a individuare un nemico, anche se in altre circostanze è stato tutt’altro che difficile.
L’angoscia collettiva presente non è stata capace di focalizzare la propria attenzione su un oggetto particolare, si è mossa cioè con grande superficialità e ha ripercorso le dinamiche più classiche: le forme di colpevolizzazione si sono indirizzate verso gli obiettivi più convenzionali, ovvero le autorità pubbliche. Questo è stato lo sbocco della tensione latente e lo sbocco di quella stessa tensione quando si faceva manifesta. Per ora le cose sono andate così e possiamo dire, un po’ cinicamente: sempre meglio che se la prendano col “governo ladro” piuttosto che con i “negri” o con i “bangla”. Non vedo necessariamente che da questa situazione di auto-confinamento derivino ulteriori tentazioni di esclusione nei confronti degli altri, dei non appartenenti alla comunità nazionale.
Stiamo parlando di appena dodici mesi, ma attualmente non vedo processi di radicalizzazione dell’ostilità latente che corre nel corpo sociale italiano nei confronti degli stranieri, comunque non l’ho vista esprimersi con maggiore virulenza. Non vedo tuttavia nemmeno un processo opposto di natura positiva, quale la voglia di incontro e di relazione. Quest’ultima si manifesta solo nei confronti delle proprie cerchie familiari e parentali. Scorgo attenzione cioè verso le solidarietà corte, non certo verso le solidarietà lunghe. Anche perché c’è da considerare un fatto: tutti, inclusi i sovranisti più assatanati, hanno bisogno di uno straniero o una straniera che faccia da badante alla propria anziana madre, da baby sitter ai propri pargoli, da collaboratrice domestica nelle proprie case. Qui torniamo al discorso da cui siamo partiti, alle ragioni economiche e demografiche dei processi migratori.
-Veniamo ora alle recenti vicende della Brexit, che sottilmente o apertamente hanno riaperto tanti problemi non solo economici. Crediamo però che abbia mostrato con chiarezza come sia labile il concetto di straniero, soprattutto la sua reversibilità. Secondo lei si tratta di una vicenda isolata, che ha radici nelle vicende storiche e culturali inglesi, o questa vicenda può mettere in difficoltà i processi di integrazione nel resto dell’Europa?
-Sicuramente è vera la seconda ipotesi. Resta il fatto che i sovranismi, con la sola eccezione dell’Inghilterra, sembrano destinati o a rimanere minoritari, oppure ad affermarsi all’interno di società che restano democratiche, ma che ancora devono completare il loro percorso verso una democrazia compiuta. La controprova di questo la vedo nel fatto che se i sovranisti italiani, come è possibile, diventeranno maggioranza parlamentare, causa ed effetto di questo successo sarà proprio una modifica e una attenuazione molto rilevanti della propria stessa ideologia sovranista. Un governo di destra in Italia, cosa possibile, fondato su una cultura sovranista, sciovinista e xenofoba, a mio avviso, faticherà assai a sostenere, qualora lo volesse davvero, l’uscita dall’Europa. Non solo perché ne temerà le conseguenze, ma perché, piuttosto, non ne avrà né la forza, né la convinzione, né l’interesse. Sarà un singolare sovranismo all’interno di una cornice europea e non fuori da essa, come peraltro è quello di alcuni paesi dell’Est.