di Vera Fisogni
Premessa
Mentre non sembra arrestarsi la disaffezione dei giovani verso la fede, in ambito cattolico e cristiano, la Chiesa propone al mondo luminosi modelli di santità incarnati in adolescenti e giovani adulti. Dal 2010 ad oggi sono stati proclamati beati tre ragazzi italiani, le cui virtù eroiche brillano nel contesto di vite mediamente ordinarie. Tutt’altro che “santini”, Chiara “Luce” Badano, Sandra Sabattini e Carlo Acutis trasmettono un’idea di santità ad un tempo nuova, di appeal contemporaneo e, insieme, profondamente radicata nel Vangelo. L’esemplarità delle loro vite, soprattutto, va a colmare quel deficit di testimonianza (Matteo, 2018)[1] che sembra essere alla base del distacco dalla pratica dei sacramenti sempre più diffusa, soprattutto nel Vecchio Continente, anche nei Paesi di più antica cristianizzazione, come Italia e Spagna. In questo breve saggio intendo inquadrare alcuni luminosi profili di santità recenti, molto seguiti anche a livello di social network, per tratteggiare una teologia della gioventù. La seconda parte sarà invece dedicata a Teresa di Lisieux, proclamata dottore della Chiesa da Giovanni Paolo II proprio per un approccio alla fede caratterizzato dal candore intuitivo e introspettivo della prima giovinezza, nel cui solco sembrano mettere radici le più recenti esperienze di santità giovanile.
Non è una Chiesa per giovani?
È un fatto che nelle nostre parrocchie si allenti la pratica religiosa, ormai da decenni e che i giovani adulti siano sempre meno presenti alle funzioni, oltre che nell’attività pastorale. I due anni di pandemia hanno accentuato questo stato di crisi, favorendo la «de-sacramentalizzazione della fede»[2] e un generale affievolimento del senso stesso di appartenenza alla Chiesa, riassumibile nell’espressione inglese believing without belonging (credere senza appartenere)[3]. Tra i timori paventati dal gesuita Lobo Arranz, c’è quello della dispersione degli attualmente praticanti a cui va aggiunta la preoccupazione di un ulteriore indebolimento della partecipazione dei più giovani. «Pensiamo (…) a quei genitori che, avendo sperimentato una certa difficoltà a educare i figli alla fede, ora dovranno convincerli da capo all’importanza di partecipare alla Messa dopo vari mesi di assenza. E che dire delle comunità giovanili in formazione, alle quali sono venute meno le consuetudini che favoriscono la pratica sacramentale?»[4].
Il rapporto tra fede e giovani, almeno in Europa, non presenta nette differenze tra cattolici e appartenenti ad altre “famiglie” cristiane. Esiste una discrepanza abbastanza netta tra la pratica del culto e il sentimento personale circa il rapporto con Dio. Nel 2011 una ricerca di Barna Group, società di sondaggi della chiesa evangelica americana, condotta nell’arco di un quinquennio, ha rilevato che tre giovani cristiani su cinque, dopo i 15 anni – poco dopo il sacramento della cresima nella fede cattolica – non frequentano più la messa domenicale, né le occasioni di incontro della loro comunità religiosa. La disaffezione sembra dipendere, dai questionari raccolti tra i 18 e i 29 anni, da una visione del cristianesimo lontana dalla vita reale e dalla tendenza dei cristiani «demonizzare tutto ciò che è al di fuori della Chiesa»[5]. Va rilevato, in parallelo, il crescente appeal delle Gmg, le “Giornate mondiali della gioventù” istituite nel 1985 da papa Giovanni Paolo II, a cadenza biennale, il cui prossimo appuntamento è fissato nel 2023 a Lisbona, con un anno di ritardo a causa della pandemia. Del resto, sempre Barna Group, in un sondaggio online condotto su 1300 ragazzi della generazione Z (i nati dal 1996) tra marzo e aprile 2021«l’82% dei cristiani tra i 13 e i 18 anni dice che è importante per loro condividere la loro fede. E quasi l’80% dice di aver avuto una conversazione sulla fede con qualcuno nell’ultimo anno»[6].
In questo scenario, schizzato in modo succinto, spicca il rilievo che la Chiesa cattolica conferisce alla sanità dei giovani, che si esprime nel riconoscimento di vite eroiche di ragazzi portati alla gloria degli altari. Ben tre gli italiani che, dal 2010 al 2021 sono stati proclamati beati: Chiara “Luce” Badano (2010), Carlo Acutis (2020) e Sandra Sabattini (2021).
Tre giovani così vicini a noi e così lontani
Contemporanei, di generazioni differenti, eppure così simili, Chiara Luce (1971-1990), Sandra (1961-1984) e Carlo (1991-2006) condividono alcune esperienze di fondo. Vivono brevi vite, tra i quindici e i ventidue anni, sono ottimi studenti, hanno un’intensa vita spirituale e sociale. Se Chiara, ligure, ottiene il secondo nome Luce da Chiara Lubich per la luminosa energia che manifesta, con opere e pensiero, nel movimento dei Focolarini, la riminese Sandra è una fornace ardente di altruismo, a fianco di don Oreste Benzi. La prima è una sportiva. Gioca a tennis. Proprio durante un match scopre di essere malata di una rara forma, incurabile, di tumore osseo, che la porterà via a diciannove anni.
La seconda, futuro medico, ha l’età giusta per programmare una famiglia. È fidanzata, quando viene ferita mortalmente in un incidente automobilistico a soli 22 anni. Nelle narrative dei social network si parla di lei proprio come la “beata fidanzata”, perché non era mai successo prima che una promessa sposa arrivasse alla gloria degli altari. Ci sono mogli (Gianna Beretta Molla), vedove e vedovi (santa Rita, il signor Martin, papà di Teresa di Lisieux), ma nessuna nubenda.
E infine il ragazzino milanese riccioluto. Appassionato di Gesù, al punto da non perdere mai la messa quotidiana e da recitare ogni giorno il rosario, Carlo si prodiga con entusiasmo nella divulgazione del Vangelo e dei miracoli eucaristici. Pur appena quattordicenne, organizza, promuove e realizza una mostra su questa tematica, ancora oggi cliccatissima sul web. Dei tre giovani è l’unico nativo digitale, un tratto non accessorio, dal momento che Carlo mette a frutto la competenza informatica proprio nella didattica della fede rivolta ai più piccoli, con approccio multimediale: gli piacciono i fumetti, oggi diremmo le graphic novel”, è un “asso” in tutto quanto attiene al mondo digitale. Non a caso si è parlato di lui come patrono del web. Con i suoi quindici anni, tanta passione per le tecnologie, un’intelligenza brillantissima, ottimi studi e famiglia alto borghese, avrebbe potuto diventare qualcuno. La storia va diversamente. Qualcuno con la maiuscola gli si rivela nel quotidiano: la madre, in vari incontri pubblici, oltre che nel libro in cui racconta il figlio, fa notare l’assoluta normalità della vita di Carlo, che però ha una marcia in più sul piano spirituale. Nessuno, nel vederlo così sportivo e in salute, avrebbe immaginato che potesse morire a quindici anni, per un tumore.
Prima che sugli altari e nel canone dei santi, la luminosità della fede è, in Sandra, Chiara Luce e Carlo, consapevolezza profonda, vissuta, arricchita di continuo su due fronti: quello della preghiera, nel dialogo con Dio e quello delle opere improntate al bene. Contano certamente le famiglie nelle quali questi ragazzi sono cresciuti, non tanto per la testimonianza della fede in sé stessa – i genitori di Carlo, ad esempio, non erano praticanti – quanto per l’essere stati lasciati liberi di credere e testimoniare. Non sono profili di “santini”. Le loro vite non sono costellate di esperienze mistiche straordinarie (visioni, allocuzioni, miracoli, bilocazioni, segni corporei della passione), eccezion fatta per l’intreccio di spiritualità ed esistenza ordinaria.
Una santità “giovane”?
Possiamo rinvenire tracce di un modo speciale di vivere la santità in quanto ragazzi? In certo senso sì. Per almeno due ragioni. Da un lato c’è la consapevolezza, in tutti, della forza e dei limiti della fase esistenziale che stavano attraversando. Dall’altro, la giovane età si dà a vedere come un modo di essere “integrale” e “integro” di fronte all’esistenza. Caratteristiche che alimentano quell’insieme di qualità decisive per aprirsi un varco nel mondo: la determinazione, la capacità di visione, la flessibilità, la compassione, la freschezza, l’attitudine a condividere e ad entrare in relazione. Su un piano filosofico, a questa fase dell’esistenza – anche in virtù della complessa tessitura antropologica – corrisponde l’attitudine alla meraviglia, lo sprezzo del pericolo, l’anelito a fare dei propri sogni concreti piani di vita. Nell’insieme, dunque, l’essere giovani configura le premesse di uno stato nascente, anzitutto del proprio sé: ci si costruisce.
Se rapportiamo questa cornice, costituzionalmente propria della persona, al piano della fede e, in particolare di quella cattolica, ci accorgiamo che si adatta plasticamente al messaggio evangelico.
L’insegnamento di Cristo – l’Uomo nuovo – forgia persone sempre pronte a rimettersi in discussione di fronte all’alterità. Il prossimo, parola chiave del messaggio cristiano è sempre un incontro capace di spiazzare, aprendo al nuovo e all’impensato. È proprio dei giovani un approccio flessibile, curioso, senza pregiudizi o meno pregiudiziale nei confronti della vita. Nel Vangelo il Signore invita a lasciare che i bambini gli si avvicinino, per la loro capacità di intuire in modo comprensivo la complessità. Chiara, Sandra e Carlo hanno lasciato pensieri, non certo trattati teologici. Pensieri semplici e densi, scritti sul diario o consegnati ad amici e genitori. Non parlano la lingua della teologia tradizionale. Forse è anche per questo che la Chiesa ha così bisogno di questi testimoni, dalla fede cristallina e con la capacità comunicativa diretta dei ragazzi.
Scrive Chiara Luce: «I giovani sono il futuro: io non posso più correre, però vorrei consegnare loro la fiaccola, come alle Olimpiadi, quando uno corre poi si ferma e consegna la fiaccola a un altro: perché hanno una vita sola e vale la pena spenderla bene»[7].
Sandra a 17 anni affida questo pensiero al diario che compila fino alla vigilia dell’incidente mortale: «Dire: sì, Signore, scelgo i più poveri, ora è troppo facile, se poi tutto resta come prima. No, ora dico: scelgo Te e basta». Nei suoi scritti è continuo il travaso tra Gesù e il prossimo, l’uno incarnato/riflesso nell’altro/Altro e viceversa: «Ci siamo spezzate le ossa, ma quella è gente (il riferimento è ai disabili della Comunità Papa Giovanni XXIII di don Benzi, nda) che io non abbandonerò mai». Impressiona che siano le parole di una ragazzina tredicenne.
Nell’inquadrare lo specifico spirituale della Sabattini, il vescovo di Rimini ha impiegato parole che possono valere anche per Carlo e Chiara. «La figura di Sandra – ha detto Francesco Lambiasi – può essere segnalata come icona credibile e attraente della santità della porta accanto, compresa da papa Francesco come “la santità di quelli che vivono vicino a noi e sono un riflesso della presenza di Dio”». Per questo «non occorrono esperienze eccezionali di impegno ascetico o di contemplazione mistica. A Sandra è bastata la trama di una vita ordinaria, tessuta di fede viva, sostenuta da una preghiera intensa e diffusa. Una vita spesa nel lieto e fedele compimento del proprio dovere, punteggiata da piccoli gesti di un amore teso all’estremo, in una appassionata amicizia con Cristo “povero e servo”, in un servizio generoso e infaticabile a favore dei poveri. Una volta incontrato Gesù personalmente, lei non ha più potuto fare a meno di amarlo, di puntare su di lui, di vivere per lui, nella Chiesa»[8].
Lo stesso si può dire di Carlo. Il senso del Vangelo come imitazione di Cristo. «Offro tutte le sofferenze che dovrò patire al Signore, per il Papa e per la Chiesa, per non fare il purgatorio e andare dritto in paradiso». Colpisce il riferimento all’infrastruttura, scelta ad indicare la linearità e la velocità dell’innalzamento a Dio. C’è, in questo, una straordinaria consonanza con Teresa di Lisieux, come vedremo, in particolare con l’esempio dell’ascensore per raggiungere l’Altissimo. Il linguaggio di Carlo – fatto tipico dei giovani, anche nell’esprimere la fede – fa spesso ricorso alla quotidianità dell’esperienza. Una delle sue frasi teologicamente più complesse – «Tutti nasciamo come degli originali, ma molti muoiono come fotocopie»[9] – va in questa direzione, sia per potenza visiva che per intuizione del mistero dell’uomo.
Teresa, la bambina di Dio
Una svolta, nel senso del riconoscimento teologico dell’infanzia e della giovinezza, si deve certamente al papa (e santo) Giovanni Paolo II, che – oltre ad aver promosso le Giornate mondiali della gioventù – ha proclamato nel 1997 Teresa di Lisieux “Dottore della Chiesa” proprio sulla base di un approccio originale alla fede, che attinge allo sguardo dei giovanissimi.
Vista da una prospettiva non teologica e non confessionale, la vicenda di Teresa di Lisieux (1873-1897) appare sorprendente. Perché il perno della sua vita prima e della sua santità poi – l’infanzia spirituale – ha originato due posizioni contrastanti. Inizialmente, questa giovane testimone della fede cattolica fu tanto amata quanto banalizzata, ridotta a nostra signora dei vezzeggiativi, dei fiorellini, dei petali di rosa sparsi con prodigalità sugli affreschi che la raffigurano. Poi, a un secolo circa dalla sua morte, ecco che la carmelitana francese viene riconosciuta dottore della Chiesa[10], proprio in virtù della sua “piccola via” come strada per la santità. Diamole subito la parola per capire meglio cosa intenda:
«Lei lo sa, Madre: ho sempre desiderato d’essere una santa (…) mi sono detta: il Buon Dio non potrebbe ispirare desideri irrealizzabili, quindi, nonostante la mia piccolezza, posso aspirare alla santità» (Ms C, 2v).
Molti saggi sono stati scritti per chiarire il senso della sua intuizione, come pure non sono mancate le voci di autorevoli teologi dubbiosi sull’autentica grandezza teresiana. Uno su tutti, H. U. von Balthasar[11]. Ma anche questo è significativo della complessità di un pensiero in apparenza chiarissimo, quello di una ragazzina che aveva colto in profondità il senso del Cristianesimo come via alla santificazione, avendo Gesù Cristo come modello. Che cosa c’era di strano, allora, nel volersi fare santa? Pare di trovarsi di fronte una bambina: la stessa disarmante trasparenza, la stessa testardaggine[12] nel voler raggiungere uno scopo così arduo. Proprio come succede con i ragazzini che, alla domanda, “cosa vuoi fare da grande?” inanellano una serie di profili professionali alti, altissimi, talvolta stellari. Naturalmente Teresa era tutt’altro che una sprovveduta.
Basti pensare che aveva fatto di tutto per incontrare il Papa, a Roma, per ottenere l’autorizzazione ad entrare, quindicenne, nel rigoroso Carmelo, e si tormentava al solo pensiero di poter dispiacere Dio, percependo in profondità l’aridità mortifera del peccato. Lungi dal voler entrare nel merito del dibattito specialistico di pertinenza teologica, mi propongo di osservare, con sguardo fenomenologico, la piccola via di Teresa come la via teologica al candore: al bene come essenza stessa della condizione umana.
Teresa comprende che c’è qualcosa di molto specifico, nell’essere bambini e ragazzi, una componente insieme cognitiva ed esperienziale, capace da sola di introdurre al mistero dell’Essere eterno. Tutto questo avviene senza il supporto di un’attività teoretica, ma attraverso la vita quotidiana ordinaria, la dimensione degli affetti: il bambino si affida completamente a chi lo accudisce; il giovane fa riferimento al gruppo famiglia, alla scuola, agli amici. Attraverso le dinamiche affettive-relazionali, la persona – in età giovanile, a partire dalla primissima infanzia – perviene all’esperienza di bene come originariamente fondata nella relazione e quasi naturalmente si apre all’Altro. Se Gesù, nel Vangelo, esorta gli adulti a lasciare che i bambini gli si avvicinino, è per dare riconoscimento pieno, in ambito di fede, a questa consonanza essenziale con il Mistero del rapporto con Dio personale e trascendente. Non è certo un caso che Gesù si faccia conoscere al mondo da bambino, prima con la sua nascita, povera e umile, ma accompagnata da prodigi capaci di suscitare un’attenzione mai precedentemente tributata a un neonato. L’unica parentesi pubblica della sua vita, prima della predicazione, appartiene, inoltre, a quell’età liminare tra infanzia e adolescenza, che proietta Gesù nel contesto del Tempio. Troviamo un ragazzino che parla da sapiente, sa atteggiarsi da navigato teologo, suscita stupore per la sua faccia tosta. E, tuttavia, non perde nulla del suo essere pre-adolescente, nel momento in cui si rivolge ai genitori in ansia con una determinazione quasi sfrontata («Perché mi cercavate?», e poi: «Non sapete che devo fare la volontà del padre mio?», Lc 2,41-52).
Il ruolo della piccolezza, “ascensore” a Dio
Figlia del suo tempo, e affascinata dalle applicazioni tecnologiche della società industriale, da lei stessa sperimentate con stupore, Teresa elabora nel suo immaginario l’idea di un ascensore[13], che velocizzi l’approdo a Dio, forte del fatto che «in Amore non ci si solleva, ma si è sempre portati». Interessante l’uso della tecnologia del suo tempo per esprimere la profondità del pensiero teologico, che richiama l’autostrada di Carlo Acutis.
«Allora ho cercato nei libri santi l’indicazione dell’ascensore, oggetto del mio desiderio; e ho letto queste parole uscite dalla bocca della Sapienza eterna: “se qualcuno è molto piccolo, venga a me…» (Ms C, 3r).
Guardando a sé stessa, però, la giovane Teresa Martin riconosce di essere “troppo piccola per salire la dura scala della perfezione”. Di qui l’idea che un Altro possa aiutarla, proprio come succede con gli infanti:
«ho continuato le mie ricerche ed ecco quello che ho trovato: “Come una madre accarezza il figlio, così io vi consolerò: vi porterò in braccio e vi cullerò sulle mie ginocchia”».
L’idea di un’infanzia che conduce alla santità non è l’essere piccoli in quanto tale, anche se la condizione lo richiede. Teresa coglie lo specifico modo di essere dei giovanissimi, cioè la dipendenza dai genitori, non soltanto nel senso che questi agiscono per i propri figli, ma anche e soprattutto per le modalità affettive caratteristiche del loro rapporto. Proprio la carezza della mamma nei confronti del bambino, lo fa sentire saldo nella propria identità e nello stare al mondo; un papà disponibile all’ascolto dei figli adolescenti inquieti è decisivo per restituire un punto saldo nella più complessa fase della crescita. In modo intuitivo la carmelitana ventenne ha colto il ruolo decisivo della relazione nell’esperienza del bene[14]. Non il piccolo in senso quantitativo partecipa a costruire la santità teresiana, quanto le componenti dell’inadeguatezza, che richiedono l’accudimento, la modalità di trasmissione e costituzione del mondo del bambino e del giovanissimo, attraverso il preminente ruolo dell’affettività.
Teologia dell’infanzia e della giovinezza
Alla luce di un legame speciale tra giovane età ed esperienza di bene, si comprende la piena legittimità della sapienza teologica dei bambini, particolarmente riconosciuta dal Vangelo. Nell’esaminare la celebre frase di Gesù in Mt 18, 3-4, Romano Guardini[15] ha fatto notare come l’essere del giovanissimo non è più vicino al signore per il minor numero di peccati commessi, se comparati con quelli degli adulti, bensì in virtù della maggior prossimità a Cristo stesso.
Quasi che il bambino e il ragazzo possedesse un’intuizione morale così acuta da sintonizzarsi in modo diretto, potentemente intuitivo, alla fonte dalla quale la positività promana. A sostegno di questa ipotesi interpretativa, Guardini porta un’altra affermazione di Gesù, quella relativa allo scandalo che si commette quando si manca di rispetto all’integrità dei giovani, con la violenza o introducendoli alla trasgressione mediante l’esempio. Il teologo correla infatti l’esperienza di bene propria della giovinezza con la sapienza di Dio, attraverso la mediazione angelica.
Del legame tra “infanzia spirituale” e “infanzia angelica” parla, tra gli altri Naselli, ripreso da Zecca[16], ribadendo come si verifichi, nella santa toscana Gemma Galgani, morta all’età di 23 anni, «l’attuazione più genuina della volontà evangelica», che pone sullo stesso piano «piccoli e angeli, che vedono sempre la faccia del Padre». Si noti che anche i pastorelli di Fatima furono introdotti, in qualche modo preparati alle apparizioni della Vergine dall’angelo custode, che insegnò loro anche una particolare preghiera.
Nessuna immaturità teologica specifica, perciò, sembra attribuibile all’infanzia e prima giovinezza; semmai, alla luce di questi significativi esempi, si può riconoscere ai bambini un’attitudine intuitiva finissima, nel cogliere quanto sfugge ad altre età della vita. Ci riferiamo, in particolare, alle implicazioni metafisiche dell’essere, ovvero alla capacità – già finemente teoretica – di andare oltre il dato, con modalità non razionale, bensì forgiata da un’intima, empatica assimilazione della realtà in tutti i suoi gradi, dalla consistenza sensibile al concetto astratto, universale. Diventa così meno assurdo che una bimba di soli sei anni, come Giacinta, una dei tre pastorelli di Fatima, colga con piena profondità teologica l’inquietudine del peccato e si faccia promotrice, pur con il linguaggio della sua età, dell’evangelizzazione delle anime[17]. Si noti che Giacinta e Francesco Marto sono diventati santi “solo” nel 2017: tanto ha atteso la Chiesa per riconoscere la santità dei ragazzini non riconducibile a martirio. Un ritardo che si deve al dibattito – ancora aperto, nonostante il pronunciamento della Congregazione per le cause dei santi (1981)[18] – circa la capacità del bambino di comprendere le virtù cristiane e di viverle consapevolmente.
Entro questa cornice, acquista un particolare valore la presenza di testimoni della fede di giovane età, come Chiara Luce Badano, Sandra Sabattini e Carlo Acutis. Più che offrire un aggiornamento, nel linguaggio e nelle immagini impiegate, dell’evangelizzazione nella fede cattolica, questi santi ragazzini rilanciano il vero nucleo della fede, vale a dire la freschezza del messaggio evangelico. Non dimentichiamo che Vangelo è parola originata dal greco buona notizia. La notizia, oltre ad essere qualcosa che irrompe dal quotidiano, possiede di per sé una “novità” che la rende interessante. Alla giovinezza appartiene il nuovo in via, per così dire, costituzionale: nel vuoto di testimonianza, che caratterizza la nostra epoca post ideologica, i giovani santi si danno a vedere come provocazione e proposta.
[1] A. Matteo, Tutti giovani, nessun giovane. Le attese disattese della prima generazione incredula, Segrate, Piemme, 2018
[2] https://www.laciviltacattolica.it/articolo/postumi-spirituali-del-covid-19/
[3] L. Fanzaga, Se siete miei, vincerete, Segrate, Piemme, 2022
[4] https://www.laciviltacattolica.it/articolo/postumi-spirituali-del-covid-19/
[5] https://www.lastampa.it/vatican-insider/it/2011/10/12/news/perche-i-giovani-cristiani-lasciano-1.36924444
[6] https://cristiani.blog/la-generazione-z-vuole-parlare-di-fede/
[7] Fondazione Badano, Nel mio stare il vostro andare. Vita e pensieri di Chiara “Luce” Badano, Cinisello Balsamo, San Paolo Edizioni, 2019
[8] https://www.ilrestodelcarlino.it/rimini/cronaca/foto/sandra-sabattini-beata-1.6957631
[9] http://www.carloacutis.com/it/association
[10] La proclamazione, da parte di papa Giovanni Paolo II, avvenne in occasione della XII Giornata mondiale della gioventù, a Parigi, nel 1997
[11] H. U. von Balthasar, Sorelle nello spirito: Teresa ed Elisabetta della Trinità, Milano, Jaca Book, 1974
[12] La mamma, morta quando Teresa aveva pochi anni, ci ha lasciato della figlia un profilo caratteriale in cui spicca la caparbietà: «(…) è di un’ostinazione quasi invincibile: quando dice “no”, niente da fare. Anche se la mettessimo in cantina tutta la giornata, lei ci dormirebbe piuttosto che dire “sì”» (Ms A, 5v)
[13] Con la sorella Celina a Roma, Teresa aveva sperimentato questo apparecchio, facendone oggetto di riflessione teologica: «Siamo in un secolo di invenzioni. Oggi non vale più la pena di salire i gradini di una scala: nelle case dei ricchi un ascensore le sostituisce vantaggiosamente» (Ms C, 2v-3r)
[14] A. M. Sicari, La teologia di S. Teresa di Lisieux, Dottore della Chiesa, Milano, Jaca Book, 1997, pag. 440.
[15] R. Guardini, L’angelo. Cinque meditazioni, Brescia, Morcelliana
[16] T. P. Zecca, Gli angeli nella vita e negli scritti di Gemma Galgani, Milano, Paoline, 2005
[17] L. Gonzaga da Fonseca, Le meraviglie di Fatima, Cinisello Balsamo, San Paolo Edizioni, 1997; L. Fanzaga con D. Manetti, L’Aldilà nei messaggi di Medjugorie. La regina della pace chiama l’umanità alla salvezza, Milano, Piemme, 2011
[18] https://www.avvenire.it/chiesa/pagine/perche-ci-sono-pochi-bambini-santi. La Congregazione, in particolare, ha stabilito che a 7 anni «è in grado di rispondere consapevolmente alla grazia di Dio»